12 marzo 2007

Aggiornamento rassegna stampa del 12 marzo 2007


La manifestazione di Roma
Allegro sit-in o caciara anticlericale?

Marco Tarquinio

C'è da essere contenti quando una piazza può liberamente e civilmente popolarsi di qualche migliaio di cittadini che intendono manifestare la propria opinione. Molto di meno quando - com'è accaduto ieri, nel cuore di Roma, nel corso della kermesse promossa da alcune organizzazioni di omosessuali sul tema delle unioni di fatto - polemiche e slogan dei manifestanti si rivelano decisamente eccessivi e, purtroppo, volgarmente mistificatori.
Ma c'è davvero da preoccuparsi quando ci si ritrova a constatare che una simile deriva carnevalesco-ideologica è assecondata e, persino, enfatizzata dalla ridda di bandiere di fazione organizzata da forze politiche dell'area governativa: le stesse già scese in strada a Vicenza - Prc, Pdci e Verdi - più, stavolta, radicali e socialisti dello Sdi affiancati da un bel po' di Ds. E dovrebbe far riflettere un po' tutti sia la prontezza di ben tre ministri (Pollastrini, Ferrero e Pecoraro Scanio) a metter cappello su un'iniziativa di critico pressing sull'esecutivo formalmente nata "dal basso" sia la spensierata acquiescenza con cui gli organizzatori della protesta si sono acconciati a ritagliare per quei membri del governo uno spazio da assoluti protagonisti. Basti pensare che la prima, applaudita, arringa alla platea riunita per reclamare una «legislazione zapateriana» (che equipari cioè nella forma o nella sostanza matrimoni e convivenze) è stata condotta dalla ministra diessina Barbara Pollastrini. Fautrice, come ben si sa, dei Pacs alla francese e co-autrice dello sbilanciato e ambiguo disegno di legge sui Dico.
Un gioco delle parti troppo scoperto per poter suscitare sorpresa, ma abbastanza sfrontato da imporre seri interrogativi. E da indurre il presidente del Consiglio Romano Prodi a una pubblica manifestazione di «perplessità» per la scelta compiuta dai suoi ministri. I problemi che si pongono sono, infatti, di stile e di sostanza. Dal punto di vista di governo e maggioranza, ma anche - e, forse, di più - da quello dell a società civile.
Il fatto che chi è alla guida del Paese tenda contemporaneamente - con esponenti al massimo livello della sua classe dirigente - a presidiarne politicamente le piazze "in movimento" non è mai una buona notizia ed è sempre un segnale di crisi. Soprattutto se tale propensione di una maggioranza a manifestarsi come onnipresente insieme di forze "di lotta e di governo" s'accompagna al quasi incredibile tentativo di escludere parti essenziali della società italiana dal dibattito su temi di enorme rilevanza etica e sociale come sono quelli legati al matrimonio e alle libere convivenze. E questo, se si vogliono chiamare le cose col loro nome, è esattamente quanto sta dietro il frastuono - laicista e anti-laico - con il quale si vorrebbe tacitare i vescovi e i cattolici italiani. Impedendo loro di continuare a rammentare, con grande rigore civile, una verità elementare ed evidentemente scomoda: l'unica grande priorità inevasa della politica nazionale è quella di chiudere una buona volta la fase delle risposte incomplete e mortificanti all'emergenza-famiglia, perché solo così - solo a partire da questo impegno e non da altro - sarà possibile tenere insieme un tessuto di solidarietà sociale che resiste sempre più faticosamente e che tende a sfibrarsi.
Un frastuono che, nella piccola piazza riempita da allegri manifestanti e compresi militanti, ha finito più volte per farsi - come si dice a Roma - "caciara" anticlericale. Un'intolleranza che rischia di diventare davvero grave. Come grave è la sempre più manifesta pretesa di taluni politici di insignorirsi, in un modo o nell'altro, degli spazi della società civile.

Avvenire, 11 marzo 2007


I CATTOLICI E IL PAESE

Bagnasco: con tanta serenità e chiarezza
Il nuovo presidente della Cei: «Al servizio della collegialità, per il discernimento comune»

Dal Nostro Inviato A Genova Francesco Ognibene

Non è difficile immaginare che l'agenda dell'arcivescovo di una diocesi metropolitana come Genova trabocchi di appuntamenti. Tanto più se appartiene a un pastore che non si risparmia come monsignor Angelo Bagnasco: le visite pastorali e la Messa nelle acciaierie, il ritiro per i docenti universitari e un incontro all'ospedale pediatrico Gaslini, feste patronali, la via crucis cittadina, e poi intere mattinate di udienze in Curia. E da mercoledì 7 la presidenza della Cei, non certo un impegno lieve.
Al termine di una sequenza di incontri nel suo studio, come tirando il fiato, risponde per un'ora e mezza alle nostre domande, col tono pacato, netto e la sobrietà dei gesti che gli sono caratteristiche, senza esitazioni ma come prendendo le misure di ogni concetto per trovargli il nome esatto. Tra tanti temi aperti, viene spontaneo iniziare proprio da quell'agenda.

Monsignor Bagnasco, oltre a Genova ora anche la guida della Cei. Come farà?

Quando l'ho incontrato nella visita ad limina dei vescovi liguri, il Papa mi ha chiesto del mio ministero a Genova. «Santità - gli ho risposto - faccio la bella esperienza della manna quotidiana». E lui ha replicato con un sorriso d'intesa. La manna è l'affidarsi a Dio giorno per giorno con tutta la fiducia di cui si è capaci, sapendo che Lui è fedele: dà l'aiuto per un passo alla volta, non di più. Perché a ogni nuova giornata vuole che rinnoviamo la coscienza di non poter fare nulla senza di Lui. Questo è per me un criterio ormai abituale.

In questi giorni lei ha "fatto notizia": come si è sentito accolto dall'opinione pubblica?

Nella sostanza molto bene, e devo dire che la cosa mi ha anche sorpreso. Posso immaginare che non sarà sempre così, ma fa parte del servizio che mi è stato affidato. Ha pesato nei giudizi certo anche la successione a una personalità così capace e autorevole come il cardinale Ruini, che ha segnato la Chiesa in Italia per vent'anni. Raccogliere il testimone da una figura sim ile è una responsabilità grandissima, davanti alla quale mi sento umanamente inadeguato. È Dio però che conduce la Chiesa, ogni uomo porta ciò che ha e che è. Per questo mi sento sereno e fiducioso. Come dissi mesi fa entrando a Genova, desidero essere me stesso, senza impegnarmi a "copiare" i miei predecessori.

Il giorno dopo la nomina lei ha fatto per la prima volta il suo ingresso nella sede della Cei a Roma come presidente. Che cos'ha pensato?

Ho notato anzitutto la grande simpatia con la quale sono stato accolto da tutti. Penso al segretario generale monsignor Betori, al quale mi legano un'amicizia e una stima consolidate. Betori costituisce per me uno straordinario punto di forza. Poi ho incontrato i direttori e collaboratori, sentendo tra tutti un grande calore, espresso con semplicità e senza l'ombra di un pregiudizio. E in un istante ho compreso il loro amore per la Chiesa.

Quali pensieri la stanno accompagnando in questi giorni?

La notizia della nomina me l'ha data lo stesso Santo Padre. La mia prima reazione è stata di grande sorpresa e insieme di gratitudine, mi sentivo come confuso davanti al compito che mi veniva prospettato. Ho però avvertito con forza tutta la sua fiducia. Ho coscienza della grande responsabilità verso i miei confratelli: devo servire la comunione e la fraternità episcopale. Vedo la gravosità del compito anche nell'importanza di questo momento storico, con i tanti e delicati appuntamenti che attendono sia la Chiesa sia l'Italia.

Qual è il volto della Chiesa italiana oggi?

È una Chiesa sempre più consapevole della propria fede, della necessità di annunciare il Vangelo e di essere presente come lievito nella storia del nostro Paese, rispettosa ma incisiva, per il suo bene, com'è dovere di ogni singolo cristiano. La dimensione pubblica della fede cristiana, in termini di servizio e di chiarezza, è coessenziale sia alla sua natura ecclesiale sia al suo rilievo nella vita di ciascuno. È in questo se nso che la Chiesa italiana sta molto crescendo. Certo, questa fede va ancora molto consolidata per renderla più pensata, più fondata sulle sue ragioni profonde. Ma la Chiesa italiana sa che è suo compito proporre oggi quella stessa fede a tutti, propagando ancora la gioia che essa reca con sé.

È prematura qualsiasi considerazione programmatica. Può però abbozzare un'idea che ritiene più necessaria ora?

La storia non nasce con noi, per fortuna. Sono consapevole di dover raccogliere come meglio posso la ricchezza di chi mi ha preceduto, con alcuni criteri. Anzitutto penso alla fisionomia intrinseca della Cei, che è una struttura di comunione, di fraternità episcopale e di servizio ai vescovi nelle loro diocesi. Qui ci sono criteri da confermare con molta determinazione, in collaborazione con tutti i vescovi, per servire le Chiese locali. La Cei è un luogo di elaborazione comunitaria delle grandi linee pastorali, secondo la prassi ormai consolidata e fruttuosa degli orientamenti decennali. Naturalmente queste coordinate pastorali sono poi assunte dai singoli vescovi nelle rispettive diocesi, con una responsabilità che è loro propria e non delegabile. La Cei non si sovrappone ai vescovi, è al loro servizio. Infine, fa parte della tradizione della Conferenza episcopale essere luogo per il discernimento della storia.

Che parola dice oggi la Chiesa italiana alla società?

Entro alla Cei in un momento, come questo che segue il Convegno ecclesiale nazionale di Verona dell'ottobre scorso, nel quale a guidarci è il mandato della speranza cristiana. Ci sono poi le urgenze che la storia di oggi propone alla Chiesa italiana e che ben conosciamo, con la doverosa promozione e difesa dei valori della vita, della famiglia, della libertà educativa, della giustizia e della pace. È in tutto questo che occorre riportare la speranza cristiana.

Lei raccoglie il testimone dal cardinale Ruini. Quali elementi della sua eredità vuole fare suoi?

Due su tu tti. Anzitutto il suo approccio a qualunque tipo di problema, che è sempre stato sostanzialmente pastorale. C'è poi la grande intuizione del Progetto culturale che al cuore ha la questione antropologica. Ruini c'è arrivato prima di tutti, nel '94: già allora aveva capito che la cultura italiana sarebbe andata a misurarsi sull'identità della persona umana. Tutte le questioni eticamente sensibili hanno alla loro radice la visione dell'uomo.

Quale sarà il suo stile nella conduzione della Cei?

Tra le molte cose lette in questi giorni, c'è una parola nella quale mi riconosco: "serenità". Mai lo scontro, ma fermezza sui princìpi. Il Papa ci dà l'esempio: garbato nel linguaggio, ma senza cedere su quello che conta. È lo stile di chi vuole rendere il servizio della chiarezza.

C'è un legame speciale tra la Chiesa italiana e il Papa. Che valore assume oggi?

La sua presenza in Roma e il peculiare rapporto con la nostra Conferenza episcopale è una grazia singolare. Il Papa è vescovo di Roma, e guarda all'Italia con un occhio e un cuore tutti particolari. Quindi il nostro riferimento a lui e alla sua parola per noi vescovi italiani è un dono straordinario di cui far tesoro.

Sempre più in Italia si guarda alla Chiesa come a un punto di riferimento. Come avverte questa attesa?

La sento nel contatto con la gente semplice, negli incontri, in lettere o e-mail. Anche non credenti ci incoraggiano a non recedere sui valori fondativi della società. La gente che ha buon senso - ed è la grande maggioranza - attende dalla Chiesa quella fermezza che a una parte dei media pare sconveniente, con un clamore su alcuni temi che a chi ha dimestichezza con la realtà pare del tutto sproporzionato.

Eppure c'è chi legge questo atteggiamento in senso opposto, come una minaccia...

Va sfatato il pregiudizio delle presunte "mire egemoniche", come se la Chiesa volesse mettersi alla guida del Paese. Proprio perché non ha di mira se stessa è ancora più lib era per parlare del bene della persona e dunque della stessa società. Facendolo ad alta voce sui valori portanti, sempre nel rispetto di tutti, la Chiesa intende rendere un servizio alla verità della persona umana, che è il fondamento dello Stato e il cuore della redenzione. Il suo è un atto d'amore al Paese. Se cercasse la propria gloria asseconderebbe la corrente, non la risalirebbe.

Anche tra i credenti fa breccia l'idea che non si può impedire ad altri quello che contrasta con i propri valori. Come giudica questo atteggiamento?

È un criterio sbagliato, sul quale però ho l'impressione che ci sia un po' di ripensamento. Si comincia a comprendere che l'applicazione dell'individualismo alla fine va contro il bene di tutti. Anche nella storia recente la Chiesa ha sempre proclamato e difeso la libertà responsabile dell'individuo, facendo scudo a ideologie totalitarie di qualsiasi matrice. Nel clima di iperliberismo individualista di oggi la Chiesa si trova invece a ricordare che quella libertà non è un assoluto: l'individuo non vive da solo ma è continuamente in relazione. Questo rovesciamento in realtà porta da un'ideologia a un'altra di segno opposto: non più l'individuo come ingranaggio di un meccanismo ma entità autosufficiente, sciolta da ogni legame.

La Chiesa richiama lo Stato ai suoi doveri, ma non tutti gradiscono...

Va ricordato con chiarezza che le scelte individuali hanno sempre riscontri di carattere comunitario. Uno Stato deve difendere la libertà individuale insieme al bene comune, che non è la somma di tanti singoli vantaggi ma un organismo armonico retto sui valori capaci di creare il bene di tutti: la famiglia e il rispetto per la vita, la libertà di educare i figli e la libertà religiosa... Uno Stato che sta a guardare, per il quale tutto dipende esclusivamente dalle scelte dell'individuo, non ha in mente una categoria di bene comune.

Vale anche per la famiglia?

Certo. Legittimare qualsiasi istanza vuol dire andare contro un'esperienza millenaria, una tradizione universale: nella famiglia formata da uomo e donna e aperta a generare la vita l'umanità da sempre riconosce il luogo imprescindibile per la propria perpetuazione e per l'educazione alla vita stessa. La storia ci consegna questo patrimonio naturale, un dato oggettivo. La comunità sociale riconosce ogni nuova famiglia come soggetto importante, nucleo fondante della sua stessa sussistenza, e la tutela individuando in essa il requisito della stabilità e dell'impegno pubblico. I diritti derivano da questa funzione sociale. È interesse della società tutelare la famiglia, perché così facendo tutela anche se stessa. Ecco perché occorre insistere in tutte le sedi perché siano attivate efficaci politiche per un vero rafforzamento della famiglia come bene prezioso di un Paese.

Si fa un gran parlare della necessità di "nuovi diritti"...

Nessuna condanna per le convivenze, è inaccettabile invece creare un nuovo soggetto di diritto pubblico che si veda assegnati diritti e tutele in analogia alla famiglia. La legge ha anche una funzione pedagogica, crea costume e mentalità. I giovani già oggi disorientati si vedono proporre dallo Stato diversi modelli di famiglia e certo non vengono aiutati a diventare cittadini adulti. Molto di ciò che viene chiesto è già oggi garantito dal diritto privato, una via però rifiutata per creare un nuovo soggetto alternativo in nome di una pretesa ideologica.

Un altro nodo è quello relativo alla fine della vita. Su quale frontiera dovrà attestarsi la Chiesa?

Una società che codifica l'assoluta libertà di ciascuno su se stesso, ad esempio con l'autodeterminazione senza alcun limite rispetto alla morte, si pone sulla via dell'implosione: l'assoluta libertà sciolta da ogni vincolo è la premessa per qualsiasi forma di violenza, di sopraffazione, di conflitto. È necessario che la cultura di oggi - come le grandi culture del passato - torni a riconoscere il senso del limite. Noi cristiani la chiamiamo «creaturalità della persona», un non credente può trovare il limite nella coscienza di non poter essere padroni assoluti né degli altri né di se stessi. In nome di cosa si potrà dire che non possono essere concessi alcuni "diritti" reclamati da singoli o gruppi ma che la collettività riconosce come aberrazioni? Sciolta da valori oggettivi, che è compito di una società riconoscere, la libertà si rivolta contro se stessa.

In un Paese lacerato su tutto è ancora possibile trovare un accordo non al ribasso su questi princìpi?

Quando il Papa insiste sulla necessità di allargare gli spazi della razionalità intende dire che la ragione non va mortificata riducendola a strumento che tutt'al più indaga sul funzionamento delle cose. Sono anche altri gli spazi che la ragione può esplorare, come il senso della vita e del mondo, della gioia e del lavoro, del dolore e della morte. Dove poi la ragione trova un orizzonte decisivo è sul terreno della questione etica, la capacità cioè di riconoscere il bene e il male indagando razionalmente sui valori. Va recuperata la dimensione della natura umana oggettiva, contro la quale si vede all'opera un accanimento culturale da parte di un'ideologia che descrive l'uomo come costruzione culturale variabile. La conseguenza è la sostituzione di qualsiasi valore assoluto con interessi e desideri transitori, sui quali si consuma una divisione senza fine. Il diritto positivo, privato del suo fondamento nel diritto naturale, diventa terreno di affermazione della prepotenza.

Che cosa direbbe agli uomini che oggi reggono le sorti della nostra vita pubblica?

I politici che cercano il consenso rincorrendo alcuni aspetti parziali della società si allontanano dalla gente e dalla stessa idea del bene di tutti, oggi centrata sui grandi temi etici. La politica ha come scopo il bene comune, non l'inseguimento dei desideri.

Monsignor Bagnasco, come immagina la Chiesa italiana dei prossimi anni?

Una Chiesa ricca di speranza, entusiasta di annunciare Cristo all'uomo affaticato che attende proprio quel messaggio di speranza. La gente chiede ai cristiani e ai loro pastori un incoraggiamento per vivere la vita e affrontare la morte. La Chiesa di domani, impegnata per essere questo segno visibile di speranza, deve sempre più farsi madre e maestra. Oggi più che mai questi due volti sono inseparabili, perché la Chiesa sia davvero speranza per il mondo.

Avvenire, 11 marzo 2007

L'intervista di Mons. Bagnasco alla trasmissione "A sua immagine" e' consultabile qui

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