14 maggio 2007
"Gesu' di Nazaret": dibattito all'Auditorium
Vedi anche:
"GESU' DI NAZARET" DI JOSEPH RATZINGER-BENEDETTO XVI
IL DISCORSO STORICO DEL PAPA
Il Manifesto di Papa Ratzinger
VIAGGIO APOSTOLICO IN BRASILE: SPECIALE
VIAGGIO APOSTOLICO IN BRASILE (9-14 MAGGIO 2007)
Rassegna stampa del 14 maggio 2007
Dedicato a coloro che pensano che il Papa esageri sui temi etici
Aggiornamento della rassegna stampa del 14 maggio 2007 (2)
Aggiornamento della rassegna stampa del 14 maggio 2007 (4)
IL DIBATTITO
Augias, Scalfari & C. se la prendono col «Figlio di Dio»
Di Fabrizio Mastrofini
«Gesù di Nazareth tra storia e teologia»: tema impegnativo e difficile, che di fronte ad una sala gremita ha messo a confronto un solo teologo e studioso, padre Raniero Cantalamessa, cappuccino, Predicatore della Casa Pontificia - neanche presentato come già docente di Storia delle origini cristiane - con Paolo Flores d'Arcais, Eugenio Scalfari, sotto la regia di Corraudo Augias e con la professoressa Paula Fredriksen, statunitense, docente di Scrittura alla Boston University. Il dibattito si è svolto ieri nell'ambito del «Festival della filosofia», organizzato a Roma nella cornice dell'Auditorium. Nessuna cesura tra il Gesù storico e il Gesù della fede - ha sottolineato padre Cantalamessa nell'intervento, il cui testo è pubblicato in queste pagine - rilevando che il dibattito odierno e le contrapposizioni tra storici e teologi nascono dall'ignorare le regole della trasmissione orale dei testi. I Vangeli infatti prima di diventare gli scritti che conosciamo, hanno avuto una prima e lunga fase di trasmissione orale, e soltanto oggi viene studiata questa importante caratteristica, capace di modificare molte delle acquisizioni date per indubitabili. L'elemento sottolineato da padre Cantalamessa nella prima parte del dibattito, in cui i diversi relatori hanno esposto il loro approccio, è stato completamente ignorato nella seconda parte, in cui si è preferito rispondere ad una provocazione di Eugenio Scalfari, posta ad arte appunto sotto la regia di Augias. «Gesù di Nazareth ha costruito un percorso dentro di sé, ed è assolutamente normale che un profeta passo dopo passo possa pensarsi Figlio di Dio. Si tratta di una lettura psicologicamente ineccepibile, anche se soggettiva», ha concluso il fondatore di «Repubblica». Su questa affermazione e sul significato dell'espressione «Figlio di Dio» si è sviluppato così il dibattito seguente. Padre Cantalmessa ha rilevato la strumentalità dell'affermazione, spiegando piuttosto il significato dell'espressione, che nella Bibbia è applicabile ad un intero popolo, ai re, ai profeti. Quanto alla realtà del male nel mondo, di fronte all'obiezione che dall'epoca di Gesù nulla sia cambiato nella brutalità, malvagità e violenza degli uomini verso i loro simili, padre Cantalamessa ha replicato che «semmai è cambiato il modo in cui vediamo le vittime e il male. Le vittime non sono più vittime e basta; dopo Gesù non c'è più la sconfitta totale del capro espiatorio e Gesù stesso ne è esempio». La professoressa Fredriksen ha messo in evidenza la differenza di prospettiva tra il primo secolo cristiano e la nostra epoca: problemi di cultura, lingua, traduzione dei testi, universi concettuali distanti, rendono problematica e complessa la ricostruzione. Mentre Flores d'Arcais si è accanito a sottolineare che i dogmi dei Concili altro non sono che il frutto della lotta ideologica e dell'imposizione degli imperatori, la professoressa Fredriksen e padre Cantalamessa hanno cercato di aprire gli orizzonti della platea sul fascino di una ricerca che sappia coniugare insieme storia, teologia, archeologia, su una figura più che mai patrimonio culturale di tutta l'umanità.
Avvenire, 13 maggio 2007
Un rabbi «in tutto e per tutto ebreo», oppure un figlio della Galilea ellenizzata, imbevuto di filosofia cinica? Sono le due immagini di Cristo (opposte e inconciliabili tra loro) che oggi vanno per la maggiore tra gli studiosi e che pure pretendono di fare riferimento alle medesime scoperte recenti, come i rotoli di Qumran o la biblioteca di Nag Hammadi. È il mito che sul Nazareno esista una ricerca specialistica unitaria e rettilinea che procede inarrestabile verso la piena luce.
Gesù di Nazaret fra storia e teologia
La critica storica ha reso più umile e problematica l’ortodossia teologica, ma forse deve anch’essa accettare i propri limiti, dovuti sia alla situazione delle fonti, sia all’oggetto dei suoi studi che (almeno come possibilità) travalica i limiti del tempo. La problematicità e il senso del limite sono ciò che distingue di fatto le grandi monografie scientifiche su Gesù dagli autori in cerca di sensazionalismo È difficile risalire dai sinottici al Cristo reale perché non si tiene conto dei metodi di trasmissione orale nelle comunità di cultura non scritta. La razionalista «storia delle forme» ha proiettato all’epoca del Nuovo Testamento le leggi d’edizione di un libro moderno e ciò ha creato l’illusione di risalire da uno «strato» all’altro del testo, fino a un ipotetico nucleo originario. L’ipotesi della «Fonte Q» è stata assolutizzata.
Di Raniero Cantalamessa
Io credo che prima dell’alternativa espressa nel titolo di questa tavola rotonda «Gesú tra storia e teologia», ce ne sia un’altra di cui è necessario tener conto, e cioè «Gesú tra storia e storia». L’idea di una ricerca storica su Gesú unitaria, rettilinea che procede inarrestabile verso una piena luce su di lui è un puro mito che oggi nessuno storico serio tenta più di avallare.
1. Gesù tra storia e storia
Lasciando da parte le variazioni diacroniche, cioè le ricostruzioni storiche della vicenda di Gesú succedutesi l’una all’altra negli ultimi due secoli, mi soffermo un istante sulle variazioni sincroniche, cioè esistenti su di lui in una stessa epoca, la nostra. Cito una fonte insospettabile, Paula Fredriksen. Nella nuova introduzione scritta per il suo libro «Da Gesù al Cristo. Le origini delle immagini di Gesù del Nuovo Testamento», ella scrive: «I libri si moltiplicano a misura che lo spettro dei ritratti di Gesù si dilata. Nella ricerca scientifica recente Gesù è stato presentato come una figura di sciamano del I secolo, come un itinerante filosofo cinico, come un visionario radicale e un riformatore sociale che predica una etica egualitaria a favore degli ultimi, come un regionalista galileo che lotta contro le convenzioni religiose dell’élite della Giudea (il tempio e la Torah), come un campione della liberazione nazionale, o, al contrario, come suo oppositore e critico, e via di questo passo. Tutte queste figure sono state presentate con vigorosi argomenti e metodi accademici, tutte sono difese appellandosi a dati antichi. I dibattiti continuano briglia sciolta e il consenso – anche su punti essenziali quali i criteri in base ai quali procedere – appare una remota speranza». Spesso si fa appello ai nuovi dati e alle scoperte recenti che avrebbero finalmente messo la ricerca storica in una posizione di vantaggio rispetto al passato e cioè: la scoperta dei rotoli di Qumran, della biblioteca di Nag Hammadi, gli scavi archeologici, le ricerche sociologiche. Ma quanto aperte siano le conseguenze da tirare da queste nuove fonti storiche, appare dal fatto che esse hanno dato luogo a due immagini di Cristo opposte e inconciliabili tra loro, tuttora presenti sul campo. Da una parte un Gesù «in tutto e per tutto ebreo»; dall’altra un Gesù figlio della Galilea ellenizzata del suo tempo, imbevuto di filosofia cinica. Anche le ricerche sociologiche sono approdate a risultati diametralmente opposti, come fa notare il grande specialista su Gesù e il giudaismo E.P. Sanders: «Per alcuni, il mondo in cui visse Gesù viveva una profonda crisi sociale ed economica. La Palestina era sull’orlo del crollo, sotto il peso di una doppia tassazione, locale e romana, crescente indebitamento dei contadini, sfruttamento delle classi benestanti… Per altri, al contrario, era urbanizzata, cosmopolita e prospera, un concentrato di cultura ellenistica, in cui tutti, Gesù compreso, parlavano greco». Non stupisce perciò che nel campo del post-moderno si sia sviluppata una radicale sfiducia. Qui l’alternativa non è più né tra storia e teologia, né tra storia e storia, ma tra storia e interpretazione, o criticismo letterario. Non c’è nessun dato oggettivo previo alla lettura; tutto si gioca nel confronto diretto tra il lettore e il testo, con esiti radicalmente soggettivi e relativi. L’ultima monumentale (e a mio parere veramente innovativa) monografia sul Gesù storico scritta dall’inglese James Dunn conclude la rassegna delle opinioni con questo giudizio: «La perdita di fiducia nel metodo storico in ambienti postmoderni è completa. E per quel che riguarda la ricerca sul Gesù storico, i risultati di questa, in particolare se vi si annoverano i vari Gesù della ricerca neoliberale, semplicemente confermano il fallimento della metodologia storica tradizionale. Il fatto semplice e piuttosto sconvolgente è stato che gli studiosi dei vangeli e del Gesù storico non sono riusciti a produrre risultati sui quali vi sia accordo». Cosa concludere da tutto ciò? Che la ricerca storica su Gesù sia da abbandonare? No di certo. Lo stesso studioso appena citato ne dà l’esempio, dedicando ad essa la sua monumentale fatica. Credo che si possa applicare alla ricerca storica quello che un proverbio dice di Dio e cioè che «scrive diritto su righe storte». Nonostante il suo andamento da tela di Penelope, c’è in essa una conoscenza storica che avanza, nuovi orizzonti che vengono aperti, nuove ipotesi formulate, alcune delle quali si rivelano illuminanti e produttive. Quello semmai che si impone alla ricerca storica su Gesù è una maggiore umiltà e consapevolezza dei propri limiti intrinseci. La critica storica ha reso più umile e problematica l’ortodossia teologica, ma forse deve anch’essa accettare i propri limiti, dovuti sia alla situazione delle fonti, sia all’oggetto della ricerca che – almeno come ipotesi – travalica i limiti della storia. La problematicità, il pro e il contro e il senso del limite, è ciò che distingue di fatto le grandi monografie scientifiche sul Gesù storico dagli autori in cerca di sensazionalismo, i cui libri sono una lunga marcia trionfale verso conclusioni già tutte chiare in partenza. Tra le monografie serie, la più recente e accreditata è quella di Gerd Theissen e Annette Merz, «Il Gesù storico. Un manuale». Un errore metodologico dal quale gli storici seri mettono in guardia è quello di ritenere come «storicamente non accaduto» quello che è semplicemente «storicamente non dimostrabile». Su molti dati dei vangeli la storia arriva alla conclusione che non si possono sostenere in base ad argomenti storici, ma questo non giustifica la conclusione che dunque sono falsi. In particolare è da abbandonare l’illusione che, nello scrivere su Gesù, i credenti abbiano una precomprensione e i non credenti invece siano esenti da ogni pregiudizio. Scrive giustamente John Meier, autore di un’altra monumentale monografia sul Gesù storico: «Lo si chiami pregiudizio, tendenza, visione del mondo o posizione di fede, chiunque scrive sul Gesù storico scrive da qualche punto di vista ideologico; nessun critico ne è esente. La soluzione a questo dilemma non è pretendere un’assoluta oggettività che non può avere, né vagare in un totale relativismo. La soluzione è ammettere onestamente il proprio punto di vista, tentare di escluderne l’influenza nell’esporre giudizi scientifici aderendo a criteri certi, comunemente sostenuti, e sollecitare la correzione di altri studiosi, se la proprio vigilanza inevitabilmente commette errori».
2. Gesú, credente ebreo o filosofo cinico?
Parlando dei limiti della ricerca storica, vorrei metterne in luce uno che mi sembra decisivo. Riguarda la possibilità di una ricerca storica su Gesù che non solo prescinda, ma escluda in partenza, esplicitamente o tacitamente, la fede; in altre parole, la plausibilità storica di quello che è stato definito a volte «il Gesù degli atei». Non parlo in questo momento della fede in Cristo, nella sua divinità, ma di fede in Dio, di fede nell’accezione più comune del termine. Lungi da me l’idea che i non credenti non abbiano diritto di occuparsi di Gesù. Sono convinto che Gesù è «patrimonio dell’umanità» e che nessuno, neppure la Chiesa naturalmente, ha il monopolio su di lui. Quello che voglio mettere in luce sono le conseguenze che derivano da un tale punto di partenza e come la «precomprensione» di chi non crede incida sulla ricerca non meno che quella del credente. La mia convinzione è che, se si nega o si prescinde dalla fede in Dio non si elimina solo la divinità, o il cosiddetto Cristo della fede, ma anche il Gesù storico tout court, non si salva neppure l’uomo Gesù. Nessuno può contestare storicamente che il Gesù dei vangeli vive e opera in continuo in riferimento al Padre celeste, che prega e insegna a pregare, che fonda tutto sulla fede in Dio. Se si elimina questa dimensione dal Gesù dei vangeli non resta di lui assolutamente niente. Ma se Dio non esiste, Gesù non è che uno dei tanti illusi che ha pregato, adorato, parlato con la propria ombra o la proiezione della propria essenza, per dirla con Feuerbach. E come si spiega allora che la vita di quest’uomo «ha cambiato il mondo»? Sarebbe come dire che non la verità e la ragione hanno cambiato il mondo, ma l’illusione e l’irrazionalità. Come si spiega che quest’uomo continua, a distanza di duemila anni, a interpellare gli spiriti come nessun altro? Non c’è che una via d’uscita a questo dilemma e bisogna riconoscere la coerenza di coloro che negli ultimi anni l’hanno imboccata. La via d’uscita è quella che si è fatta strada nell’ambito del «Jesus Seminar» di Berkeley negli Stati Uniti. Gesù non era un credente ebreo; era nel fondo un filosofo nello stile dei cinici; non ha predicato un regno di Dio, né una prossima fine del mondo; ha solo pronunciato massime sapienziali nello stile di un maestro Zen. Il suo scopo era di ridestare negli uomini la coscienza di sé, convincerli che non avevano bisogno né di lui né di altro dio, perché loro stessi portavano in sé una scintilla divina. Sono – guarda caso – le cose che va predicando da decenni la New Age! Come viene giustificata storicamente questa nuova immagine di Gesù? Semplice: si assolutizza la fonte Q (la raccolta di detti di Gesù ricostruita dall’uso che ne fanno Marco e Matteo) come l’unico documento attendibile sul Gesù realmente esistito. Ma questo non basta, perché tra i detti di Gesù presenti in tale raccolta ce ne sono diversi incompatibili con tale immagine. Allora si distingue in tale fonte (essa stessa ipotetica!) tre strati successivi, di cui il più antico, detto Q3, l’unico autentico, consisterebbe in un nucleo di detti esoterici, vicino a quello che troviamo nel Vangelo copto di Tommaso. Io ho studiato un po’ di filologia classica e di critica testuale nei miei anni di università e ho imparato che le possibilità di cogliere nel segno con tali procedimenti sono praticamente nulle. I fatti sono aperti, in tal modo, a ogni manipolazione. Prima di costoro Nietzsche aveva chiaramente visto il dilemma e lo aveva risolto in maniera molto più coerente di oggi: facendo di Gesù non un filosofo rappresentante della razionalità greca, ma il suo irriducibile contrario.
3. Continuità o rottura?
Il «Gesú di Nazaret» di Benedetto XVI
Ora vorrei passare alla pars construens del mio intervento: «Gesù di Nazareth tra storia e teologia». Dopo tutto l’immenso impegno profuso da Reimarus ad oggi per liberare il Gesù della storia dal Cristo del dogma ecclesiastico, forse è utile a tutti riprendere in considerazione il punto di vista della tradizione e della dommatica ecclesiastica, fattasi più umile e più cosciente dei propri limiti, grazie proprio alla critica storica. È quello che, credo, ha inteso fare il papa Benedetto XVI con il suo libro «Gesú di Nazaret». Qualcuno gli ha mosso il rimprovero di bypassare, in tal modo, tutti i problemi e i dubbi sollevati dalla moderna critica storica. Ma io mi domando: cosa avrebbe dovuto fare il Papa, scrivere un’ennesima ricostruzione storica in cui discutere e controbattere tutte le obiezioni? Abbiamo sentito sopra quanto è lunga la lista di coloro che l’hanno fatto, da credenti o da non credenti, e non credo proprio che una ricostruzione in più, anche se scritta da un Papa, avrebbe fatto una grande differenza. Quello che il Papa ha scelto di fare è stato di presentare in positivo la figura e l’insegnamento di Gesù come inteso dalla Chiesa, partendo dalla convinzione che il Cristo della fede è anche rigorosamente il Gesù della storia. Poiché il Papa ha lasciato a tutti, in questo caso, la libertà di criticarlo, mi permetto anch’io una piccola riserva. Penso che la continuità tra il Gesù della storia e il Cristo del kerygma, come pure quella tra il Cristo del kerygma e il Cristo del dogma, per quanto reale, sia meno rettilinea e scontata di quanto appaia dalla sua, necessariamente sommaria, introduzione iniziale. Su questo punto penso si possa condividere l’opinione di Theissen e Merz: «I cristiani dopo la Pasqua hanno formulato su Gesù più affermazioni (vale a dire , hanno detto cose più grandi e più importanti) di quanto abbia detto di sé lo stesso Gesù storico. Questo "plusvalore" della cristologia post-pasquale rispetto all’autocoscienza di Gesù prima di Pasqua è basato, sia sul piano storico che su quello oggettivo, sull’evento della pasqua». Il contrasto tra le conclusioni degli esegeti e degli storici (anche cattolici) e quelle del Papa si relativizzano, tuttavia, se si tien conto che il Papa, da teologo, non si pone tanto sul piano soggettivo della coscienza che Gesù aveva di sé o gli altri avevano di lui, quanto sul piano oggettivo e ontologico. Da questo punto di vista egli ha perfettamente ragione di affermare l’identità del Gesù storico (il Crocifisso) con il Cristo risorto. È la certezza che sta alla base di tutto il kerygma apostolico. Theissen e Merz vedono tra le due fasi un rapporto come tra cristologia implicita e cristologia esplicita. Tra gli elementi di cristologia implicita che essi riscontrano nei vangeli, non pochi corrispondono a quelli sui quali fa leva anche Benedetto XVI nel suo libro: la formula «Amen», nel particolare uso che ne fa Gesù, la consapevolezza con la quale Gesù contrappone alla Torah e all’autorità di Mosè il suo «Ma io vi dico…», il particolare modo di rapportarsi al Padre, soprattutto la distinzione tra «Padre mio» e «Padre vostro», il perdono dei peccati, la superiorità rivendicata con forza da Gesù sul Battista che pure viene definito «il più grande dei profeti». Sarebbe ingeneroso misconoscere la ricchezza teologica e spirituale del libro di Benedetto XVI su Gesù, misurandolo unicamente con il metro del Gesù storico. Certo, è un libro scritto da credente per credenti e per persone interessate a conoscere il Cristo della tradizione e della Chiesa. Egli stesso dichiara di non volere entrare nella disputa che è propria della ricerca storico-critica, ma di presupporla e di andare oltre «mirando a una interpretazione propriamente teologica». Io vedo il suo libro più sulla linea di «Il Signore. Riflessioni sulla persona e la vita di Gesù Cristo» di Romano Guardini e prevedo per esso una tenuta molto più duratura nel tempo di quanto avrebbe potuto avere un’ennesima discussione, di carattere necessariamente apologetico, sul Gesù storico.
Il Papa si richiama esplicitamente all’esegesi canonica, cioè a quel tipo di esegesi credente che parte dalla convinzione di fede che Dio non ha un solo modo di rivelarsi al mondo, quello della storia; ne ha molti altri, tra cui il più importante è l’ispirazione biblica. Su questa convinzione che permette di leggere non solo «il frammento nel tutto» (cioè un testo nel contesto), come fanno i moderni, ma anche «il tutto nel frammento», come facevano i Padri (cioè l’intera Bibbia riflessa in ogni sua parte) si basa la lettura spirituale della Scrittura fatta dalla Chiesa lungo i secoli e di cui Henri de Lubac ha messo in luce la coerenza e la fecondità. È molto significativo che la scelta del Papa di attenersi al Gesù dei vangeli trovi, per certi versi, una conferma autorevolissima nella recente monumentale monografia di James Dunn ricordata sopra. In essa, dopo una serrata analisi dei risultati degli ultimi tre secoli di ricerche, lo studioso giunge alla conclusione che non c’è stata nessuna cesura tra il Gesù predicante e il Gesù predicato e quindi tra il Gesù della storia e quello della fede. Questa non è nata dopo la Pasqua, ma con i primi incontri dei discepoli, i quali sono divenuti discepoli proprio perché hanno creduto nel Rabbi di Nazaret. La difficoltà di risalire dai vangeli sinottici al Gesù reale è nata in buona parte dal fatto che non si è tenuto conto delle leggi che regolano la trasmissione delle tradizioni fondatrici di una comunità presso gruppi umani dalla cultura non scritta, come erano quelli tra cui si formarono e circolarono i racconti su Gesù. Lo studio di tali leggi (tuttora verificabili presso gruppi umani di cultura pre-letteraria) mostra che un fatto o un discorso ritenuto importante per la storia e la vita della comunità può trasmettersi con singolare accuratezza nei suoi elementi centrali, pur variando nei particolari a ogni ri-narrazione, per rispondere alle esigenze del momento. La critica storica (compresa la «Formgeschichte», o storia delle forme) ha tacitamente proiettato all’epoca del Nuovo Testamento le leggi che portano oggi all’edizione definitiva di un libro: riedizioni successive, ognuna basata sulla precedente, che modifica, aggiungendo o togliendo qualcosa. Questo ha creato l’illusione di poter risalire da uno strato al precedente, fino a isolare un ipotetico nucleo originario, che finisce quasi sempre per riflettere da vicino l’opzione di partenza dello studioso di turno. Cosa giungiamo a conoscere per questa via? Non – almeno direttamente – l’«interiorità segreta» di Cristo, cosa egli pensava di se stesso, ma il «Gesù come era ricordato»; «ricordato» però – e qui sta la differenza – non a distanza di tempo, dopo la Pasqua, da discepoli e comunità che reinterpretavano i fatti e gli insegnamenti mossi da interessi estranei, ma da coloro che per primi avevano visto e udito e avevano cominciato da subito a dare forma ai racconti. Letti in questo modo, afferma lo studioso, «i vangeli sinottici attestano un modello e una tecnica di trasmissione orale che hanno garantito una stabilità e una continuità nella tradizione di Gesù maggiori di quelle che si sono sin qui generalmente immaginate».
4. Lo spartiacque della Pasqua
Per molti storici la Pasqua non rappresenta un salto di qualità nella cristologia, ma un inizio assoluto. Ma più la ricerca storica accentua questo fossato, più aumenta le proprie difficoltà. Abbandonata da tutti la tesi di Reimarus della truffa cosciente dei discepoli, come si spiega un tale inizio? Tutto il futuro sviluppo della fede in Cristo riposerebbe sulla risurrezione, ma poi quando si va a guardare si vede che riposa sul nulla perché la risurrezione stessa è spiegata con la fede, come fatto soggettivo e non reale. Il cristianesimo appare una immensa piramide rovesciata il cui vertice poggia nel vuoto. Non è qui il luogo di intavolare un ennesimo dibattito sulla risurrezione. Mi limito solo a citare un’affermazione dello studioso inglese H. Dodd che condivido in pieno: «L’idea che l’imponente edificio della storia del cristianesimo sia come un’enorme piramide posta in bilico su un fatto insignificante è certamente meno credibile dell’affermazione che l’intero evento – e cioè il dato di fatto più il significato a esso inerente – abbia realmente occupato un posto nella storia paragonabile a quello che gli attribuisce il Nuovo Testamento». La risurrezione, si dice, è una metafora; è vero, ma il senso della metafora, come ha messo in luce Paul Ricoeur, non è di dire una cosa diversa dalla realtà, ma di dire, della realtà, quello che non si può dire in modo diverso. La risurrezione in se stessa si colloca al limitare o addirittura fuori del tempo e dello spazio e quindi della storia, ma c’è qualcosa che avviene nel tempo e nello spazio e che lo storico è tenuto a spiegare. Quello che si offre alla considerazione dello storico e gli permette di parlare della risurrezione, sono due fatti: primo, l’improvvisa e inspiegabile fede dei discepoli, una fede così tenace da resistere perfino alla prova del martirio; secondo, la spiegazione che di tale fede gli interessati, cioè i discepoli, ci hanno lasciato. Resta sempre pertinente l’osservazione di Martin Dibelius: «Nel momento decisivo, quando Gesù fu catturato e giustiziato, i discepoli non nutrivano alcuna attesa di una risurrezione. Essi fuggirono e dettero per finito il caso di Gesù. Dovette quindi intervenire qualcosa che in poco tempo non solo provocò il cambiamento radicale del loro stato d’animo, ma li portò anche a un’attività del tutto nuova e alla fondazione della Chiesa. Questo "qualcosa" è il nucleo storico della fede di Pasqua». Di questo "qualcosa" si sono tentate infinite spiegazioni alternative, ma finora nessuna ha resistito più a lungo del proprio autore.
5. La venerazione di Gesù Cristo
Dove e quando inizia dunque quello che chiamiamo «cristianesimo»? Se per cristianesimo si intende correttamente la venerazione di Gesù di Nazaret come Signore e essere divino, esso inizia con la Pasqua e la Pentecoste. Larry W. Hurtado ha ripreso recentemente su basi nuove, alla luce cioè della riconosciuta matrice giudaica e non ellenistica del cristianesimo primitivo, lo studio sull’origine del culto di Gesù condotto da W. Bousset all’inizio del secolo scorso. Ed ecco la conclusione a cui giunge dopo una ricerca che si estende per 750 pagine: «La venerazione di Gesù come figura divina esplose all’improvviso e presto, non poco alla volta e tardi, tra cerchie di seguaci del I secolo. Più in particolare, le origini stanno nelle cerchie cristiane giudaiche dei primissimi anni. Solo un modo di pensare idealistico continua ad attribuire la venerazione per Gesù come figura divina all’influenza decisiva della religione pagana e all’influsso dei convertiti gentili, presentandola come recente e graduale. La venerazione di Gesù come "signore", che trovava espressione adeguata nella venerazione cultuale e nell’obbedienza totale, era inoltre generale, non era confinata e attribuibile a cerchie particolari, ad esempio gli "ellenisti" o i cristiani gentili di un ipotetico "culto di Cristo siriaco". Con tutta la diversità del primo cristianesimo, la fede nella condizione divina di Gesù era incredibilmente comune. Le "eresie" del primo cristianesimo postulavano largamente l’idea della divinità di Gesù. Non è questo in discussione. Il punto problematico, piuttosto, era se vi fosse spazio per un Gesù autenticamente umano». Certo, se uno mette a confronto il Gesù dei vangeli con il Cristo di Nicea e di Calcedonia, a prima vista sembra esserci un abisso di mezzo. Anche se uno mette a confronto un embrione fotografato nel grembo materno con l’uomo adulto che ne è nato sembra esserci un abisso di mezzo, eppure tutto quello che l’uomo è diventato era in germe nell’embrione. Gesù aveva paragonato il regno da lui predicato al più piccolo dei semi, destinato a crescere e diventare albero grande (Mt 13,32). Secondo la fede della Chiesa, questo sviluppo, a parte tutti gli innegabili fattori storici, ha avuto un motore segreto: lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è il grande assente dalla ricerca storica su Gesù. A sentire pronunciare questo nome lo storico farà un soprassalto, gridando che si passa ad altro genere, che si fa teologia. Ma può la ricerca storica su Gesù ignorare quello a cui Gesù stesso, in testi di innegabile autenticità, attribuisce il suo potere di scacciare i demoni e di operare miracoli? Oggi è di moda parlare di Gesù e dei primi discepoli come di "carismatici itineranti", ma cosa rimane ai carismatici, se si prescinde dall’esperienza dello Spirito Santo? Paolo e gli Atti degli apostoli attestano che dopo la Pasqua la comunità fa ad ogni passo l’esperienza di essere guidata dallo Spirito di Cristo. Giovanni esplicita questa coscienza facendola risalire a una promessa formale di Gesù: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16, 12-13). Una profezia post eventum? Sia pure, ma resta comunque da spiegare l’evento! Lo Spirito Santo esula dal campo della storia, ma i suoi effetti sono nella storia e meritano pure di essere presi in considerazione. Questo sarebbe uno dei campi dove storia e teologia, anziché contrapporsi, dovrebbero lavorare insieme. È quello che James Dunn ha fatto egregiamente nell’altra sua opera «Gesú e lo Spirito. Uno studio dell’esperienza religiosa e carismatica di Gesú e dei primi cristiani».
6. Uno o tanti cristianesimi?
Mi resta da dire qualcosa a proposito della tesi secondo cui all’origine non ci sarebbe un cristianesimo, ma molti cristianesimi, cioè interpretazioni diverse del messaggio di Cristo, eliminate via via dalla crescente pressione dell’ortodossia sotto la regia della Chiesa di Roma. È possibile, perché no?, parlare di diversi cristianesimi, anziché di tendenze diverse all’interno di una stessa realtà in formazione, ma allora bisogna dire la stessa cosa di quasi tutte le istituzioni e le grandi novità della storia: non parlare di una religione ebraica ma di più religioni ebraiche, non di un rinascimento ma di più rinascimenti, di più rivoluzioni francesi e così via, perché tutte queste realtà sono il risultato di processi di scontro e di decantazione di tendenze e fattori diversi. I sociologi ci insegnano che è ciò che avviene di solito nel passaggio da un movimento «statu nascenti» all’istituzione cui esso da luogo. L’idea avanzata da qualche parte di ripartire da capo, rimettendo tutte le tessere nel sacco, cioè tutti i cristianesimi sepolti di nuovo in lizza, per dar vita a una forma nuova e inedita di esso, mi fa pensare al progetto di un nuovo Esperanto e al suo esito. Bisogna semmai riconoscere all’ortodossia delle origini il merito di aver condotto questa battaglia con i libri e i decreti, senza mandare al rogo nessuno, né Marcione, né Valentino, né Montano. Si dirà, non avrebbe potuto farlo; verissimo, ma sta di fatto che non l’ha fatto e almeno nei primi secoli della sua storia l’ortodossia non si è imposta con la forza e la conquista ma con gli argomenti e la vita. Le origini sono pure e ad esse possiamo guardare e ispirarci. La tesi di una ortodossia che trionfa eliminando le concorrenze sotto la guida potente di Roma è una leggenda storiografica. L’ortodossia non si afferma all’origine con un movimento che va dal centro verso la periferia, ma al contrario con un movimento che va dalla periferia verso il centro. Le lotte contro l’ebionismo, il docetismo, l’encratismo non partirono da Roma, ma giunsero a Roma, da Antiochia di Siria, Asia Minore, Alessandria d’Egitto, Cartagine, Lione in Francia. Roma nei primi due secoli e mezzo di storia cristiana è più arbitro tra le parti che parte attiva nella lotta contro le eresie. A Nicea stessa l’influenza di Roma e dell’Occidente in genere fu minima. Il giudizio sul ruolo di Roma nel trionfo dell’ortodossia è in buona parte frutto di una proiezione all’indietro di situazioni posteriori (se non addirittura contemporanee!). Sarebbe interessante, se lo spazio lo permettesse, passare in rassegna le diverse forme cosiddette di cristianesimo alternativo, per vedere quale di esse, se esistesse ancora, sarebbe accettata o accettabile da quegli stessi che ne lamentano la scomparsa. Non certo l’encratismo con il rifiuto di matrimonio e di possesso di beni; di sicuro non il marcionismo con il suo radicale antigiudaismo; neppure credo le varie forme di gnosticismo e di docetismo con il loro rifiuto del mondo materiale e la loro negazione dell’umanità reale di Gesù. Quanto ai famosi profeti e carismatici itineranti, tanto cari alla moderna ricerca sul Gesú storico, è curioso notare una cosa: oggi tale movimento è riapparso, per molti aspetti e in maniera spettacolare nelle Chiese cristiane, ma alcuni studiosi del Gesù storico lo guardano con ironia come frutto in blocco di fondamentalismo, irrazionalismo ed entusiasmo religioso. (Ne so qualcosa perché ne faccio, a volte, le spese anch’io!). C’è, è vero, una corrente che oggi incontrerebbe il favore di molti studiosi, l’ebionismo, cioè quella forma di cristianesimo che resta praticamente nella matrice ebraica, ritenendo Gesù un uomo e mantenendo l’osservanza della Torah. Si trattò, pare di comunità isolate vissute ad est del Giordano, di cui sappiamo pochissimo. Esse si esaurirono da sole di fronte all’imporsi del cristianesimo di marca giudeo-ellenistico ed ellenistico. Non ci fu nessuna guerra contro di loro, nessun rogo di libri. Paradossalmente la loro memoria non è stata cancellata dall’ortodossia, come si afferma, ma conservata da essa. Se non fosse per la citazione di qualche loro scritto e idea da parte degli autori ortodossi, non sapremmo assolutamente nulla su di essi. Impegnati a combattere la corrente molto più agguerrita dello gnosticismo che, all’opposto degli ebioniti, faceva di Gesù solo un Dio e non un uomo, gli autori ortodossi dedicarono ad essi scarsa attenzione. L’ortodossia del resto non ha annientato molte di queste forme alternative di cristianesimo, ma le ha fatte proprie liberandole dall’elemento «settario» e unilaterale che le rendeva «eretiche». L’istanza dell’encratismo sopravvive nella Chiesa nello stato di verginità e nel monachesimo; l’istanza della gnosi è assunta, nel suo elemento valido, dagli alessandrini Clemente e Origene. Il profetismo itinerante, dopo la crisi iniziale dovuta agli eccessi montanisti, rispunterà nella Chiesa con i movimenti mendicanti del Medio evo.
7. Conclusione
Non posso terminare questa mia analisi senza far notare una contraddizione. Tutta la spasmodica ricerca del Gesù della storia, quando è condotta per distanziarlo dal Cristo della Chiesa, si risolve in definitiva in un radicale rifiuto della storia. La storia a cui Gesù ha dato luogo, che ha creato con la sua vita, non solo non è presa in considerazione, ma ogni forzo è fatto da alcuni per annullarla, alla ricerca di un punto di partenza staccato da essa, in antitesi con essa. Non si applica in questo caso il principio ermeneutico della Wirkungsgeschichte, della storia degli effetti, che tiene conto non solo degli influssi subiti, ma anche degli effetti prodotti e degli influssi esercitati. L’interprete, afferma Gadamer, non può porsi al di sopra della tradizione che lo lega al passato che sta studiando, ma può cominciare a capire adeguatamente soltanto in quanto parte di questa tradizione e grazie ad essa. Non credo che ciò debba intendersi nel senso che solo chi aderisce interiormente al cristianesimo può capire qualcosa di esso, ma certo dovrebbe mettere in guardia dal credere che solo ponendosi al di fuori di esso si possa dire qualcosa di oggettivo su di esso. È attraverso la Chiesa e per la Chiesa che Gesù ha cambiato il mondo. Senza «quello sbaglio chiamato cristianesimo», come lo definisce qualcuno, non saremmo qui a parlare di lui. Gesù sarebbe oggi un oscuro rabbi della Galilea, il cui nome a malapena si leggerebbe in una nota a Tacito o a Giuseppe Flavio. Non ci sarebbero stati un Agostino, un Francesco d’Assisi, un Tommaso d’Aquino, Lutero, Pascal; non ci sarebbero state le cattedrali gotiche e le chiese romaniche, Dante, la pittura rinascimentale, Michelangelo e la Cappella Sistina, Bach e le sue Passioni, Mozart e le sue Messe. Non ci sarebbero stati, soprattutto, le innumerevoli schiere di uomini e donne che, in nome del Cristo conosciuto nella Chiesa, si sono chinati su tutte le sofferenze e le solitudini umane. Siamo sicuri che il nostro mondo sarebbe migliore senza tutto questo? Il cristianesimo storico non è stato solo crociate, inquisizione o guerre di religione, anche se, ahimè, è stato anche questo.
Avvenire, 13 maggio 2007
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