19 giugno 2008
L'inno di sant'Ambrogio in onore dei martiri milanesi Protaso e Gervaso: "La voce sonora del sangue che salva" (Inos Biffi)
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L'inno di sant'Ambrogio in onore dei martiri milanesi Protaso e Gervaso
La voce sonora del sangue che salva
di Inos Biffi
Ambrogio canta i martiri Protaso e Gervaso con intenso affetto e compiacenza. Egli alla fine è riuscito a ritrovare dei martiri autenticamente milanesi, la cui memoria era stranamente andata perduta.
Come ricorda lo stesso Ambrogio nel minuzioso resoconto degli avvenimenti alla sorella Marcellina - dei quali fu testimone oculare anche Agostino, residente a Milano in quel periodo - l'incentivo di quel ritrovamento è la domanda dei numerosi fedeli i quali esortavano il vescovo a consacrare la basilica da lui edificata nella zona cemeteriale di Porta Vercellina - e che già chiamavano "ambrosiana" - nello stesso modo con cui in precedenza aveva consacrato quella di Porta Romana, la Basilica Apostolorum, dove aveva deposto delle reliquie di alcuni apostoli. Scrive Ambrogio: "Risposi: "Farò così", se troverò reliquie di martiri. E subito penetrò in me come l'ardore di un presagio (...). E il Signore mi concesse la grazia".
E prosegue: "Nonostante lo stesso clero manifestasse qualche timore, feci scavare la terra nella zona davanti ai cancelli dei santi Felice e Nàbore. Trovai degli indizi probanti, (...) i santi martiri cominciarono a emergere. Trovammo due uomini di straordinaria statura (...) Tutte le ossa erano intatte, moltissimo era il sangue. Per tutti quei due giorni ci fu un immenso concorso di popolo". "Dio ha guardato a ciò che è meschino, perché ha rivelato alla sua Chiesa - nascoste sotto un'umile zolla - le reliquie dei santi martiri, la cui anima è in cielo, ma il corpo in terra, "sollevando - come vedete - il misero dalla polvere e innalzando dallo sterco il povero", per collocarli tra i capi del suo popolo. Quali altri dobbiamo stimare capi del suo popolo, se non i santi martiri? Nel numero di questi, dopo essere stati a lungo ignorati, vanno innanzi Protaso e Gervaso, i quali con i loro meriti hanno allietato la Chiesa milanese: sterile di martiri, benché madre di moltissimi figli".
"Queste nobili reliquie - continua sant'Ambrogio - sono tratte da un sepolcro indegno di loro e, come trofei, sono mostrate al cielo. Il tumulo è intriso di sangue, appaiono i segni del loro sangue di trionfatori, i resti sono stati trovati intatti al loro posto in buon ordine, il capo staccato dal tronco. Ora, i vecchi vanno dicendo di aver sentito in passato nominare questi martiri e di averne letto l'iscrizione funebre. Questa città aveva perduto i propri martiri, mentre - e qui il vescovo si riferisce ai martiri Vittore, Nabore e Felice - aveva sottratto quelli altrui". E continua: "Sebbene questo sia un dono di Dio, tuttavia non posso negare la grazia che il Signore Gesù ha concesso ai tempi del mio episcopato; poiché non merito di essere martire io stesso, vi ho procurato almeno questi martiri" - e sappiamo che per Ambrogio "il martire di Cristo è un tesoro della Chiesa" (martyr [...] Christi thesaurus Ecclesiae) -.
La loro "invenzione" appariva una grazia provvidenziale, quasi un consenso e un sostegno al vescovo e alla sua comunità nel momento difficile della lotta antiariana del 386. Egli stesso, nel primo discorso tenuto in occasione del ritrovamento, e riassunto alla sorella, dirà: "Ti ringrazio, Signore Gesù, perché hai suscitato per noi gli spiriti così potenti di questi santi martiri, in un momento in cui la tua Chiesa sente il bisogno di più efficace protezione. Sappiano tutti quali difensori io cerco, capaci di proteggermi ma incapaci di offendere. Tali difensori io desidero, tali soldati ho con me; non soldati del mondo ma soldati di Cristo. Per tali difensori non temo alcun risentimento, perché la loro protezione è quanto più potente tanto più sicura. Voglio che essi difendano anche quelli che me li invidiano. Vengano, dunque, e vedano le mie guardie del corpo: da tali armi non rifiuto di essere circondato".
"Questi nostri occhi erano chiusi, finché i corpi dei santi erano nascosti sotto terra; il Signore ha aperto i nostri occhi, vediamo i protettori che spesso ci hanno difesi; non li vedevamo, ma pure li avevamo con noi. (...) Ci siamo sottratti, fratelli, a un peso non piccolo di vergogna: avevamo questi protettori, e non lo sapevamo. Abbiamo trovato quel solo bene che ci fa apparire superiori ai nostri antenati: siamo giunti a conoscere l'esistenza dei santi martiri, di cui quelli avevano perduto ogni notizia".
I corpi dunque furono scoperti il 17 giugno del 386, un mercoledì; trasportati la sera del 18 nella basilica di Fausta, lì accanto, dopo una veglia notturna avvenne, il 19, la loro traslazione solenne e taumaturgica, nella vicina basilica "ambrosiana".
I martiri - dei quali nulla ci è noto tranne i nomi - furono sepolti sotto l'altare, nel luogo che il vescovo aveva scelto come propria sepoltura, e così che, per sua precisa disposizione, giacessero alla sua destra: "Queste vittime trionfali - scrive Ambrogio - si avanzano verso il luogo dove Cristo è offerta sacrificale. Ma egli, che è morto per tutti, sta sull'altare; questi, che sono stati riscattati dalla sua passione, staranno sotto l'altare. Questo posto io avevo scelto per me, perché è giusto che un vescovo riposi dove era solito offrire il sacrificio; ma a queste vittime sacre cedo la parte destra: questo luogo era dovuto ai martiri".
Ma veniamo all'inno. Esso trasforma in poesia e canto quei vari avvenimenti, solenni e concitati, in cui fu festosamente coinvolto tutto un popolo; e sarebbe servito per le successive memorie della Chiesa milanese in onore dei due martiri, alle quali accenna lo stesso Ambrogio, commentando il Salmo 118: "Celebriamo il giorno dei santi, nel quale sono stati rivelati al popolo i corpi dei santi martiri".
Riconoscendo nel loro ritrovamento un "nuovo dono" fattogli da Gesù, Ambrogio incomincia l'inno rivolgendosi - secondo uno stile ricorrente nella sua prosa - direttamente a lui per ringraziarlo: "Oggi nuove, Gesù, grazie ti canto, / poi che ho trovato un tuo regalo nuovo: / ho rinvenuto i martiri Protaso e Gervaso".
Questo "grazie ti canto (martyribus inventis cano)" del poeta cristiano, che si appresta a celebrare gli eroici testimoni della fede, fa quasi venire in mente l'inizio dell'Eneide virgiliana: Arma virumque cano.
Sentiamo in questi versi di Ambrogio l'eco di quanto aveva esclamato nel primo discorso, tenuto dopo la loro scoperta: "Ti ringrazio, Signore Gesù, perché hai suscitato per noi gli spiriti così potenti di questi santi martiri".
L'inno ambrosiano sarebbe servito per la loro memoria, e l'uso della prima persona in un testo liturgico appare piuttosto singolare, ma si direbbe che "colui che ha trovato un nuovo regalo (novi repertor muneris)" non riesca a contenere i propri sentimenti e la propria emozione, che sono poi quelli di tutta la sua Chiesa.
I versi che seguono ripassano le vicissitudini dei giorni dell'invenzione, spesso col linguaggio stesso della lettera di Ambrogio a Marcellina.
Vi si trovano anzitutto evocati la venuta alla luce delle vittime sante e il sangue abbondante (plurimum sanguinis) apparso nel loro sepolcro appena aperto, equiparato a una "sacra fonte" e sentito elevarsi come un grido al Padre, a somiglianza del sangue di Abele: "Erano ascose le sacre vittime, / ma non la sacra fonte di grazie: / non può celarsi un sangue / che grida a Dio che è Padre": "Il sangue ha una voce sonora - scriveva Ambrogio alla sorella -, che dalla terra raggiunge il cielo".
La concisione dei versi è ricca di richiami: i corpi dei martiri denominati vittime sante, piae hostiae, fanno pensare al martirio come a un sacrificio che continua l'immolazione di Cristo, mentre il sangue considerato come una "sacra fonte" è forse un riferimento al "battesimo di sangue" dei martiri, vittime innocenti.
Quel ritrovamento - prosegue il poeta - è stato una grazia o il frutto di una luce celeste: "Il dono di un raggio celeste / ci rivelò le benedette spoglie".
Già alla sorella Ambrogio parlava di una grazia concessa dal Signore Gesù ai tempi del suo episcopato e iniziata dall'"ardore di un presagio" a cui seguì il ritrovamento dei martiri, che in qualche misura sostituisce il martirio: "Più non moriamo martiri, / ma ritroviamo i martiri". "Poiché non merito di essere martire io stesso - aveva detto sempre alla sorella -, vi ho procurato almeno questi martiri".
E, a conferma e suggello dell'origine divina di tutto l'avvenimento, in particolare della "morte consacrata a Dio (mors sacra)" dei due martiri, ecco i numerosi miracoli che lo hanno accompagnato: così la guarigione di un folle, o il prodigio della luce riaccesa negli occhi di un cieco, minuziosamente descritta: "Chi esigere vorrà voci di testi, / quando parlano i fatti? / Guarisce un malato di mente, / così dei martiri proclama l'opera. // Un cieco torna a vedere e comprova / quanto è preziosa la morte dei santi: / il suo nome è Severo, / un dipendente di pubblico ufficio. // Toccata la veste dei martiri, / si strofina sugli occhi ottenebrati: / subitamente la luce rifulge, / la cecità debellata dilegua".
Si sente, dietro questa insistenza di Ambrogio, "la malafede degli increduli" - come egli la chiama -, ossia i dubbi degli ariani sulla storicità di quei martiri e sui miracoli che ne accompagnarono il ritrovamento; ma essi sono confutati dall'eloquenza dei fatti portentosi che tutti hanno potuto vedere: del resto, il cieco che ha riacquistato la vista - in cui si rinnova il miracolo di Gesù sul cieco nato e le circostanze che lo hanno accompagnato - non è uno sconosciuto, ma una persona ben nota, la cui guarigione può essere largamente attestata da testimoni diretti della sua cecità.
Nella lettera alla sorella Ambrogio aveva scritto: "Si chiama Severo, esercita il mestiere di macellaio; aveva dovuto abbandonare il lavoro quando gli era sopravvenuta questa menomazione", mentre Paolino nella Vita Ambrosii aggiungerà che quel macellaio risanato "ancor oggi presta piamente servizio nella basilica detta ambrosiana".
Ma i miracoli non sono ancora finiti, e sono cantati nell'inno: "Una gran folla d'ogni parte accorsa / di malati e di ossessi, liberata / dalle opprimenti spire dei demoni, / rendendo grazie alle sue case torna".
E anche di queste liberazioni, come "benefìci dei martiri", sempre negate dagli ariani, parla Ambrogio alla sorella, e sono ricordate da Paolino - "Anche corpi ossessi da immondi spiriti erano guariti, e con somma gratitudine ritornavano a casa" - il quale aggiunge: "E per questi miracoli dei martiri, di quanto cresceva la fede della Chiesa cattolica, di tanto diminuiva l'eresia degli ariani".
Ambrogio vede ritornare in quella gran quantità di prodigi i tempi apostolici, quando numerosi malati e ossessi venivano risanati e gli infermi si rialzavano coperti dall'ombra di Pietro, e quando "si applicavano su malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con Paolo, e le malattie si allontanavano da loro e gli spiriti maligni fuggivano (Atti, 5, 15; 19, 12): "Le antiche età davanti a noi rivivono (Vetusta saecla vidimus): / ecco si lanciano indumenti, al tocco / e all'ombra delle spoglie venerate / negli ammalati il vigore ritorna".
È quanto Ambrogio costata al termine della traslazione, nel discorso al popolo, così riassunto alla sorella: "Avete saputo - anzi avete visto con i vostri occhi - che (...) moltissimi, non appena toccata con le mani la veste dei santi, sono guariti dalle infermità, che li travagliavano; vedete che si sono rinnovati i miracoli dei tempi antichi (reparata vetusti temporis miracula) (...) Quanti fazzoletti vengono di continuo lanciati, quante vesti, sulle veneratissime reliquie e, solo per averle toccate, sono ripresi capaci di guarire! Tutti sono paghi di toccarle, sia pure da lontano; e chi le toccherà riavrà la salute".
Ambrogio ha così potuto, con intima soddisfazione, cantare il martirio dei suoi due santi prediletti, ora felicemente non più ignorati, scelti come suoi custodi e come vicina compagnia nel sepolcro.
Quel ritrovamento, suggellato da una varietà di miracoli, ha fatto vivere momenti epici di fede e di pietà, a lui e alla "Chiesa milanese (Ecclesia mediolanensis)", allietata dal loro sacrificio, "sterile di martiri - come dice Ambrogio alla sorella - e pure madre di moltissimi figli".
(©L'Osservatore Romano - 19 giugno 2008)
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