18 giugno 2008

Padre Šmalij: «La Spe salvi? Fondamentale pure per noi ortodossi, perché parla di una certezza: la vita in Cristo è piena di felicità da condividere»


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Ecumenismo

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Giovanna Parravicini

«La Spe salvi? Fondamentale pure per noi ortodossi, perché parla di una certezza: la vita in Cristo è piena di felicità da condividere». Parola del vicerettore dell’Accademia teologica di Mosca. Che il 25 marzo ha presentato l’enciclica accanto all’arcivescovo Paolo Pezzi. E ora spiega a Tracce perché quel documento è un passo fatto assieme

Padre Vladimir Šmalij, vicerettore dell’Accademia teologica di Mosca e segretario della Commissione teologica sinodale del Patriarcato di Mosca, il 25 marzo ha presentato al Centro Biblioteca dello Spirito, insieme all’arcivescovo Paolo Pezzi, l’enciclica Spe salvi. Una serata ricchissima, che gli abbiamo chiesto - in qualche modo - di proseguire, riprendendo e approfondendo il suo intervento alla luce dell’enciclica nel contesto della vita della Chiesa e della società in Russia.

L’enciclica Spe salvi mette a tema una virtù teologale, ma anche un bisogno profondissimo, sostanziale dell’uomo di tutti i tempi. Come lei ha sottolineato nella presentazione, il Papa cerca di unire le risposte al “perché del vivere” che dà il cristianesimo con le ricerche del mondo del senso della vita. È una grossa apertura al dialogo, e nel contempo un forte riconoscimento che la fede, l’avvenimento di Cristo è in grado di rispondere non solo alla cerchia dei fedeli, ma all’uomo come tale. Non è esattamente questo che la cultura laica di oggi contesta, cioè la pretesa della Chiesa di uscire dal ghetto, sia pure dorato, in cui è posta?

A parer mio l’enciclica tocca un tema attualissimo, cruciale, perché il tema della caduta delle speranze sembra il tratto distintivo della nostra civiltà, che, apparentemente così sazia, paga di sé, mostra in realtà a ogni passo la propria disperazione e assenza di prospettive. L’indice più significativo di questo fenomeno non è neppure l’alta percentuale di suicidi, bensì il gran numero di palliativi che la gente cerca di trovare per compensare il vuoto spirituale: la cultura di massa, il consumismo… Si cerca di tenersi su comprando, riempiendo la vita di cose. Come sacerdote, mi capita di incontrare molte persone che bussano alla Chiesa perché sono smarrite, disorientate, spesso non si rendono nemmeno conto che i problemi con cui si scontrano dipendono dal fatto che non sperano più in niente. La speranza - è molto giusto quello che rileva il Papa - è il motore dell’esistenza stessa della persona umana, non solo per il cristiano, ma per ogni persona. Per questo il dialogo con la società, con il mondo, sui fondamenti della speranza è fondamentale.
A me sembra inoltre che la speranza sia una cosa molto personale, intima. Al contrario, nel nostro mondo ciascuno cerca di compensare attraverso l’aspetto esteriore ciò che gli manca dentro, e non lascia valicare a nessuno il confine che introduce al cuore della persona, a cui invece fa appello il Papa.

Mi ha colpito la delicatezza di Benedetto XVI, che non si pone come un giudice severo, non impartisce insegnamenti dall’alto, con durezza, ma propone con estrema delicatezza alla singola persona delle risposte, mostrando al tempo stesso con grande lucidità e certezza gli errori o i fraintendimenti in cui incorriamo nel modo di intendere la speranza. Ad esempio, mette in guardia da riduzioni psicologiche della speranza: la speranza è una realtà concreta, oggettiva.

In questo senso Joseph Ratzinger mette chiaramente in luce i rischi di un soggettivismo che è una tentazione costante in Occidente, penetrando anche nella coscienza dei cristiani. Anzi, il Papa richiama fortemente a un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve tornare alle proprie radici. Che cosa significa oggi questo cammino per i cristiani, secondo lei?

Con la delicatezza e il rispetto dell’interlocutore che lo contraddistinguono, il Papa fa notare che gli stessi cristiani hanno operato una riduzione soggettivista, citando significativamente un esempio di interpretazione che nasce attraverso Lutero ma si è affermata anche nell’esegesi cattolica. Ed è interessante osservare il metodo del Papa, che si serve di questo esempio in funzione costruttiva, ecumenica, quasi invitando gli stessi protestanti a ritornare alle fonti della propria identità, a recuperare la certezza di essere stati salvati.

Quali aspetti dell’enciclica le sembrano particolarmente interessanti per la situazione russa?

A parer mio non vi sono elementi specifici riguardanti la Russia: Benedetto XVI si rivolge all’uomo in quanto tale, ai cristiani di tutte le tradizioni e ai non cristiani. I contenuti della Spe salvi forse sono particolarmente importanti per noi ortodossi in Russia, proprio per il fatto che si parla della speranza come certezza, come obiettiva caparra di vita eterna, da cui discende anche una posizione di impegno missionario: in forza della fede, e della speranza certa che essa suscita, siamo chiamati a testimoniare che la vita in Cristo è una vita piena di certezza, di felicità, che abbiamo il dovere di condividere. Mi ha colpito molto il passaggio sulla condivisione della sofferenza, che è propria dei santi. Quanti esempi di sofferenza abbiamo davanti agli occhi, che grande compito di com-passione abbiamo… noi cristiani non possiamo stare alla finestra, guardare con sufficienza alle sofferenze del mondo, accontentandoci di una salvezza individuale, egoistica.

I santi sono in primo luogo dei testimoni…

Anche qui, dobbiamo ritornare all’unica tradizione della Chiesa indivisa: sant’Atanasio dice che se qualcuno non crede alla Resurrezione, bisogna citargli l’esempio dei martiri che non hanno tenuto in nessun conto la vita, ma l’hanno data con semplicità, testimoniando con eloquenza la loro certezza nella nuova vita portata da Cristo. Anche oggi, quanti testimoni abbiamo davanti agli occhi! Non mi riferisco solo ai “santi” canonizzati, ma ai tanti che vivono la propria vocazione con letizia, testimoniando la loro certezza nelle prove quotidiane, nella prova… Penso a chi ha il coraggio di far famiglia e non ha paura di una famiglia numerosa, a tanti che vivono la malattia come un’offerta, alle persone consacrate; ho avuto la fortuna di incontrare moltissime persone che vivono la speranza in maniera oggettiva, sostanziale. Noi dobbiamo imparare a guardare, ad accorgerci del gran numero di testimoni che ci circonda, non dobbiamo vergognarci di citarli, di ricordare come la fede aiuta a vivere nella speranza le circostanze più diverse della vita.

Secondo lei, di che cosa è più carente, di che cosa ha più bisogno oggi la coscienza dei cristiani per ridestarsi?

C’è un aspetto che mi colpisce e mi piace particolarmente nella figura di papa Benedetto XVI, e cioè la sua simpatia, il suo apprezzamento della razionalità, della ragionevolezza, un aspetto che per l’appunto oggi manca sovente a noi ortodossi. Anche in Occidente non se ne comprende il senso, l’importanza, e ci sentiamo dire da occidentali che credono così di farci un elogio: «Ecco, da noi è tutto ridotto a razionalismo, non c’è spazio per sentimenti ed emozioni, mentre voi ortodossi avete la mistica». In realtà, questa pretesa «mistica» si riduce spesso alla rinuncia alla propria ragione, alla propria responsabilità, per delegare a un “padre spirituale” scelte di vita che implicano una decisione personale. No, il cristiano deve tornare a comprendere che la ragione è un dono che ci è stato fatto e un dovere che abbiamo, dobbiamo vivere e trasfigurare la vita alla sua luce. Non è un caso che nella liturgia ortodossa Cristo sia definito «luce della ragione»! Questa è una verità comune alle due tradizioni cristiane, d’Oriente e d’Occidente. L’accento su un misticismo che è in realtà rinuncia alla propria ragione è un fenomeno tipico dell’ortodossia solo in epoca tarda, mentre se prendiamo ad esempio Giovanni Damasceno con il suo aristotelismo, o i Padri cappadoci, ci troviamo davanti a un’esaltazione della ragione umana. Così pure il pensiero filosofico-religioso russo della fine del XIX-inizio del XX secolo implica un ritorno ai Padri e all’integralità della loro visione antropologica. Non stupisce che anche un ortodosso conservatore come padre Georgij Florovskij invitasse a leggere gli autori cattolici medioevali, oltre che i Padri: proprio perché lì è possibile ritrovare le stesse radici, lo stesso impeto cristiano, identico all’Est e all’Ovest, che si identifica nella trasfigurazione dell’uomo nella sua interezza, in tutti gli aspetti del suo essere, compresa la ragione, mentre gli influssi delle ideologie inducono a pensare che il cristianesimo non sia ragionevole, ma confinato alle sfere più periferiche, emotive e sentimentali, sia una cura “palliativa” di disagi esistenziali per cui, in caso di bisogno, si può far ricorso al prete come si andrebbe da uno psicoterapeuta.

La fede quindi è un cammino di conoscenza?

Certamente, come essere ragionevole non posso non prendere in considerazione la realtà, cioè prenderne coscienza e darne un giudizio morale. Se rinuncio alla ragione, per ciò stesso rinuncio anche alla mia coscienza, alla mia responsabilità e libertà adulta.

Interessante che il rifiuto della ragione come fattore della personalità cristiana conduca a due estremi che si toccano: in Oriente all’infantilismo di chi demanda all’autorità spirituale ogni responsabilità, in Occidente alla pretesa autonomia di alcune sfere della persona umana. In entrambi i casi si tratta di un dualismo, di una contraddizione che è appunto irragionevole, che è anticristiana, ma anche e soprattutto disumana, perché contravviene alla caratteristica dell’essere umano che è la sua ragione.

Io credo che stia qui uno dei compiti educativi fondamentali che abbiamo: insegnare alla nostra gente, ai nostri ragazzi, a essere responsabili, e la responsabilità non può sussistere che alla luce della ragione. Se la ragione non governa e giudica sentimenti ed emozioni, chi potrebbe perseverare nella propria vocazione, nella propria missione, nel compimento di un’opera?

Perché la Chiesa è sovente guardata come un luogo di divieti, di regole che tentano di imbrigliare i desideri, e non invece come il luogo della loro realizzazione?

Non è facile rispondere, ma credo che occorra anche il coraggio di riconoscere, innanzitutto, che gran parte dei desideri che la nostra società induce e coltiva si rivelano come dannosi per l’uomo. Basta guardare la pubblicità, gli stereotipi sociali che ci propinano alla televisione. Non possiamo esimerci dal domandarci, se è veramente questo ciò che il nostro cuore desidera, oppure se è quello che ci vogliono inculcare e che in ultima analisi risulta negativo, dannoso per noi. Quello che dico può sembrare amaro, impopolare, ma è una diagnosi necessaria per guarire dalla nostra malattia esistenziale: anche nel campo del desiderio non possiamo fare a meno della ragione, davanti al desiderio immediato che mi si para dinnanzi devo dare un giudizio, esaminarlo alla luce della ragione. Non è un caso, tra l’altro, che nella Spe salvi il Papa descriva Cristo come «pastore» e come «filosofo», cioè come maestro di vita sulla base della propria esperienza, del proprio esempio e dello strumento umano per eccellenza che è la ragione.
È interessante seguire la riflessione di Benedetto XVI sul superamento dell’ideologia, che costituisce un altro tema comune per l’Occidente e la Russia; si noti bene che il Papa si riferisce all’ideologia soprattutto in quanto forma di «ingegneria sociale», progressismo, e cita il marxismo semplicemente come una sua esemplificazione. Con la caduta del marxismo, l’ideologia progressista non è affatto sparita e continua a mostrarsi pericolosa per la civiltà umana; qui forse noi in Russia siamo più “vaccinati” contro determinate forme ideologiche, ma siamo inermi di fronte ad altre. Il problema, ripeto ancora una volta, oggi è il medesimo, sia pure nel variare di forme e modalità attraverso cui il fenomeno può emergere.

Spesso si indica come sfera privilegiata di dialogo tra cristiani di Chiese diverse quella sociale e caritativa, che sembra la più neutrale. Non esiste però il rischio di dissolvere la specificità del fatto cristiano, equiparandolo a una dottrina etica? Su che cosa, secondo lei, può fondarsi un reale dialogo e una reale collaborazione tra cristiani, in particolare tra cattolici e ortodossi, al fine di riproporre al mondo la vera speranza?

Monsignor Ilarion Alfeev, vescovo ortodosso russo di Vienna, ha parlato più volte della necessità per cattolici e ortodossi di unirsi per cercare e proporre insieme risposte a problemi di carattere morale, sociale e politico; ma questa discussione interconfessionale non può non accompagnarsi al dibattito più ampio, in campo sociale, sul ruolo che il cristianesimo deve rivestire all’interno della società nella sua interezza. Il Papa opera una delicata, ma netta formulazione della proposta della Chiesa di prendere in esame i problemi che dilaniano la società di oggi, invitando la società a partecipare alla discussione. Le comunità cristiane devono attivarsi soprattutto nel campo della condivisione della sofferenza, testimoniare al mondo l’alternativa che il cristianesimo costituisce alla disperazione della società attuale. Qui torna alla ribalta come fondamentale il problema dell’educazione, che può avvenire solo attraverso un incontro, attraverso una testimonianza. Non possono essere delle pure parole, dei clichè a convincere i giovani: solo dei testimoni viventi della bellezza sono convincenti. Il cristianesimo è una vita, e spetta a noi cristiani testimoniare che la speranza è ciò di cui viviamo. Il cristianesimo ha vinto il mondo come nuova vita, e non come ideologia. Una verità «performativa», e non puramente «informativa», esattamente come dice il Papa. Anche nella nostra Chiesa oggi si pone il problema della testimonianza dei laici, che per il momento non ancora fissata, codificata come nella dottrina della Chiesa cattolica, ma certamente è una questione di primaria importanza per la vita della Chiesa in futuro. Come dite voi, «laico cioè cristiano». Per la trasfigurazione del mondo.

© Copyright Tracce, maggio 2008

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