28 marzo 2008

La "Spe salvi" tra storia ed escatologia: "Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica" (Aldo Schiavone per l'Osservatore Romano)


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La "Spe salvi" tra storia ed escatologia

Una nuova alleanza tra Chiesa e modernità laica

di Aldo Schiavone
Direttore dell'Istituto Italiano
di Scienze Umane

La Spe salvi è un testo complesso e coinvolgente, scritto con grande maestria intrecciando una molteplicità di temi, da motivi più propriamente pastorali a riflessioni di ordine dottrinario e dogmatico. E insieme, è anche quel che si direbbe un saggio storico d'interpretazione, dedicato a misurarsi con nodi cruciali disposti su un arco temporale lunghissimo, dall'antichità romana al mondo contemporaneo.

Il filo conduttore, annunciato come di consueto già nelle parole dell'incipit - una bellissima citazione paolina - è un serrato discorso sulla speranza, giustamente considerata come la connessione per eccellenza fra due piani fondamentali: l'orizzonte della storia e quello dell'escatologia.

È una scelta forte, che tocca senza dubbio un nervo scoperto dei nostri giorni: quel che altrove (in "Storia e destino") ho creduto di definire come la perdita del futuro, l'incapacità, di attirare "dentro il presente il futuro", in modo che "le cose future si rivers(i)no in quelle presenti, e le presenti in quelle future", come adesso scrive suggestivamente il Pontefice (n. 7).
Per lui (e non potrebbe essere altrimenti) l'aspetto escatologico della speranza - della speranza cristiana - si lega alla certezza "che il cielo non è vuoto", che "al di sopra di tutto c'è una volontà personale, c'è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore" (n. 5). È il punto di giunzione - insieme limpidissimo e tormentato - fra speranza e fede: e opportunamente Benedetto ricorda in proposito l'elaborazione teologica medievale che arriva a definire appunto la fede come "sostanza delle cose sperate" (n. 7).

Ma l'uomo è anche storia, e la domanda capitale "che cosa possiamo sperare?" (n. 22) - un dubbio che gli eventi del nostro tempo rendono insieme decisivo e carico d'angoscia - richiede perciò anche una risposta sul terreno della storicità, e non solo su quello dell'escatologia. Ed è a questo punto che l'interrogarsi di Benedetto sulla speranza - sulla sua forma storica, potremmo dire - si trasforma, inevitabilmente e con grande forza, in un discorso sulla modernità: sulla sua ragione, sulle sue conquiste e sui suoi fallimenti. La prospettiva è fortemente sintetica, ma mai superficiale, e l'uso che viene proposto in queste pagine di Kant, di Adorno, persino di Marx, è veloce e a volte discutibile, ma sempre pertinente. Seguirne tutti i passaggi sarebbe però ora troppo lungo e complesso, e mi guarderò dal farlo. Cercherò invece di tenermi stretto a quel che mi sembra il dispositivo essenziale e più potente del ragionamento del Pontefice. Che si trova a mio avviso nell'affermazione che è oggi indispensabile "un'autocritica dell'età moderna" nella quale possa confluire anche "un'autocritica del cristianesimo moderno" (n. 22). Si tratta di una posizione di assoluto rilievo, che condivido pienamente. Sono del tutto convinto anch'io che i tempi - se sappiamo davvero interpretarli - siano maturi per una nuova alleanza fra cristianesimo e modernità laica, sulla base di una parallela revisione critica della loro storia, e che essa possa contribuire a quell'autentica rigenerazione dell'umano senza di cui il nostro futuro si riempie di ombre. Ma come lavorare a questo straordinario obiettivo comune? Benedetto accenna sobriamente ma con efficacia ai principali fallimenti ideologici e politici della modernità, che retrospettivamente ci appaiono in tutta la loro portata: l'idea troppo lineare, ingenua e materialistica di "progresso"; l'idea datata e inadeguata del comunismo come esito ultimo della rivoluzione francese, e come puro capovolgimento della base economica delle nostre società - e su tutto ciò non ci può essere ancora che concordanza.

Ma la modernità non è solo questo: e Benedetto lo sa benissimo. Egli ne individua infatti correttamente il cuore nella capacità di instaurare un nuovo e rivoluzionario rapporto fra scienza e prassi (n. 17) - cioè fra conoscenza e tecnica trasformatrice.

Ora, il punto è che questo intreccio fra scienza e tecnica - la potenza trasformatrice della tecnica - non sta solo andando "verso una padronanza sempre più grande della natura" (n. 24); ma sta facendo molto, molto di più. Ci sta spingendo - dopo milioni di anni di storia della specie - verso lo sconvolgente punto di fuga oltre il quale la separazione, che finora ci ha dominati, fra storia della vita (nel senso delle nostre basi biologiche) e storia dell'intelligenza (umana) non avrà più ragione di essere. Un punto in cui le basi naturali della nostra esistenza smetteranno di essere un presupposto immodificabile dell'agire umano, e diventeranno un risultato storicamente determinato della nostra ragione, della nostra etica e della nostra cultura. Questo ricongiungimento - il passaggio, almeno potenziale, nel controllo evolutivo della specie dalla natura alla mente - non è lontano: il suo annuncio è già nelle cronache quotidiane.
E allora io mi domando - e mi permetto di chiedere sommessamente: ma la forma storica della nostra speranza non dipende anche da come si schiera la Chiesa di fronte all'annuncio di questa novità radicale? È essa davvero pronta ad accoglierla? O forse l'"autocritica" di cui parla il Pontefice deve innanzitutto riguardare proprio questo aspetto? È vero, Benedetto ha ragione: la scienza - nessuna scienza - potrà mai "redimere" l'uomo (n. 17): c'è bisogno di etica e di valori. Ma può modificare - e lo sta già facendo - in modo drastico la trama esistenziale dell'umano, il suo vissuto più profondo, le prospettive primarie di vita (e di morte). Insomma, il rapporto storico tra modernità e speranza non può evitare di sciogliere questo nodo: il superamento definitivo e completo dei confini biologici assegnatici finora dal nostro cammino evolutivo può essere integrato all'interno di una forma storica di speranza compatibile con la fede e con l'escatologia? Nella "somiglianza" dell'uomo con Dio - anch'essa richiamata dal Pontefice (n. 43) - nell'infinito cui questo abissale paragone allude, può essere incluso il progetto di un umano finalmente libero dai propri vincoli naturali, e completamente padrone del suo destino "storico"?

In altri termini, quel che viene qui in questione è l'irrompere e l'installarsi dell'infinito entro la storicità del finito: anch'esso, come Benedetto sa bene, un tema cruciale della modernità, ben riflesso in alcuni grandi luoghi della filosofia classica tedesca.

E credo proprio che il significato della transizione rivoluzionaria che stiamo attraversando, che chiama la Chiesa ad assumersi responsabilità enormi, sia tutto qui: aver reso effettivo, diretto e determinante innanzi agli occhi di tutti quello che la modernità aveva solo lasciato intravedere ai suoi filosofi.

Che cioè l'infinito come assenza di confini materiali alla possibilità del fare, come caduta di ogni determinazione obbligata da una barriera esterna a noi (omnis determinatio est negatio) sta entrando stabilmente nel mondo degli uomini, e sempre di più dovremo imparare ad averlo accanto, e, se posso dir così, a padroneggiarlo. Con l'aiuto di Dio, starei per dire: ma non oso e mi fermo. Certo, io non ho alcuna autorità per sostenerlo, ma non riesco a sottrarmi all'idea che un Dio d'amore - come quello che Benedetto ci invita a pensare - non abbia bisogno di un uomo in scacco, di un uomo prigioniero della sua materialità biologica, di un uomo che abbia da esser protetto da se stesso con il richiamo a presunti vincoli "naturali", ma abbia scelto per amore di avere accanto un uomo totalmente libero, e totalmente libero, a sua volta, di sceglierLo. Non mi nascondo che mettersi in questo vento - arrivare cioè a immaginare un nuovo rapporto fra storia ed escatologia, dove l'infinito non stia solo dal lato della seconda, perché di questo in fondo si tratta - imporrebbe grandi cambiamenti nel magistero e nella dislocazione mondana della Chiesa. Ma davvero se non ora, quando? Le energie vi sono - e c'è la speranza. Forse, occorre solo un po' più di profezia - senza rinunciare alla dottrina.

(©L'Osservatore Romano - 28 marzo 2008)

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Condivido le riflessioni del Prof. Schiavone, fondate su un approccio di tipo, "scientifico" dell'Enciclica . Mi pare, tuttavia, di aver compreso (non solo con la lettura individuale, naturalmente ma anche con il prezioso aiuto dei numerosi commenti presenti nel blog) che il messaggio centrale del Documento del Papa vada un pò oltre le (naturalmente giustissime) considerazioni contenute in questo articolo. Io avevo capito, in sostanza, che nell'encicilica Papa Benedetto ci dicesse: ok, l'uomo grazie alla ragione, diventa sempre più padrone del suo destino storico, fa irruzione nell'"infinito" (pensiamo alle biotecnologia), si avvicina in qualche modo al mistero della creazione, e allora è importante il ruolo della Chiesa nel richiamare che Dio ha creato il mondo e l'uomo per Amore, rispettando, sempre per Amore, le "leggi naturali" del creato e la "libertà" dell'uomo. Ora, solo se l'uomo riesce a compenetrarsi nel mistero del Dio-Amore, e ad orientare di conseguenza la sua ragione ed il suo agire, può diventare nel senso più autentico "capace di Dio", e così "salvarsi" dalla disperazione che nasce dal constatare che la ragione, la scienza, la tecnica da sole, non sono in grando di dare "un senso", una "speranza di salvezza" all'esistenza, cioè qualcosa per cui valga la pena vivere. Buona giornata e buon lavoro a tutti voi. Carla

Anonimo ha detto...

Senza voler entrare nel merito dell'articolo, che a me sembra un avanzamento rispetto a quelli scritti su Repubblica, è molto importante che l'Osservatore ospiti interventi di tale levatura.Invece di sbrodolare su Allam, ai nostri giornalisti e opinionisti non farebbe male impegnarsi un pochino e non sempre campare di compitini già pronti.Saluti, Eufemia