21 marzo 2008
Meditazioni e preghiere per il Venerdì ed il Sabato Santo: un testo di Joseph Ratzinger
Vedi anche:
DISCORSI, TESTI, INTERVISTE E OMELIE DEL TEOLOGO E DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
SANTA PASQUA 2006-2007-2008
Per il Cristianesimo antico la croce è soprattutto segno della speranza: uno scritto di Joseph Ratzinger sulla Pasqua
Card. Ratzinger: "Cristo è risorto! L’irrevocabile è revocabile. La forza della trasformazione è presente. Orientiamo a essa la nostra vita!" (da "Cercate le cose di lassù")
VIA CRUCIS AL COLOSSEO: MEDITAZIONI E PREGHIERE DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER (Venerdì Santo, 25 marzo 2005)
(Caravaggio, "Deposizione")
Grazie a Marco possiamo leggere le meditazioni e le preghiere che Joseph Ratzinger scrisse per il Venerdi' ed il Sabato Santo.
Grazie ancora a Marco per la segnalazione ed il lavoro fatto :-)
R.
JOSEPH RATZINGER
VENERDI' SANTO – Meditazioni
Prima meditazione
«Essi guarderanno colui che hanno trafitto» (Zc 12,10; Gv 19,37). Con queste parole l'evangelista Giovanni chiude la sua narrazione della passione di Gesù; con tali parole introduce la visione di Cristo nello ultimo libro del Nuovo Testamento che noi chiamiamo 'Apocalisse'. Tra queste due citazioni della parola profetica dell' Antico Testamento è tesa tutta la storia: tra la crocifissione e il ritorno del Signore; in questa citazione si parla sia dell'abbassamento di colui che morì come un assassino sul patibolo, che della potenza di colui che verrà per giudicare il mondo, per essere quindi anche il nostro giudice.
«Essi guarderanno colui che hanno trafitto». Tutto il vangelo di Giovanni non è che la verifica di questa frase, il tentativo di concentrare il nostro sguardo e il nostro cuore nella contemplazione di lui. E tutta la liturgia della Chiesa non è altro che la contemplazione del trafitto, il cui volto nascosto viene scoperto dal sacerdote davanti agli occhi della Chiesa e del mondo, durante la celebrazione cultuale del Venerdì santo che costituisce il punto più alto dell'anno liturgico.
«Ecco l'albero della croce al quale è stata appesa la salvezza del mondo». «Essi guarderanno colui che hanno trafitto». O Signore concedici in quest'ora di poter guardar a te, nell'ora della tua oscurità e del tuo abbassamento ad opera di un mondo che vuole dimenticare la croce come si fa con un incidente spiacevole, che si sottrae al tuo sguardo, considerandolo un inutile sciupio di tempo e non si rende conto che è proprio qui che ci si fa incontro la tua ora decisiva, nella quale nessuno potrà sottrarsi al tuo sguardo.
Sul fatto della trafittura del crocifisso, Giovanni parla con una solennità stranamente circostanziata, che nello stesso tempo lascia riconoscere il peso che l'evangelista attribuisce a questo evento. Nella narrazione, che si chiude con una formula di testimonianza quasi scongiuratrice, vengono elaborati due testi del Vecchio Testamento, mediante i quali viene nello stesso tempo a risultare evidente il significato di questo avvenimento. «Nessun osso gli deve essere spezzato» (Gv 19,36; Cf. Es 12,46), dice Giovanni e adduce così un testo del rituale pasquale giudaico che contiene una prescrizione sull'agnello pasquale. Egli ci fa cosi comprendere che Gesù, il cui fianco veniva trafitto nello stesso momento in cui nel tempio avveniva lo sgozzamento rituale dell'agnello pasquale, è il vero agnello senza difetto nel quale si compie definitivamente il significato di qualsiasi culto e di qualsiasi rituale, nel quale soltanto anzi diventa manifesto cosa significa in realtà il culto. Ogni culto precristiano si basa in ultima analisi sull'idea della sostituzione: l'uomo è consapevole che fondamentalmente deve dare se stesso se vuole onorare Dio in maniera adeguata, ma sperimenta nello stesso tempo l'impossibilità di darsi e sorge quindi la sostituzione: ecatombe di olocausti divampano sugli altari degli antichi, viene sviluppato un sistema rituale possente, ma su tutto questo pesa il dramma di una inutilità impressionante, giacché non esiste nulla con cui l'uomo possa sostituire se stesso: qualsiasi cosa possa offrire, rimane sempre troppo poco.
La critica profetica al culto aveva sempre opposto all'autosufficienza dei ritualisti che Dio, a cui appartiene il mondo tutto, non aveva bisogno dei loro capri e dei loro tori; la facciata sfarzosa del rito nasconde soltanto la fuga da ciò che è autentico, dalla chiamata di Dio che vuole noi stessi e che può essere veracemente adorato solo nel gesto dell'amore senza riserva. Mentre nel tempio sanguinavano gli agnelli pasquali, fuori della città muore un uomo, il Figlio di Dio, ucciso proprio da coloro che credono di onorare Dio nel tempio. Dio muore come uomo - egli dà tutto se stesso agli uomini che non sono in grado di darsi a lui e pone quindi al posto dell'inutile sostituzione cultuale, la realtà del suo amore onnisufficiente. La lettera agli Ebrei ha sviluppato ulteriormente il piccolo accenno del vangelo di Giovanni interpretando la liturgia giudaica del giorno della riconciliazione come preludio figurato della liturgia reale della vita e della morte del Cristo Gesù. Ciò che agli occhi del mondo appariva come fatto assolutamente profano, come esecuzione di un uomo condannato a morte come agitatore politico, era in realtà l'unica vera liturgia della storia del mondo, liturgia cosmica attraverso la quale Gesù, non già nella sfera delimitata e cultuale del tempio, ma fuori, davanti al mondo tutto, penetrò attraverso la parete della morte nel tempio vero: alla presenza del Padre.
Ed egli non portò il sangue di animali in sostituzione, ma se stesso, com'è conforme all'amore autentico che non può donare che se stesso. La realtà dell'amore che dà se stesso ha eliminato il gioco della sostituzione, che ormai resta per sempre fuori causa, il velo del tempio è lacerato, ormai non c'è più culto se non nella partecipazione all'amore di Gesù Cristo che costituisce il perpetuo giorno di riconciliazione cosmica. E tuttavia l'idea della sostituzione ha ricevuto in Cristo un senso nuovo ed inaudito. Dio stesso in Gesù Cristo si è messo al nostro posto e noi tutti viviamo solo a partire dal mistero di questa sostituzione.
Nel secondo testo del Vecchio Testamento che viene inserito nella narrazione della trafittura rende ancora più evidente quanto abbiamo detto, per quanto permangano oscurità sui dettagli. Giovanni dice che un soldato aprì il fianco di Gesù con la lancia. Egli adopera la stessa parola che nel Vecchio Testamento viene usata per la descrizione della creazione di Eva dal fianco di Adamo dormiente. Qualsiasi cosa voglia indicare più da vicino questo accenno, in ogni caso è sufficientemente chiaro che nel vicendevole rapporto tra Cristo e l'umanità credente si ripete il mistero della creazione dell'origine e della donazione vicendevole dell'uomo e della donna. La Chiesa ha origine dal fianco aperto del Cristo morente o, se vogliamo esprimerci in termini diversi ed un po' metaforici: proprio la morte del Signore, la radicalità dell'amore ché perviene all'autodonazione, ha causato questa fecondità. Poiché egli non si è rinchiuso nell'egoismo di colui che vive solo per se stesso e mette la propria autoconservazione al di sopra di tutto, ma si è lasciato aprire per uscire fuori da se stesso ed esistere per gli altri, proprio per questo Egli raggiunge ormai tutti i tempi, al di là di se stesso. Il fianco aperto è quindi il simbolo di una nuova immagine dell'uomo, di un nuovo Adamo; esso sta a contrassegnare Cristo come l'uomo che esiste-per-gli altri. E forse a partire da qui soltanto possono essere intese le profondissime affermazioni della fede su Gesù Cristo, così come nello stesso tempo è a partire da qui che si fa manifestò il compito immediato affidato dal crocifisso alla nostra vita. La fede dice di Gesù Cristo che Egli è una sola persona in due nature; nel testo greco originale si dice in maniera più esatta e appropriata che egli è una sola ipostasi, un unico essere autonomo.
Nel corso della storia ciò è stato sempre nuovamente equivocato come se a Gesù mancasse qualcosa della sua umanità, come se per essere Dio dovesse in qualche modo essere meno uomo. È vero proprio il contrario: Gesù è l'uomo vero, dal quale è misurato ogni altro uomo, al quale deve andare ogni essere umano per pervenire alla propria autenticità. Ed egli è uomo perfetto proprio in quanto in questo non è ipostasi, essere che sta presso se stesso. Infatti più elevato ancora che il poter essere presso se stessi è il non-poter-stare-presso-se-stessi e il non volerlo, l'andare agli altri partendo dal Padre. Gesù è per così dire nient'altro che il movimento da sé al Padre e agli uomini. E proprio perciò, perché in lui è stato radicalmente spezzato l'anello del roteare attorno a se stessi, egli è nello stesso tempo figlio di Dio e figlio dell'uomo. Proprio perché egli esiste per gli altri totalmente, egli è totalmente se stesso, immagine finale della vera umanità. Diventar cristiani significa diventare uomini, pervenire alla umanità vera, all'essere-per-gli-altri e all'essere-da-Dio. Il fianco aperto del crocifisso, la ferita mortale del nuovo Adamo, è il punto di partenza del vero essere umano dell'uomo: essi guarderanno a colui che hanno trafitto.
Seconda meditazione
Volgiamo ancora una volta il nostro sguardo al lato aperto del Cristo crocifisso, giacché questo sguardo costituisce il senso intimo del Venerdì santo che vuole riportare i nostri occhi via da tutte le attrazioni del mondo, dalla fata Morgana delle sue promesse in vetrina, al vero punto direzionale che unico ci può garantire il cammino in mezzo al groviglio di viuzze che girano sempre attorno allo stesso posto.
Giovanni ha espresso in maniera ancora diversa, rispetto a quella precedentemente considerata, il pensiero che la Chiesa deve la sua origine più profonda al fianco trafitto di Cristo. Egli accenna al fatto che dalla ferita del fianco sono usciti sangue ed acqua. Sangue ed acqua stanno ad indicare per lui i due sacramenti fondamentali, battesimo ed eucaristia, che a loro volta costituiscono il contenuto autentico dell'esser-chiesa della Chiesa. Battesimo ed eucaristia sono i due modi in cui gli uomini possono essere inseriti nello spazio vitale di Gesù Cristo. Il battesimo sta a significare infatti che un uomo diventa cristiano e si pone sotto il nome di Gesù Cristo. E questo stare sotto un nome significa molto di più che un puro gioco di parole; ciò che sta a significare può essere visto un po' attraverso l'evento del matrimonio e la comunità di nome che si istituisce tra due persone come espressione dell'unione vicendevole del loro essere, che avviene appunto nel matrimonio. Il battesimo che, come attuazione sacramentale del divenire cristiani, ci unisce al nome di Cristo, sta a significare esattamente un evento simile al matrimonio: compenetrazione della nostra esistenza con la sua, inserimento della nostra vita nella sua, che diventa cosi criterio e spazio del mio essere umano. L'eucaristia è a sua volta comunione di mensa con il Signore che ci vuole trasformare in lui per condurci cosi l'uno verso l'altro, giacché tutti mangiamo lo stesso pane. Non siamo infatti noi ad assumere il corpo del Signore, ma è Lui che ci cava, per così dire, fuori da noi stessi e ci inserisce in Lui per farci Chiesa.
Giovanni riconduce i due sacramenti alla croce; egli li vede defluire dal fianco aperto del Signore e considera quindi compiuta la parola del discorso di congedo: io vado e torno a voi (Cf. Gv 14,18-19). Proprio mentre me ne vado vengo a voi; anzi la mia dipartita - la morte sulla croce - è essa stessa il mio ritorno. Fin quando vivremo il nostro corpo non è soltanto il ponte che ci unisce vicendevolmente, ma anche la barriera che ci separa, ci rinchiude nell'inaccostabilità del nostro io, dentro alla nostra forma spazio-temporale. Il fianco aperto diventa nuovamente il simbolo della nuova apertura che il Signore viene a costituire mediante la sua morte: ormai la barriera del corpo non lo lega più, sangue ed acqua scorrono attraverso la storia. In quanto risorto egli è lo spazio aperto che ci chiama tutti. Il suo ritorno non è soltanto un avvenimento lontano, alla fine dei tempi, ma è iniziato già nell'ora della sua morte, a partire dalla quale egli viene sempre nuovamente in mezzo a noi. Nella morte del Signore si è compiuto quindi il destino del seme di grano: nel pane di grano dell'eucaristia noi riceviamo l'inesauribile moltiplicazione di pane dell'amore di Gesù Cristo, sufficiente a saziare la fame di tutti i tempi e che proprio in questa maniera vuole assumere anche noi al servizio di questa moltiplicazione di pani. I due pani di orzo della nostra vita potranno apparire inutili, ma il Signore ha bisogno di essi e li esige.
I sacramenti della Chiesa sono frutto del seme di grano morente. Riceverli significa per noi donarci a quel movimento da cui essi provengono. Si esige cioè da noi di penetrare in quel perdersi, senza del quale non ci possiamo ritrovare: «Chi vuole conservare la sua vita la deve perdere; ma chi la perderà per il mio nome e per il vangelo, la conserverà» (Gv 12,25); questa parola del Signore è la formula fondamentale della vita cristiana. La fede in ultima analisi non è nient'altro che il dire sì a questa santa avventura del perdersi, e proprio qui, a partire dal suo nucleo profondo, non è altro che amore autentico. La fede cristiana riceve quindi la sua forma determinante dalla croce di Gesù Cristo e l'apertura del cristiano al mondo, della quale oggi si sente tanto parlare, non può reperire il proprio modello altrove che nel fianco aperto del Signore, espressione di quell'amore radicale che solo può redimere. Dal corpo trafitto del crocifisso sono usciti sangue ed acqua. Ciò che in primo luogo è segno della sua morte, espressione del sul fallimento nell'abisso della morte, è nello stesso tempo un nuovo inizio: il Crocifisso risorgerà e non morrà più. Dalla profondità della morte si innalza la promessa della vita eterna. Sulla croce di Gesù Cristo brilla già sempre lo splendore vittorioso del mattino di Pasqua. Vivere con lui a partire dalla croce significa quindi sempre vivere anche sotto la promessa della gioia pasquale.
Preghiera
Signore Gesù Cristo concedici in questo Venerdì Santo di guardare a te, al tuo cuore trafitto. Concedici che i nostri occhi e il nostro spirito, che ogni giorno si bagnano nella vanità e nella banalità, possano una volta, al di là di tutti gli schermi di questo mondo, contemplare il vero Salvatore: te, seme di grano morto, dal quale è germogliato il frutto centuplo dell'amore di cui tutti viviamo. O Signore, noi esitiamo a venire a te, opponiamo resistenza quando ci vuoi prendere come semi di grano, quando vuoi tirarci fuori dalla meschina difesa del nostro spirito di autoconservazione nel quale ci siamo rincantucciati mascherando la nostra pusillanimità con parole grosse. Ah, tu conosci la nostra debolezza, la nostra incapacità a far fronte alla minima oscurità, l'angoscia nella quale rimaniamo prigionieri di noi stessi. Facci liberi; portaci per mano fuori di noi stessi, oltre la soglia della nostra paura, e ciò di cui non siamo capaci possa essere il dono della ricchezza invitta del tuo cuore aperto. Amen.
Preghiera comune di intercessione
Preghiamo per la Santa Chiesa di Dio. Perché tu o Signore voglia guidarla in questo tempo di confusione, ricerca e domanda. Perché tu voglia inviarle uomini santi che vivano in mezzo al nostro tempo con la pienezza della loro fede. Perché tu ci voglia donare la concordia, la pazienza vicendevole, la forza portante dell'amore ed il coraggio per la santa stoltezza della fede... Signore pietà!
Preghiamo per tutti coloro che sono alla ricerca, per tutti coloro che sono tentati o che sbagliano. Che in mezzo alla fuga seduttrice verso le parole fatte, in mezzo alla dittatura della via più facile, tu o Dio possa essere di aiuto a coloro che cercano, forza a coloro che sono tentati, sostegno nell'inutilità spaventosa che minaccia di opprimere coloro che si trovano consegnati fuori da se stessi; che tu possa essere luce nel dubbio che ci fa vacillare; che tu ti voglia mostrare agli erranti, ai persecutori che forse cercano ancora te in qualche maniera... Signore pietà!
Preghiamo per la pace del mondo, per gli affamati, i perseguitati e gli ammalati. Considera o Signore la miseria orribile e molteplice che tiene prigionieri gli uomini; essi sono tuoi figli, non dimenticarli. Concedi la pace là dove essa manca, perché tu solo la puoi dare in mezzo all'indurimento spaventoso degli uomini. Dai il cibo agli affamati, copri gli ignudi, consola gli afflitti, tu Dio di ogni consolazione. Signore pietà!
JOSEPH RATZINGER
SABATO SANTO – Meditazioni
Prima meditazione
Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell'al di là non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l'angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell'anima.
Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!». Cinquant'anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara ad una teologia dopo la morte di Dio, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato Santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato Santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel credo con le parole: «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì Santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po' titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione. Sabato Santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo ad essere un grande Sabato Santo, giorno dell'assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, per cui si preparano pieni di vergogna ed angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro? Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre via crucis abbiamo fatto risuonare qualcosa di simile senza svolgere la realtà straordinaria di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto e perduta nel giro delle frasi di devozione o delle preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l'ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di Lui, giacché cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell'amore dei credenti?
L'oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato Santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. Ed ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Sabato Santo, solo attraverso il silenzio di morte di questo giorno, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà.
Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L'immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del buio di Dio per sperimentare nuovamente l'abisso della sua grandezza e l'abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.
C'è una scena nel vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato Santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti. del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa la esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fede, non assomigliano ad una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma Egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata ci accorgeremo di quanta stoltezza fosse carica la nostra poca fede. E tuttavia o Signore non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi e gridarti: Svegliati, non vedi che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l'oscurità del Sabato Santo, lascia cadere un raggio di Pasqua, anche sui nostri giorni, accompagnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere alla fine uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo. Amen.
Seconda meditazione
Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato Santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è disceso all'inferno. Nello stesso tempo l'esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato Santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome – l'esperienza della impotenza di Dio che è tuttavia l'Onnipotente – questa è l'esperienza e la miseria del nostro tempo.
Ma anche se il Sabato Santo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato Santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e i lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù 'è disceso all'inferno'. Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica sheol, che sta ad indicare semplicemente tutto il regno dei morti, per cui la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto ed ha partecipato all'abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: cos'è realmente la morte è cosa accade effettivamente quando si scende nelle profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l'ha subita, dopo che Egli l'ha accettata e penetrata, così come la vita, l'essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté venire a contatto, e di fatto venne, con l'essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come 'inferno', rovescio dell'esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con Colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell'orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 26,46; Mc 15,34; Sal 22,1), è divenuto partecipe delle nostre solitudini. Se un bambino si dovesse avventurare solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non ci sarebbe alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l'insicurezza, l'essere-fuori-di-sé, il carattere sinistro dell'esistenza in sé. Solo una parola umana potrebbe consolarlo, solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l'angoscia. L'angoscia, annidata nella profondità delle nostre solitudini, non può essere cacciata via mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest'angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma solo l'estraneità della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell'amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell'avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all'ultima e vera profondità dell'altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l'inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull'uomo. Una cosa è certa: si dà una notte nel cui abbandono buio non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l'angoscia di questo mondo è in ultima analisi l'angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l'inferno: sheol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall'amore, che è talmente profonda che l'amore non può più accedere ad essa, è l'inferno.
«Disceso all'inferno» - questa confessione del Sabato Santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile ed inaccostabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell'uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L'inferno è stato vinto dal momento in cui l'amore è penetrato in esso e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da Lui. Nella sua profondità. l'uomo non vive di pane, ma nell'autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e può amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell'amore, allora nella morte penetra la vita: "ai tuoi fedeli o Signore la vita non è tolta, ma trasformata", prega la Chiesa nella liturgia funebre.
Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all'inferno». Ma se qualche volta ci è dato di avvicinarci all'ora della nostra solitudine ultima, potremo comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certezza sperante che in quell'ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. Ed in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
Terza meditazione
Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del sabato santo, allora bisognerebbe parlare soprattutto dell'effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del Salmista: e anche se mi volessi nascondere nell'inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un'aurora del mattino le prime luci della Pasqua. Se il venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del sabato santo si rifà piuttosto all'immagine della Croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminoso, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.
Il sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L'origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La Croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un'insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell'immagine della Croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all'evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell'incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità costernante dell'amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell'amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell'impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall'interno.
Ma così non abbiamo dimenticato un po' troppo la connessione tra croce e speranza, l'unità tra Oriente e la direzione della croce , tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? l' Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacchè Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire. O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua Croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.
Preghiera
Signore Gesù Cristo, nell'oscurità della morte tu hai fatto che sorgesse una luce; nell'abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del tuo amore; in mezzo al tuo nascondimento possiamo ormai cantare l'alleluia dei salvati. Concedici l'umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando tu ci chiami nelle ore del buio, dell'abbandono, quando tutto sembra: apparire problematico; concedici in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci io cammino verso la tua gloria futura. Amen.
Da "Il sabato della storia", Edizioni Jaca Book 1998
"Piccoli Grandi Libri" a questo link.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento