5 giugno 2008

Latino, lingua comune d’Europa (Cardini e Beretta)


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Latino, lingua comune d’Europa

Ma la tesi di Gouguenheim, che minimizza l’apporto arabo nella trasmissione della cultura classica durante il Medioevo, non è per nulla sostenibile

DI FRANCO CARDINI

Il ritorno della polemica riguardante il senso e il valore dello studio del latino in Europa sta cominciando a sembrare un tormentone: anche perché le ragioni addotte dall’una e dall’altra parte – cioè, diciamo così, dai 'latinofili' e dai 'latinofobi' – non sono francamente né nuove, né originali. Negli ultimi tempi, i latinofili hanno rincarato la dose, rimettendo sul tappeto anche la questione del greco classico, come emergeva anche dalla ricerca presentata ieri da Avvenire: e, in ciò, ha forse giocato anche un sottinteso politico. La tesi della 'ricerca delle radici dell’Occidente', già avviata specie dopo l’11 settembre 2001 in alcuni ambienti conservatori statunitensi, ha raggiunto l’Europa ed ha conosciuto un 'salto di qualità' inseguito alle polemiche aperte dall’ormai celebre lectio magistralis del Santo Padre a Ratisbona, nel settembre del 2006. Rispetto alla vocazione ecumenica della cultura romana, specie nella sua facies imperiale, e al suo farsi linguaggio comune, koinè diàlektos, di tutto il bacino mediterraneo antico grazie al suo incontro con la civiltà ellenistica scaturita dalla fusione – con l’esperienza di Alessandro Magno – tra Grecia e Oriente sia egizio sia persiano, alcuni hanno ritenuto più opportuno risalire alla 'purezza ellenica' (non ancor inquinata dall’acculturazione 'ellenistica') e riscoprire, nonché riproporre, una classicità tutta 'occidentale', un asse tra Atene e Roma che al massimo (con la cristianizzazione) toccherebbe Gerusalemme, ma che ci lascerebbe liberi e indenni dal torbido inquinamento orientale.
Non si tratta di una tesi nuova. È l’operazione in fondo già intravista e auspicata dal Petrarca, proposta poi con l’Umanesimo e ripresa con vigore tra Settecento illuminista e Ottocento neoclassico. Alla sua base, una contrapposizione geopolitica e quasi ontologico-metastorica tra 'Occidente' e 'Oriente': luogo della Ragione e della Libertà il primo, della fantasia, della magia e della tirannia il secondo. L’Ellade contro la Persia achemenide, poi ancora Roma (e Bisanzio) contro la Persia arsacide e sasanide, quindi la cristianità latina contro l’islam, poi l’Europa contro i turchi ottomani, e magari (perché no?) il mondo libero contro la Russia sovietica e la Cina maoista; e oggi infine, come vuole Samuel Huntington, l’Occidente liberale e liberista contro il blocco 'sino­islamico'. Queste polemiche hanno ormai intaccato anche il mondo dei seri ricercatori accademici. Nel suo recente Aristote au Mont­ Saint-Michel il medievista di Lione Sylvain Gouguenheim ha preteso di dimostrare che l’Europa cristiana non deve che poco o nulla all’islam nella sua conoscenza dei testi filosofici ellenici, i quali già nel XII secolo non sarebbero tanto transitati dalla Spagna musulmana e giunti a noi in traduzioni dall’arabo, quanto direttamente arrivati da Bisanzio per il tramite di monaci greci che li avrebbero tradotti in latino. La tesi del Gouguenheim è stata molto criticata e non pare attendibile; anzi, la si è accusata di essere il remaking di qualcosa ch’era già stato detto. Ma appunto per questo è sintomatico che sia riemersa proprio adesso: e che, dietro il latino, si stia profilando l’ipotesi iperclassicista (e iperoccidentalista) di un 'ritorno del greco classico'. Ma dirlo è più facile che farlo. Occupiamoci non tanto di tutto il mondo occidentale (americani, canadesi e australiani hanno altri problemi), quanto della nostra Europa. Nelle scuole superiori europee, Francia e Inghilterra comprese, il greco è sempre stata una presenza abbastanza limitata, salvo in Germania e in Italia (che tra Otto e Novecento seguì il modello tedesco). Non appare né logico, né prudente abolire il greco – come qualcuno pretende – dal nostro liceo classico: d’altronde, anche in una prospettiva di sempre maggior omologazione dell’insegnamento medio-superiore in tutta l’Unione Europea (dove prima o poi il problema della scuola dovrà essere preso in seria considerazione, se non si vuol assistere al fallimento completo dell’esperienza unitaria), credo sia importante puntare anzitutto e soprattutto proprio sul latino, accanto al quale è opportuno far crescere gli spazi didattici deputati all’insegnamento di almeno due lingue europee (possibilmente di ceppo diverso da quella parlata nei vari paesi: ad esempio, nei Paesi d’idioma neolatino, nei quali l’apprendimento delle lingue 'sorelle' è più facile, suggerirei di puntare su una lingua germanica e una slava). Si affronterebbe in tal modo con serietà il problema dell’integrazione continentale: base comune della quale è senza dubbio il latino, che fu parlato come lingua di cultura universitaria, scientifica e giuridica fino al Settecento nelle stesse aree raggiunte dalla Riforma protestante nonché in Paesi di lingua slava come la Polonia, la Boemia e la Croazia (o di lingua baltica come la Lituania; o ugrofinnica come l’Ungheria e la Finlandia, dove addirittura esiste un’emittente radiofonica che trasmette ancor oggi in latino). Ritengo pertanto che il greco sia da salvare e da mantenere negli àmbiti deputati allo studio della cultura classica; ma che il latino debba, invece, costituire la base più largamente diffusa di una cultura condivisa in tutta la nostra Unione continentale, in quanto lingua davvero fondante – per le sue vicende dal Medioevo al XVIII secolo – della nostra identità europea. Nessuna lingua moderna può eguagliarlo e tanto meno sostituirlo in questo; al contrario, esso sta alla base culturale e concettuale di tutti gli idiomi moderni, anche di quelli non neolatini sotto il profilo grammaticale, sintattico e lessicale. È l’unica lingua che noi europei possiamo davvero sentire come 'comune'.

© Copyright Avvenire, 5 giugno 2008

Gli «abolizionisti»: un tabù intoccabile solo per gli snob

Latinorum pro et contra

«Serve a formare il ragionamento e il carattere». «Macché: leva spazio ad altre materie, come l’inglese e le scienze». L’eterna diatriba sull’«utilità» della cultura umanistica in un’inchiesta dai dati contrastanti e con una domanda di fondo: serve ancora insegnare il latino ?

DI ROBERTO BERETTA

«Il latino insegna a ragionare »: ipse dixit e così sia. Ma – quanto poi a «ragionare» sull’utilità delle lingue cosiddette «morte» con chi abbia fatto il liceo classico – si tratta spesso di una partita persa: che sia convinzione genuina, infatti, oppure acritica nostalgia per la passata gioventù, è piuttosto raro trovare un ex «classicista» disposto a mettere in dubbio l’eccellenza assoluta della sua scuola...
«Il latino serve a imparare l’analisi logica, quindi aiuta ad apprendere le lingue straniere». «Il latino fornisce le basi per scoprire l’etimologia di moltissime parole». «Il latino insegna la costruzione della frase e dà le basi della civiltà umanistica ». Fino all’apodittico: «Il latino permette di formare il carattere e la personalità». E chi potrà mai ribattere a sentenze di questo tipo? Anche perché sono vere – almeno in parte. Eppure ci prova l’associazione genovese TreeLLLe «per una società dell’apprendimento
Oliva: l’obbligo di studiare le «lingue morte» deriva da inerzia e incapacità d’aggiornarsi, dal trascinamento pigro di modelli della tradizione continuo» (www.treellle.org), che pubblica ora un corposo e interessante dossier su «Latino perché?
Latino per chi?», nel quale gli ex ministri Luigi Berlinguer e Tullio De Mauro o esperti di didattica quali Rosario Drago e Leopoldo Gamberale sono chiamati a reagire a un’inchiesta sull’insegnamento delle lingue classiche in Italia.
Un’indagine davvero 'spregiudicata', nel senso che rimette in gioco senza inibizioni «la necessità assoluta, quasi metafisica» (Berlinguer), ormai diventata «quasi un tabù» (Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe), di saper di latino . In effetti, se il 41% degli studenti delle superiori nel Belpaese è costretto a sudare sulle declinazioni (un milione di alunni su 2,5 complessivi), qualche domanda – anche se irriverente – è giustificata.
Ad esempio: questa persistenza del latino è davvero ragionata oppure – come scrive ancora Oliva – «si tratta di una situazione determinata dall’inerzia o dall’incapacità di aggiornarsi», di «un pigro trascinamento di un modello del passato»? Tanto più che le scelte molto diverse del resto d’Occidente (in Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti latino e greco sono sempre opzionali) inducono a dubitare delle ragioni di un’italica «eccezione umanistica». Il fisico Carlo Bernardini, nella ricerca, si spinge addirittura ad affermare che la cultura classica crea «valore aggiunto dell’individuo, come la firma dei capi firmati».
Massima dissacrazione: accostare il sommo dell’elitarismo intellettuale al più massificante simbolo delle aspirazioni popolari... Dunque finiamola con questo latinorum!
L’idea che, gira e rigira, la maturità classica sia in fin dei conti poco più d’uno status symbol (della cultura, ovviamente, ma anche del censo e della posizione sociale) era del resto balenata persino nella testa di Renzo Tramaglino non pochi secoli fa. E che il presunto amore per la cultura «antica», fonte della «nostra civiltà», sia spesso soltanto un vezzo un po’ snob sembra confermarlo un dato citato da Berlinguer: «Le collane di classici latini e greci tradotti hanno un pubblico enormemente più alto in vari Paesi in cui non si studiano» quasi per nulla tali lingue.
Beh, un certo snobismo alle studentesse del classico (e alle loro mamme) bisogna pur concederlo... Non a caso – notano ancora i critici – in Italia si sta verificando una progressiva «femminilizzazione » dei licei, che giunge addirittura al 69% nei classici: indice che la futura classe dirigente dello Stivale sarà per due terzi donna, o piuttosto che nelle famiglie borghesi vige ancora la regola secondo cui solo le femmine possono impunemente dedicarsi a imparare cose «inutili» ma «elevate», tipo il pianoforte e il greco?
Abolire dunque il latino nelle scuole? La proposta è piuttosto quella di toglierne l’obbligo indiscriminato nei licei e renderlo però accessibile – insieme al greco – per una minoranza di «specialisti». Quelli che davvero vorranno continuare a «fare il classico».

© Copyright Avvenire, 4 giugno 2008

Il latino e' una lingua "logica": tempra il cervello ed il ragionamento. Inoltre chi imparara bene il latino sa inevitabilmente anche scrivere bene nelle lingue da esso derivate.
E' un dato di fatto...poca ideologia e piu' latino (anche in chiesa!).

R.

La difesa: ma sudare su Tacito fa maturare i «bamboccioni»

De Mauro: chi nega la tradizione greco-latina non dà solo un calcio al passato tedioso ma pure al futuro delle nostre piene capacità di comunicare

Roberto Beretta

«Non c’è dubbio: la via di chi risponde no al latino è assai più semplice. Ma è un debito di onestà civile e intellettuale dire chiaramente ai fautori dell’abolizione che la tradizione greco-latina non fa parte del passato».
Tullio De Mauro non indulge ai populismi: se ciò che affermava il suo predecessore al ministero della Pubblica Istruzione Benedetto Croce – che cioè studiando «aritmetica e geometria» non si raggiungono le «alte vette dello spirito » – è oggi ormai insostenibile anche solo guardando ai percorsi delle scienze empiriche (astronomia o fisica, informatica o psicoanalisi), tuttavia è altrettanto pericoloso non avvertire che abolendo il latino «ci si preclude molto» e non si dà «solo un calcio a un passato tedioso » ma «al presente e anche al futuro delle nostre piene capacità di comunicare».

Siamo o no nella società della «comunicazione »? E allora, come fare a meno delle basi stesse della parola, che almeno alle nostre latitudini sono greco-latine?

Pure il filologo Maurizio Bettini ammonisce di non spezzare il filo che da 2000 anni in Occidente «crea uno straordinario meccanismo di continuità culturale»: il latino , appunto. Certo: bisognerebbe sapere di più e meglio anche l’inglese; ma non è detto che siano proprio le lingue morte ad impedirne l’approfondimento ai liceali, anzi... Così come è facile da smontare l’obiezione di quanti rimproverano alla cultura umanistica l’assenza di utilità «pratica» e la lontananza dalle esigenze della modernità: cancellare dai libri la perifrastica o l’aoristo non assicura di per sé un parallelo accrescimento della cultura tecnico-matematica nazionale. Sta però di fatto che persino nel liceo «scientifico» le materie umanistiche pesano ancora per il 38%, mentre le scienze incidono sull’orario solo per il 31%... E dunque? Una cosa senza dubbio l’inchiesta di TreeLLLe ha il merito di aver indicato: la vera e moderna difesa del latino non può più basarsi sul ca- tenaccio irrazionale delle paure del poi, e nemmeno su miti indimostrabili tipo «solo il latino forma il carattere». Da assoluti del genere occorre guardarsi, per evitare che la contrapposizione diventi ideologica, o persino razzistica.
Il dato che la metà degli studenti liceali abbia sede al Sud, per esempio, va interpretato quale segno di tradizionalismo e dunque «arretratezza » oppure come tentativo – quanto mai aperto al futuro – di sfuggire alla meridionale scarsità di prospettive offrendo ai giovani il meglio dell’istruzione? E se l’80% dei padri laureati manda il figlio in un liceo e il 78% dei liceali provengono da famiglie che hanno in casa più di 100 libri, ciò rinvia a una situazione di privilegio culturale (e in parte censuario) o va spiegato con la ricerca di scuole di buona qualità generale da parte delle famiglie di ambiente medio-alto?
Domande che non ammettono risposte manichee. Anche la risalita in termini percentuali degli alunni dei licei rispetto a quelli degli istituti tecnici e professionali (siamo infatti tornati ai livelli degli anni Settanta, con un 41% contro 59%, dopo due decenni tra il 1980 e il 2000 in cui gli iscritti ai licei erano scesi a un terzo del totale) non va letta solo involutivamente. Berlinguer non ha torto osservando che da noi il latino è servito a «dividere» in classi, stabilendo una «preminenza culturale» e spesso pure economica; tuttavia non si può nemmeno negare che la scuola umanistica – cui per il 60% si iscrivono tuttora figli di operai, impiegati, artigiani e professori – continui ad assolvere una funzione di «salto di classe» attraverso il merito. Perché consumare i neuroni su Tacito o sulle eccezioni verbali non è solo sadismo professorale; costituisce una disciplina formativa. E, nell’attuale assenza di agenzie educative che ai giovani richiedano sudori «a progetto», bisognerebbe andarci cauti a sbertucciare i licei: non si possono deprecare i «bamboccioni » e poi demolire i percorsi capaci di farne dei marines.

© Copyright Avvenire, 4 giugno 2008

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