31 gennaio 2008

Dal blog di Paolo Rodari: Conversazione con monsignor Ravasi: la cultura secondo Ratzinger


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Su segnalazione della sempre attentissima Luisa (che ringraziamo di cuore) leggiamo questo articolo di Paolo Rodari per "Il Riformista" riportato nel blog "Palazzo Apostolico" la cui lettura, come sempre, consigliamo :-)
R.

Conversazione con monsignor Ravasi: la cultura secondo Ratzinger

di Paolo Rodari

Intervistare monsignor Gianfranco Ravasi non è davvero una passeggiata. È difficile trovare, anche tra le sacre mura vaticane, una persona dotata di una così vasta conoscenza, anzi, di così vaste conoscenze. Col Riformista, Ravasi, ha accettato di parlare a 360 gradi dei primi mesi del suo mandato all’interno della Santa Sede. Un mandato importante: dopo i 25 lunghi anni di governo del cardinale francese Paul Poupard, Benedetto XVI ha affidato a lui il “ministero” della Cultura.

Quel giorno che prese più applausi di Moratti

Se gli si chiede per quale motivo, secondo lui, il 3 settembre del 2007 il professor Joseph Ratzinger-Benedetto XVI abbia deciso di nominarlo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e, insieme, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, conferendogli contestualmente la dignità di arcivescovo e la potestà su tutte la accademie pontificie, non sa rispondere.
«C’erano senz’altro - dice - persone più capaci di me. Non era una nomina che mi aspettavo, ma sono contento di essere oggi a Roma». Da Milano a Roma il passo non è così breve come si può pensare. «Da buon cittadino milanese - Ravasi è nato, il 18 ottobre 1942, a Merate, una cittadina a una trentina di chilometri da Milano, ndr - ritenevo che la mia città fosse, in qualche modo, il centro del mondo.

Solo una volta arrivato in Vaticano mi sono reso conto di quanto, invece, la Santa Sede abbia la fortuna di avere uno sguardo internazionale che a Milano è più difficile avere. Come ogni milanese che “emigra” a Roma, o meglio, in Vaticano, mi sono reso conto di una certa provincialità della città in cui sono cresciuto».

Milano, per Ravasi, è la città della formazione spirituale che lo ha portato, il 28 giugno 1966, all’ordinazione sacerdotale per le mani dell’indimenticato cardinale Giovanni Colombo. È la città dove si è affermato come biblista (ha insegnato esegesi biblica alla facoltà teologica dell’Italia Settentrionale ed è stato membro della Pontificia Commissione Biblica) e dove ha diretto, fino allo scorso settembre, la Biblioteca Ambrosiana, la grande biblioteca lombarda fondata dal cardinale Federico Borromeo nel 1607.
Milano è la città che lo scorso dicembre gli ha conferito la Grande medaglia d’oro, nello stesso giorno in cui il medesimo “trofeo” lo ritirava Massimo Moratti per i cento anni dell’Inter. Quel giorno però, l’ovazione da stadio l’ha presa Ravasi: tutti si sono alzati in piedi, sia il pubblico sia i capigruppo del consiglio comunale che sedevano sul palco. «L’ovazione - dice Ravasi - mi ha stupito. Non pensavo di essere così considerato dalla mia città. Oltretutto non erano mancate in passato da parte mia critiche amichevoli alla gestione pubblica della città, all’idea di una città sempre più considerata alla stregua di un “condominio”, come amava dire il sindaco Albertini. Però gli applausi mi hanno fatto piacere. Anzi, mi hanno commosso». Milano ha dato a Ravasi anche tanti amici, molti della Milano bene, quella che conta, tanti altri meno noti, gente del popolo.
«Forse sono gli amici - dice Ravasi - che mi mancano di più a Roma. Ma so che presto riuscirò ad averne altrettanti anche qui. Anche se il lavoro è tanto e sono sempre coinvolto negli eventi e negli incontri più diversi».

È il tempo di una nuova scolastica

Già: il lavoro. Che cosa fa esattamente il “capo” della cultura vaticana? «Non è facile rispondere - spiega Ravasi -. La cultura, di per sé, implica la promozione di una visione del mondo e della vita, di un’idea, di un pensiero.
Qui, ovviamente, si tratta di partire dal pensiero della Chiesa, farlo proprio, sviscerarlo e quindi trovare le strade migliori per una sua divulgazione. Il tutto evitando ogni forma di fondamentalismo e di sincretismo.
È un pensiero, quello cristiano, che innanzitutto deve essere “custodito con castità”, per usare un’espressione di Schelling, e poi messo a confronto con le altre culture e popolazioni. Non è facile. Ma debbo dire che nei dicasteri per i quali lavoro ho persone competenti che mi aiutano. Qui ho trovato persone provenienti dai più diversi paesi. E questo è importante. Il fatto di avere, ad esempio, al Pontificio Consiglio per la Cultura un ecclesiastico indiano, permette di poter meglio pensare come “fare cultura” in India perché chi se ne occupa conosce l’estrema complessità della storia e della tradizione di quel paese».
Occuparsi del mondo non è attività secondaria per monsignor Ravasi. «Abbiamo in animo di lavorare - spiega - con tutti i centri culturali del mondo e con loro promuovere incontri, dibattiti, conferenze. Abbiamo una mappatura completa che comprende anche centri culturali minori: seguiamo i loro lavori e con loro cerchiamo di interagire. A Roma stiamo mettendo in campo diversi progetti. Uno di questi si chiama Science, Theology, and the Ontological Quest (STOQ). Il suo scopo è di costruire un ponte filosofico tra scienza e teologia. Fu Giovanni Paolo II, in particolare, che parlò esplicitamente della necessità di una nuova scolastica, ossia di un dialogo rinnovato tra scienze naturali, filosofia e teologia.
Anche Benedetto XVI esprime sempre la necessità - l’ultima volta nel discorso che avrebbe dovuto fare alla Sapienza - di integrare ragione e fede, in modo da evitare che la prima si dilati a sistema che pretende di essere assoluto, diventando perciò motivo di oppressione e non di libertà per l’umanità, e la seconda scada nel sentimentalismo o nel generico devozionalismo fino a precipitare nella superstizione. Grazie allo STOQ gli scienziati delle maggiori istituzioni mondiali impegnate nel dialogo tra scienza e religione si ritrovano a Roma ogni due anni e interagiscono sul tema».

Un padiglione della Santa Sede alla Biennale

Lo STOQ può essere un esempio di quanto Ravasi intende fare in diverse parti del mondo. Convegni analoghi sono in programma in primavera in Nepal e in luglio in Africa. In Nepal si vogliono raccogliere i migliori esperti del sud est asiatico e la stessa cosa si vuole fare in estate per i paesi africani di cultura anglofona e francese. «Occorre - spiega Ravasi - far incontrare le diverse culture, farle parlare, farle dibattere. Senza incontro c’è asfissia culturale. Senza dibattimento la cultura muore. In Asia, ad esempio, intendiamo arrivare anche sull’“orlo” della Cina. Affacciarci a questo grande paese e cercare con esso un dialogo. La medesima vastità di orizzonte la cerchiamo in Europa e in Nord America, anche se qui trovare argomenti sui quali dibattere è meno facile. In occidente viviamo una situazione culturale difficile. Forse, davvero, il rapporto tra scienza e fede resta il terreno migliore per iniziare un confronto. In Italia, poi, ci sono tanti progetti da mettere in campo. Uno di questi potrebbe essere - anche se mi rendo conto che non è facile - la creazione alla Biennale di Venezia di un padiglione della Santa Sede. Proprio così. È un progetto che mi affascina e che avrebbe un grande valore per tutto il mondo dell’arte».

La Sapienza e la paura delle opposizioni

Scienza e fede, dunque, terreno d’incontro con le culture del mondo. Scienza e fede è il tema alla base del discorso che il Papa avrebbe dovuto pronunciare alla Sapienza.
«Mi spiace - dice Ravasi in proposito - per come sono andate le cose. Credo che sia stata una grande occasione perduta. Soprattutto ha perso la cultura. Credo che il problema di fondo si possa definire con una coppia di termini: paura e superficialità. Si ha paura delle opinioni che sono diverse dalle proprie e ci si aggrappa a luoghi comuni e a reazioni quasi irrazionali. Invece alla base di un vero dialogo profondo, di un vero incontro tra persone diverse, non ci può che essere anche una certa dose di contraddizione, di posizioni divergenti, persino di opposizioni. Ecco, incontrarsi significa anche opporsi e di questa opposizione, che non deve ridursi a uno sterile rigetto, non si può avere paura. Oggi, credo soprattutto a causa della televisione, l’incontro e il confronto tra persone è sempre più ridotto a spot, a slogan e spesso a sarcasmo, mancano il tempo e l’energia per fare di più, per far sì che il dialogo sia un vero incontro profondo, per fare sì che il dialogo diventi cultura. Quanto è accaduto alla Sapienza deve essere anche una lezione per la Chiesa, sia pure a livello diverso. Nel senso che anche all’interno della Chiesa bisognerebbe valorizzare maggiormente il dialogo teologico, l’incontro-confronto tra diverse prospettive, tra diversi pensieri, senza paura. Dovremmo avere tutti nostalgia dei tempi, ad esempio, in cui i seguaci di Tommaso D’Aquino “guerreggiavano” con quelli di Duns Scoto con rigore e originalità».

Il linguaggio e le omelie senza drammaticità

Già, dibattere. Trovare le strade per il dialogo. Ma con quale linguaggio? «Questo - dice Ravasi - è un punto ancora non risolto. Anche all’interno della Chiesa. Un vecchio studio di Umberto Eco sui giovani informava che essi usano non più di 800-1000 parole (su 150.000 vocaboli disponibili), ma oggi lo stesso studio è applicabile tranquillamente agli adulti. Ciò significa che la sostanza è affidata a una serie di parole che risultano insufficienti a descrivere lo spettro, il ventaglio dei potenziali significati. Alla fine la comunicazione risulta povera di sostanza proprio perché povero è il vocabolario. Lo dice anche il Qohelet, l’Ecclesiaste, il sapiente dell’Antico Testamento: “Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle” (1, 8). Ecco allora l’importanza dello studio della comunicazione, della competenza, della riflessione, della necessità di non essere dispersivi. Mi piace al proposito citare quanto diceva Girolamo Savonarola: “Vi sono stati alcuni che da un discorso o da una lettura hanno raccolto una sentenza, una parola, una spiga che ha dato loro da mangiare per tutto il resto della vita. Quando tu senti una buona spiga, pigliala e serbala e dì: Questa è mia!”. Le parole, infatti, non sono una pietra preziosa da custodire in uno scrigno bloccato, ma un seme deposto nel terreno del presente in cui ci muoviamo, parliamo, agiamo e viviamo».
Il discorso intorno al linguaggio è importante soprattutto per chi, come è richiesto ai preti, ricopre un incarico pubblico, e quindi deve, almeno nelle omelie, parlare in pubblico. Non è un’impresa facile, e magari non tutti ne capiscono l’importanza. «È vero - dice Ravasi - spesso le omelie dei preti non tengono conto della necessità di trovare il giusto linguaggio, la migliore eloquenza per spiegarsi e farsi comprendere.

Mi diceva un giorno il giornalista Beniamino Placido - che non è praticante e quindi partecipa alla liturgia solo in occasioni di matrimoni e funerali - che spesso rimaneva stupito da come i sacerdoti, nelle loro omelie, non avessero la minima capacità di riportare nei loro discorsi la drammaticità delle parole del Vangelo che pochi minuti prima hanno letto. Questo ritengo sia un problema enorme e che la Chiesa deve affrontare per rendere comprensibile il suo messaggio senza svilirlo o semplificarlo».

Il latino e l’esaltazione del trascendente

Benedetto XVI ha più volte insistito nel corso del suo pontificato sull’uso della lingua latina. Non è una contraddizione con la necessità di trovare linguaggi nuovi tramite i quali comunicare la fede? Non è in contraddizione con un mondo sempre più globalizzato e che tende ormai ad avere internet quale piattaforma per il suo linguaggio? «Non credo sia una contraddizione. L’uso della lingua latina nella liturgia è importantissimo perché permette a tutti i fedeli di ritrovare uno straordinario patrimonio in cui fede e arte s’intrecciavano (si pensi solo alla musica sacra nei secoli). Tra l’altro, sempre per quanto riguarda la liturgia, il latino aiuta l’uomo a esaltare il trascendente, perché è una lingua che ha in sé una carica sacrale. Pregare in latino ricorda, perciò, che nella liturgia - anche in lingue moderne - è necessario usare un linguaggio diverso rispetto a quello che si adotta tutti i giorni e questo permette di trovare nei luoghi di culto una parola diversa, altra, una parola specifica per il rapporto uomo-mistero. Poi, certo, la Chiesa non può dimenticare quale sono i luoghi che le persone frequentano maggiormente e le parole che usano quando si frequentano. Uno di questi luoghi è, ad esempio, internet e qui occorrerebbe, anche per il mio impegno nel dicastero della Cultura, un serio progetto. A me piacerebbe, ad esempio, che il Pontificio Consiglio della Cultura avesse dei suoi blog in cui ascoltare e rispondere alle domande qualificate della gente. Ma fare un blog non è solo aprire uno spazio da colmare. Deve essere costruito e retto con la tecnica giusta e deve avere qualcuno che poi a tempo pieno lo segua».

Quegli autori che non si sentono arrivati

Il lavoro di Ravasi in Vaticano è impegnativo anche in termini di tempo. Ma non abbandona le sue letture. Quelle nuove, e quelle di sempre. «Tra queste - racconta - non posso non ricordare alcuni tra gli autori che hanno contribuito in modo determinante alla mia formazione: sono stati Platone e quindi Agostino. Poi il Goethe del Faust e Shakespeare e Dostoevskij. Più lui di Tolstoj. E ancora Kierkegaard. Ma anche i francesi Pascal, Péguy, Bernanos e persino Camus. Mi piacciono, insomma, gli autori che sono sempre alla ricerca di senso, che non si sentono mai arrivati perché sanno - come scrive Pascal - che l’uomo supera infinitamente l’uomo».

© Copyright Il Riformista, 31 gennaio 2008

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