27 gennaio 2008
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Una donna nella Shoah
Ed Etty cantava sul vagone piombato
Cristiana Dobner
Chi è Etty Hillesum? Dai Diari e dalle Lettere potremmo trarre risposta, ma solo ricordando il monito di Turoldo, "il libro che più mi ispira è il volto umano", ovvero scoprirla nel gioco del volto e dei volti.
Amsterdam febbraio 1941: l'occupazione nazista sferra i suoi micidiali colpi sugli ebrei e sulla popolazione. La difficoltà di procurarsi viveri e riscaldamento è pari a quella di condurre le proprie giornate con la dignità di esseri liberi. L'ideologia nazista spazza e toglie tutto: vita e pensiero. È un gorgo che trascina sempre più in fondo e da cui non ci si può districare.
Eppure, una giovane donna ebrea di 27 anni dal passato sentimentale libero e travagliato - "in fondo, tutte le avventure e le relazioni che ho avuto mi hanno resa terribilmente infelice, mi hanno straziata" - con una cultura letteraria invidiabile ed una seconda laurea in slavistica in corso, perché la prima era stata conseguita in Legge, è vicina a quel colpo di tallone che fa uscire dalla spirale del "pathos del nulla", come scrive Natoli.
Etty dentro di sé avverte un richiamo alla scrittura, desidera diventare una scrittrice, per il momento è solo una studentessa che, per sbarcare il lunario, fa la governante di una casa con tanti inquilini e, di fatto, diventa la compagna del proprietario, Hans Wegeriff che, per età, potrebbe esserle padre.
Le mancò in famiglia un'educazione a valori fermi e chiari, in nome di una presunta libertà, e non ebbe neppure il dono della fede religiosa ebraica. L'elenco dei "non" potrebbe continuare all'interno di un nucleo familiare molto problematico: la madre russa e pianista, sopravvissuta ad un pogrom, un padre insegnante di lingue classiche ma rinchiuso nei suoi libri, due fratelli, geni entrambi nei loro rispettivi campi, medico l'uno e pianista l'altro, però con gravi problemi psichici. Sembra di trovarsi dinanzi a delle tessere di un puzzle senza gli incastri precisi, tutto si ammassa, senza ricevere forma e senso.
Allora perché occuparsi di una simile ragazza, forse fin troppo vicina a quante ne scorgiamo oggi nel nostro quotidiano? Perché Etty inquieta e costringe a riflettere, a chiedersi se davvero sono solo le nostre forze - anche la nostra testimonianza se vogliamo - quelle che contano e sono incisive, oppure se una forza di plasmazione più energica, più vitale, non sia sempre all'opera senza che ce ne avvediamo. Intendo dire lo Spirito di Dio, che aprì in lei uno squarcio esistenziale e profondamente personale: "Un pozzo molto profondo è dentro di me. E Dio c'è in quel pozzo. Talvolta mi riesce di raggiungerlo, più spesso pietra e sabbia lo coprono: allora Dio è sepolto. Bisogna di nuovo che lo dissotterri".
È necessario chiarire subito che non si deve accostare Etty da un punto di vista confessionale, vale a dire a tutti i costi trovare in lei tracce di cristianesimo o di conversione. Etty fu e rimase una donna ebrea, con una grande apertura interiore e una forte sensibilità. Senza alcun cedimento verso Gesù Cristo anche se la sua lettura dei Vangeli dimostra ammirazione e attenzione.
Sentiamo dalle sue stesse parole come e quando, in modo inatteso, tutto iniziò al suo timido presentarsi: "3 febbraio 1941, ...un uomo spaventoso esaminò le mie mani con un'antenna sulla testa". Alla giovane si aprì la percezione di "una più profonda presa di coscienza" e comprese di "poter disporre delle forze più profonde".
Sembra uno spaccato di esoterismo o di fantascienza ed invece fu il primo passo verso una dimensione che l'avrebbe fatta diventare donna matura. Chi era quest'uomo? Ex direttore di banca, editore, allievo di Jung - che lo incoraggiò a perseverare professionalmente nella chiroterapia, la pratica della lettura delle mani da lui inaugurata - perseguitato dal nazismo perché ebreo, Julius Spier si era rifugiato ad Amsterdam dove aveva pazienti e un movimentato giro di amicizie femminili.
Due volti quindi si incontrano, si confrontano e si amano, mentre Spier porta alla luce, attraverso il "secondo volto", cioè le mani, la personalità profonda della giovane con tutti i suoi profondi conflitti, e un consiglio di cui gli siamo grati debitori: Etty avrebbe dovuto scrivere un diario.
Egli forse intuì il suo desiderio profondo di scrivere? La giovane elaborò, nella fatica impegnata e nella sofferenza, quell'incapacità di fondo tipica della persona di oggi a riconoscere se stessa, Dio e gli altri ed arrivò infine a esprimersi profondamente: "Quanto vivo interiormente, e che non è esclusivamente mio, non ho il diritto di tenerlo solo per me. In questo piccolo frammento di storia dell'umanità, sono forse uno dei numerosi ripetitori che deve poi trasmettere su una distanza più lunga".
Il volto di Etty, passando per la storia sofferente dell'umanità e per la propria storia di chiarificazione interiore, stava assumendo i suoi tratti interiori, sensibili e più equilibrati, non perdendo però la sua lucida obiettività sulla situazione reale: "quando penso ai soldati in uniforme verde, della scorta armata... Mio Dio, quei volti! Li ho esaminati, l'uno dopo l'altro, trincerata al mio posto di osservazione dietro una finestra. Niente mi ha mai spaventata tanto come quei volti. Mi sono posta delle domande su quella parola che è il filo conduttore della mia vita: "E Dio creò l'uomo a sua immagine". Sì, questa parola ha conosciuto in me una mattinata difficile".
Angherie di ogni tipo, precarietà e timore per la propria vita, calano sul fisico fragile e molto deteriorato di Etty, ma divengono trampolino di lancio per vivere e spendersi per gli altri, per diventare "un piccolo campo di battaglia".
Con gli amici che ben conoscevano i suoi amori disordinati e la sua libertà di mente, Etty affrontava le "questioni ultime" che, nel frangente specifico, assumevano contorni drammatici e ineludibili. Con quale audacia osava la piccola ebrea affermare "come un bambino sento sempre che la vita è bella, e questo mi aiuta a sopportare ogni cosa"? La risposta all'amico stupito non poteva che creare ancora più stupore: "Sì, vedi, io credo in Dio". Etty avverte la paradossalità della sua affermazione ma coglie anche un'altra venatura impellente: "Penso che fu piuttosto scosso, allora, osservando il mio volto per cogliervi qualche misterioso segno, sembrò contento di quanto vi trovò. Forse per questo mi sentii così raggiante e forte per il resto della giornata? Mi uscì così spontaneamente e così semplicemente nel mezzo di quel grigio quartiere popolare, "Sì, vedi, io credo in Dio"". Ed è sempre un gioco rifrangente di volti.
Spier divenne sempre più il perno della vita di Etty, ma la passione si trasformò in un amore che vuole solo il bene dell'altro: ella è disposta ad aiutarlo a fuoriuscire perché possa ricongiungersi con la fidanzata a Londra. La realtà si impose ed Etty, via via, si trovò spogliata di tutto: dei pochi beni terreni, della libertà di pensiero, della possibilità di avere rapporti umani sociali normali. Tutto creò il vuoto intorno, l'ultimo colpo di coda fu la morte di Spier che rischiò, si direbbe, di mandare in rovina l'equilibrio di Etty.
E quale fu la reazione? "Vorrei congiungere le mani e dire: ragazzi, sono così felice e riconoscente e trovo la vita così bella e ricca di significato. Proprio così, e lo dico mentre sto accanto al letto del mio amico morto prematuramente, e mentre io stessa posso essere deportata a ogni momento in una terra sconosciuta. Mio Dio, ti sono così riconoscente per tutto quanto".
Fragile e debole, affaticata e preoccupata, Etty trovò in sé una forza straordinaria che la sospinse a servire il suo popolo perseguitato, entrando volontariamente, nella struttura di morte e di distruzione che, avendo come meta Auschwitz, passava per Westerbork, il villaggio con le torrette di vedetta e il filo spinato: "A volte si pensa che sarebbe più semplice essere finalmente "in trasporto", che dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia, uomini, donne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati, anziani, che in una processione, quasi ininterrotta, sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli".
Chiunque sarebbe fuggito e avrebbe accettato la proposta degli amici per un rifugio sicuro e segreto, Etty rimase e se la sua persona divenne sempre più fragile, divenne anche più autorevole: "...era come se mi trovassi davanti al nudo steccato della vita. Davanti alla sua ossatura, libera da qualsiasi costruzione esterna. Mio Dio, ti ringrazio perché m'insegni a leggere sempre meglio".
Sul suo pancaccio la gratitudine esplode: "Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami anche dispensare agli altri a piene mani. La mia vita è diventata un dialogo ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande dialogo... anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera".
Mi sorprendo, talvolta, a dirmi: se mi fossi trovata dinanzi ad una simile persona avrei, per prima cosa, messo ordine. E così avrei miserabilmente fallito. Lo Spirito ha fatto di più e meglio, nel groviglio, nel disordine, nella paura, ha indicato una strada, indubbiamente dura e tagliente, ma che l'ha condotta ad una maturità umana trasparente, ad una dedizione di sé che attira molte persone e molti giovani del nostro tempo a considerarla una maestra di spirito. Perché Auschwitz, la dissoluzione dei valori e delle persone, richiede, come ha affermato Nelly Sachs, di "procedere senza guardarsi indietro". Un nulla che distrugge, rimane una sola possibilità: incontrare i volti. Qui Etty ha saputo giocarsi tutta: il furore nazista l'avrà consumata, ma lei si sarà mantenuta integra e salda: "e se i tratti del mio viso diventeranno brutti e sconvolti dalla sofferenza e dal lavoro eccessivi, allora tutta la vita del mio spirito potrà concentrarsi negli occhi". Salita infatti sul vagone piombato, era partita cantando.
(©L'Osservatore Romano - 27 gennaio 2008)
Karel Weirich, il giornalista che aiutò centinaia di cecoslovacchi ebrei internati in Italia
Lo Schindler di Pio XII
Gaetano Vallini
Potremmo chiamarla "la lista di Weirich", parafrasando quella ben più nota di Schindler. Per la verità Karel Weirich - giornalista antifascista ceco la cui mamma per una singolare coincidenza si chiamava proprio Schindler - compilò diverse liste con centinaia di nomi di cittadini cecoslovacchi ebrei internati in Italia. Cercò di aiutarli tutti, inviando denaro, abiti, medicine e persino documenti falsi. Ma non tutti, purtroppo, riuscirono a salvarsi. Tuttavia per un buon numero di loro l'essersi imbattuti in quel connazionale generoso e coraggioso - che lavorava in Vaticano, collaborando anche con "L'Osservatore Romano" - significò la vita. E se, come recita il Talmud, "chi salva una vita, salva il mondo intero", Weirich - eroe nascosto e sconosciuto - può a buon diritto essere menzionato tra i salvatori del mondo in uno dei periodi più oscuri della storia.
Non a caso si intitola Un "giusto" ritrovato il libro di Alberto Tronchin (Treviso, Istresco, 2007, pagine 150, euro 12) che ricostruisce l'opera umanitaria di quest'uomo attraverso l'archivio personale che egli stesso riuscì a mettere in salvo "dentro" i gradini delle scale di casa prima dell'arresto da parte dei nazisti. Archivio che recuperò di ritorno dalla prigionia in un campo di concentramento della Baviera. Fortunatamente anche Tronchin si è imbattuto in questo personaggio - morto nel 1981 a settantacinque anni - e, grazie alla nipote Helena, ha avuto accesso ai suoi preziosi documenti: non solo elenchi di nomi, ma anche lettere, ricevute di vaglia, carte di identità contraffatte, testimonianza di un'attività intensa e rischiosa.
Figlio di un artista ceco, Karel nacque a Roma il 2 luglio 1906 ed ebbe un'infanzia movimentata, dovendosi spostare tra la capitale italiana, la Moravia e Vienna. Dopo la morte del padre, si trasferì con la madre in Svizzera dove frequentò il ginnasio dai padri benedettini a Einsielden. Dopo due anni tornò a Roma, completando gli studi liceali prima al Pontificio Istituto Sant'Apollinare e poi al regio ginnasio Quirino Visconti. Nel 1925, dopo aver conseguito un diploma di computerista e stenografo, venne assunto come segretario presso la Direzione nazionale della Pontificia Opera di San Paolo Apostolo. Nel 1932 fu trasferito con analogo incarico alla Direzione nazionale delle Pontificie Opere Missionarie. Nello stesso anno iniziò a scrivere articoli sulla Cecoslovacchia per il quotidiano vaticano.
Ma l'anno cruciale fu il 1935, quando una delle maggiori agenzie di stampa cecoslovacche, la Ctk, gli propose la corrispondenza fissa da Roma. Weirich accettò, decidendo comunque di continuare a lavorare come impiegato vaticano. Una scelta, questa, che si rivelerà utile per l'attività di accoglienza e di sostegno ai connazionali in fuga. Dopo l'invasione nazista del suo paese, pur non accettando di giurare fedeltà a Hitler, venne licenziato dall'agenzia solo a novembre del 1941. Fino ad allora ricevette da colleghi antinazisti di Praga notizie su quanto stava accadendo nel Protettorato di Boemia-Moravia, traducendole in italiano per Pio XII e inviandole altresì, almeno fino alla capitolazione della Francia, al corrispondente della Ctk da Parigi e ai suoi connazionali rifugiatisi in Italia.
Del resto, nonostante la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, l'Italia veniva considerata comunque un paese sicuro. L'ingresso dei cecoslovacchi fu tuttavia consentito solo per un altro anno, poi i nuovi arrivati si trovarono preclusa la possibilità di poter trovare un lavoro, fino alle drammatiche conseguenze derivanti dall'ordine di arresto di tutti gli ebrei (giugno 1940). In questa situazione Weirich, forte anche del suo lavoro in Vaticano, decise, con alcuni connazionali, di fondare un'associazione dedita all'assistenza dei profughi cecoslovacchi. Nacque così l'Opera di San Venceslao, re e santo patrono ceco. All'inizio l'attività svolta, come si legge nel libro di Tronchin, fu molto vasta e le somme raccolte ingenti. Ma anche dopo l'8 settembre del 1943 l'impegno venne mantenuto, come testimonia la documentazione di Weirich. Così aiuti continuarono a giungere, almeno parzialmente, sia a quanti si trovavano internati nei campi di concentramento, sia a quelli che erano in clandestinità, molti dei quali nascosti in conventi e monasteri "aperti" per volontà del Papa.
Nel periodo dell'occupazione tedesca, Weirich divenne altresì il principale riferimento della resistenza cecoslovacca in Italia, nonché il tramite tra il Comitato nazionale di liberazione (Cnl) ed i suoi connazionali scesi in armi accanto ai partigiani. Fu proprio per questa attività clandestina che venne arrestato il 1° aprile 1944 dalla Gestapo, rinchiuso a "Regina Coeli" e condannato a morte da un tribunale militare tedesco. Grazie all'intervento della Santa Sede la pena capitale venne commutata in diciotto mesi di lavori forzati da scontare nel campo di concentramento di Kolbermoor, dopo un periodo nella prigione di Stadelheim, a Monaco. Nel campo rimase fino al 2 maggio 1945, giorno della liberazione da parte delle truppe statunitensi.
Significativi, secondo la documentazione, sono i contatti di Weirich con la Segreteria di Stato, in particolare con l'allora Sostituto monsignor Giovanni Battista Montini, dal quale ottenne sostegno e aiuto per l'Opera di San Venceslao attraverso la Pontificia Opera Soccorsi rappresentata da monsignor Antonio Riberi. Invece, grazie alla Nunziatura Apostolica a Praga, riuscì a sapere dove si trovavano alcune delle persone che dopo l'8 settembre continuavano ad essere recluse nei campi di concentramento o che vi erano state trasferite da altri luoghi.
Particolarmente intensa fu l'opera di Weirich presso il campo di Ferramonti-Tarsia, in provincia di Cosenza. Qui, con l'aiuto del cappellano, padre Callisto Lopinot, la San Venceslao riuscì a compiere un lavoro davvero notevole. "Se gli internati cecoslovacchi riuscirono a sopravvivere fino alla liberazione del campo, avvenuta il 14 settembre 1943, fu indubbiamente anche per merito della tenacia e dell'intraprendenza di Weirich", annota Tronchin. Ma anche altri ebrei cecoslovacchi, sostenuti in precedenza dal loro connazionale, riuscirono a salvarsi restando nascosti fino al giorno della liberazione. Weirich conservò le loro lettere di ringraziamento.
Che cosa ne fu di questo oscuro eroe alla fine della guerra? Una volta libero riuscì a tornare a Praga dopo due mesi. Venne assunto di nuovo dalla Ctk e riprese a fare il corrispondente da Roma. Nel febbraio del 1948, in seguito alla presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslovacchia, la direzione dell'agenzia lo invitò a tornare immediatamente a Praga per importanti comunicazioni. Venuto a conoscenza di quanto era accaduto a molti suoi colleghi, finiti in carcere con l'accusa di essere spie, rifiutò e restò in Italia. Ovviamente venne licenziato e da allora per vivere fu costretto a svolgere svariati lavori.
Di lui ci si dimenticò subito e il suo nome cadde nell'oblio. Solo pochi storici lo menzionano brevemente e solo per quanto fatto al campo di Ferramonti. D'altra parte Weirich stesso non parlò mai troppo della sua esperienza. Al pari di altri salvatori, tendeva a minimizzarla. La nipote ricorda che ogni volta si domandasse allo zio perché avesse agito così, rispondeva semplicemente: perché andava fatto. Quando vollero dargli una medaglia disse: "Sì, l'accetto, ma devono darla anche a tutti quei frati e a tutte quelle monache che hanno nascosto le persone".
Ora che l'archivio personale ha rivelato la vera portata dell'opera di soccorso svolta da Weirich, si può davvero parlare di un "giusto" ritrovato e consegnato alla storia.
(©L'Osservatore Romano - 27 gennaio 2008)
I mesi dell'occupazione nazista a Roma nei ricordi delle suore di Tor de' Specchi
Pane azzimo nel monastero delle oblate
Grazia Loparco
Roma, Via Teatro di Marcello, 32 (antica Via del Mare, 12), a due passi dal Campidoglio, dalla Chiesa del Gesù e dal Tempio Maggiore: l'attuale monastero delle oblate di santa Francesca Romana è un complesso monumentale che racchiude e ingloba la storica Tor de' Specchi, ove soggiornò per quattro anni la santa, insieme ai primi ambienti dove diede avvio a un'esperienza nuova per il Quattrocento: la possibilità per le oblate di dedicarsi a opere di carità sulla base di una vita comune.
Nel vasto caseggiato - attualmente abitato da quindici oblate - durante la seconda guerra mondiale c'erano una quarantina di religiose. La fondazione non si è mai estesa particolarmente, sicché la sede è unica, le religiose si conoscono per lunga consuetudine di vita e per i racconti orali tramandati negli anni.
Secondo l'elenco delle case religiose che ospitarono ebrei nei mesi dell'occupazione, dall'ottobre 1943 al 4 giugno 1944, presso le oblate trovarono ricovero quarantatré ebrei. Una recente conversazione con la madre presidente, suor Maria Camilla Rea, che è in sede dal 1960, e con suor Paola Vecchi, giunta nel 1955, getta luce su alcuni particolari, nomi, luoghi, ricordati con esattezza e custoditi con sobria discrezione. Purtroppo non resta documentazione scritta, poiché le religiose temettero di essere scoperte e distrussero quanto poteva comprometterle.
Negli anni della guerra la madre presidente era Maria Pia Ugolini, a capo della comunità dal 1920 al 1945: una romagnola, che aveva delle conoscenze in Vaticano. Non è dato sapere con esattezza se qualcuno caldeggiò l'apertura alle donne e ai bambini ebrei, tuttavia si ricorda la rete di comunicazione tra la comunità, i Gesuiti del Gesù e la parrocchia di Santa Maria in Campitelli, dove trovarono rifugio degli uomini, i quali ogni tanto provavano a salutare le mogli a Tor de' Specchi, quando esse si affacciavano dal "terrazzo degli ebrei" verso l'attuale Via Teatro di Marcello.
Le religiose raccontano ciò che hanno sentito dalle dirette interessate e menzionano in particolare suor Pasqua di Cosmo, di Sora, una suora nata nel 1920, molto attiva e intraprendente, che morì negli anni Ottanta. All'epoca era portinaia e divenne la beniamina delle ebree, che conservarono molta riconoscenza nei suoi riguardi.
Tutte le religiose erano a conoscenza della presenza del nutrito gruppo di ospiti clandestini e i bambini si intrattenevano liberamente con le religiose. Dall'esterno il monastero non dà nell'occhio, sicché non si lamentarono perquisizioni. Anzi è probabile che alcune donne ogni tanto ebbero possibilità di uscire da porticine secondarie. Gli ospiti, donne e bambini, si intrattennero per mesi, avendo a disposizione uno stanzone, noto come foresteria in cui si ospitavano generalmente le mamme delle religiose. Un corridoio immetteva in una scala piuttosto isolata, che dava accesso al terrazzo. Sul pianerottolo è ancora visibile una stufa a legna che serviva alle donne ebree anche per cuocere il pane azzimo, necessario per alcuni riti. Disponevano altresì di un pozzo e di bagni, sicché erano sistemati meglio di quanto capitò a molti altri.
Nel giardino interno, ben coperto dal fogliame, i bambini scorrazzavano e si ricorda ancora il luogo in cui fu legata una mucca, che suor Pasqua si fece regalare dai parenti che abitavano a Torre Maura, fuori Roma, per avere il latte necessario per i piccoli.
Alcune ebree provenivano da famiglie di commercianti e si erano portate i loro beni: in particolare si ricorda un'anziana seduta a lungo sul suo baule, in cui aveva nascosto i gioielli, che custodiva gelosamente.
Donne e bambini erano ospitati gratuitamente e condividevano il poco di cui disponevano le oblate. In particolare mancavano sale e zucchero, che talvolta riuscivano a recuperare al mercato nero i parenti delle religiose. Una bimba chiedeva spesso "zuzu", lo zucchero, a suor Pasqua, e la religiosa per accontentarla rovistava nei cassetti del refettorio per trovarne qualche zolletta. A distanza di tempo, la piccola, che ha continuato a frequentare le suore anche cresciuta, ammetteva di essere rimasta golosa.
A differenza di altri casi, le ebree nascoste non furono sottoposte a travisamenti, né costrette a seguire le liturgie, per camuffare la loro presenza, perché la casa non era frequentata da persone esterne. La guerra, infatti, aveva interrotto l'Opera delle Zitine cioè l'assistenza alle giovani domestiche, che si recavano presso le oblate il giovedì e la domenica pomeriggio. Lo sfollamento di molte famiglie abbienti nei mesi dell'occupazione diradò anche la presenza delle domestiche e diede l'immagine di una città che sopravviveva appena, occupata piuttosto dagli sfollati provenienti dai centri bombardati.
La delazione, non toccò mai gli ospiti dell'istituto religioso, cosa che accadde invece ai mariti che passavano in Via del Mare, talvolta coi figli, per vedere e salutare le mogli affacciate al terrazzo. Non pochi di essi furono tra i deportati alle Fosse Ardeatine nel 1944. Una donna riuscì a riconoscere il figlio adolescente, sfigurato, solo dall'anellino regalatogli come segno del passaggio alla maturità, durante il rito celebrato nella sinagoga. Un'altra signora impazzì, quando non vide più passare il marito.
La madre presidente e suor Paola sono testimoni indirette di quei giorni, ma sono custodi certe delle memorie tramandate in una lunga consuetudine di vita e di conoscenze, mentre hanno molti particolari "dal vivo" da raccontare sulle relazioni successive, mai interrotte, tra la comunità religiosa e gli ebrei, soprattutto commercianti della zona che continuarono a esprimere riconoscenza alla comunità. In particolare c'era una signora che nelle feste della Madonna portava dei fiori, ricordando che Maria, figlia d'Israele, era "una di loro"; un'altra dopo la guerra raccoglieva campionari o scampoli di stoffa dai negozi e li offriva alle religiose che avrebbero potuto ricavarne borsette o oggetti utili.
Le religiose affermano che tra le oblate e gli ospiti si era stabilito un rapporto di reciproco rispetto riguardo le convinzioni religiose; inoltre c'era spontaneità nei contatti, secondo lo stile semplice tipico delle oblate. Dopo la guerra, suor Pasqua, a riprova dell'amicizia stabilita, partecipò ad esempio a feste per gli anniversari di matrimonio di sposi ebrei, come pure ad alcuni funerali. Il 23 ottobre 1994 madre Paola fu invitata in Campidoglio per ritirare un riconoscimento all'interno di un momento celebrativo offerto dalla Comunità ebraica, in sostituzione di suor Giuseppina Ciucci, testimone diretta: "Chiunque salva una vita, salva il mondo intero".
Nel magnifico edificio plurisecolare sono custodite memorie del passato, ma anche relazioni interpersonali che durano fino ad oggi, nella semplicità e nella ferialità del "buon vicinato".
Grazie al Coordinamento Storici Religiosi si vanno componendo da alcuni anni informazioni sulle case religiose maschili e femminili di Roma in cui furono con certezza nascosti ebrei, il loro numero e la documentazione superstite che si può anche consultare in internet (www.storicireligiosi.it/maps.asp). Scampoli di memorie vanno ricostruendo un mosaico che aiuta a comprendere come fu possibile alla maggioranza degli ebrei romani sfuggire alla cattura, ma anche come vissero nei mesi della clandestinità, quali relazioni del tutto imprevedibili si stabilirono nell'emergenza e per quali vie di contatto umano siano sorte delle vere amicizie di lunga durata.
(©L'Osservatore Romano - 27 gennaio 2008)
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