22 aprile 2007

Sant'Agostino di Ippona, il "maestro" di Papa Ratzinger


Cari amici,in molte occasioni abbiamo sentito della vicinanza spirituale e teologica del Papa a Sant'Agostino. Il giovane Ratzinger si laureo' in teologia con una tesi dal titolo "Popolo e casa di Dio in sant’Agostino" ed e', forse, il maggiore conoscitore vivente del pensiero e delle opere di Agostino.
Ma chi era il Santo di Ippona? In attesa della pubblicazione della splendida omelia di stamattina, ecco qualche notizia:


SANT'AGOSTINO (354-430 d.C.)


Aurelio Agostino nacque a Tagaste, sul territorio dell'odierna Algeria, nel 354. Era figlio di Patrizio, piccolo proprietario terriero, e di Monica, fervente cristiana. Compì gli studi presso Madaura, Tagaste e Cartagine, come autodidatta si interessò alla lettura di Cicerone e dei classici (la lettura dell'Ortensio di Cicerone produsse in lui l'amore per la filosofia).

Dopo la morte del padre aprì una scuola di retorica a Tagaste (373), poi insegnò a Cartagine (374-383), quindi, insoddisfatto, decise di trasferirsi a Roma. A Milano, dove infine si stabilì, ottenne la cattedra municipale di retorica.
Si noti che Agostino, pur avendo ricevuto un'educazione cristiana dalla madre, non aderì da subito alla religione cattolica, nutriva infatti molti dubbi sulla sua validità (in particolare lo ripugnava lo stile della Bibbia e aveva una concezione tendenzialmente materialista della realtà).
Agostino, nel primo periodo della sua vita, aderì al manicheismo (si vedano le eresie), visione che abbandonerà in seguito all'incontro con il vescovo manicheo Fausto, il quale sorprese negativamente Agostino per la sua ignoranza.

A Milano Agostino incontrò Sant'Ambrogio: negli anni che vanno dal 384 al 387 maturò la sua conversione al Cristianesimo. Gli ostacoli che più si frapposero sulla via della piena maturazione cristiana furono l'abbandono della donna con la quale aveva vissuto per quattordici anni e che gli aveva dato un figlio, Adeodato, e la decisione di convivere con un'altra donna. Solo nel 386, colpito dalla vita monastica, decise la piena conversione. Nel 387 decise di farsi battezzare, di abbandonare la donna con la quale conviveva e dare una svolta alla sua vita di "bagordi e di lussuria", infine lasciò anche l'insegnamento. Sant'Ambrogio lo battezzò a Milano, dopo un periodo di ritiro a Cassiciacum, in Brianza.

Deciso il ritorno in Africa, fu sorpreso dall'improvvisa morte della madre, ad Ostia, mentre due anni dopo morì anche il figlio Deodato. Nel 391 venne ordinato sacerdote della Chiesa cristiana, nel 396 divenne vescovo di Ippona (l'attuale Bona). Da questo momento in poi si dedicherà agli scritti di natura religiosa e alla lotta contro le eresie, tra le quali il Donatesimo, il Pelagianesimo e il Manicheismo, diventanto uno dei padri fondatori del Cristianesimo.

Si può notare, infine, come la vita di Sant'Agostino sia stata caratterizzata da un percorso religioso irto di difficoltà e ripensamenti, di indecisioni e di periodi nei quali Agostino stesso, nelle Confessioni, si definisce "caduto nel peccato". Tale percorso portò Agostino a incarnare la figura, per molti tratti emblematica, dell'uomo che approda con sofferenza e a tappe forzate di maturazione alla religione cristiana, vista come suprema conquista della verità e del bene.

Le opere di Sant'Agostino sono più di trecento. Le più importanti sono: La Trinità (pietra miliare della teologia) del 419, Le Confessioni (la sua biografia) del 397, La grazia di Cristo e il peccato originale (418) e La città di Dio (413-427). Altri scritti importanti contro le eresie sono Contro i Manichei (388), Sul battesimo contro i Donatisti (401), Sulle gesta di Pelagio (417).


Preambolo

Sant'Agostino, tra i massimi esponenti della patristica cristiana, fu autore molto prolifico, il suo acume fu messo a disposizione della difesa del significato originario del Cristianesimo, minacciato dalle numerose eresie che ne minavano l'autenticità, ma furono da lui trattati anche altri temi importanti quali il problema della conoscenza di Dio, il concetto del tempo, i problemi etici connessi all'esistenza del male e alla sua presenza nella storia.
Si può riscontrare in Sant'Agostino una radice neoplatonica, laddove ammette l'inconoscibilità di Dio per via puramente razionale e si concentra sull'introspezione dell'anima, questa intesa come sede ultima e privilegiata per accedere alla comprensione divina. Certamente il suo pensiero si distingue da quello di San Tommaso, che quasi un millennio più tardi fonderà il suo sistema filosofico sulla radice aristotelica, meno mistica e più logica, incentrata sull'alleanza tra fede e ragione, mediante la quale si arriva a provare l'esistenza di Dio per via esclusivamente razionale.


1. L'esistenza di Dio

Nel Soliloquia, un operetta composta nel 387, Sant'Agostino immagina un dialogo ideale tra lui e la ragione: Agostino desidera conoscere Dio e l'anima, la ragione dovrà dargli una risposta.

La ragione chiarisce da subito che per conoscere Dio occorre che sia presente in Agostino (qui nelle vesti di ambasciatore dell'umanità) l'idea stessa di Dio, ovvero occorre che nell'uomo sia presente quel concetto che permette di identificare Dio per paragone con il concetto che desideriamo averne, occorre cioè che l'uomo sappia qual è la forma che deve assumere Dio per permettere di riconoscere che si è giunti a darne una risposta. Agostino ammette senz'altro che non ha un'idea del modo in cui dovrebbe conoscere Dio, in quanto è proprio ciò che gli preme indagare. "Quale cosa ho mai appreso che sia simile a Dio, in modo da poter dire: voglio intendere Dio così come intendo la tal cosa?". (Sant'Agostino, Soliloquia).

Nonostante ciò la ragione promette di fornire una definizione di Dio per cui Egli stesso verrà mostrato e riconosciuto così come si mostra e si rende evidente qualcosa sotto la luce del sole, la ragione promette cioè di fornire una definizione di Dio per cui l'uomo non potrà che convenirne.

La fede. Innanzitutto occorre che la mente, sede della ragione ma anche dell'anima, sia mondata da ogni affanno terreno, da ogni "macchia corporea": l'atto mentale per cui ci si può avvicinare a Dio è un atto di puro intelletto. La consapevolezza di rendere puro lo sguardo dell'anima è la fede, ovvero la consapevolezza di poter giungere, con la purezza, a concepire Dio. L'anima non si preoccurebbe infatti della purezza se non avesse fede che rimanendo pura potrebbe vedere cose che altrimenti le sarebbe impedito vedere.

La speranza. Ma vi sono menti che pur sapendo di poter concepire Dio (pur avendo fede), non riescono a svincolarsi completamente dall'influsso materiale del corpo, per cui esse disperano di poter arrivare alla purezza e si abbandonano alla loro fragilità rinunciando a percepire Dio. Per superare questa incertezza occorre quindi che l'anima sia guidata dalla speranza.

L'amore. Ma pur avendo presente il concetto di fede e quello della speranza, se non si desidera l'oggetto stesso di quella fede e di quella speranza, l'anima resterebbe comunque muta alla luce che le si promette. E' necessario allora che nell'anima vi sia l'amore per Dio, ovvero il desiderio di accoglierlo entro la propria anima.

Queste sono le tre condizioni per cui un'anima si può dire guarita dalla malattia terrena, per cui la verità sembra essere confinata entro i limiti delle cose mortali: solo se sono presenti la fede, la speranza e l'amore l'anima può realmente dirsi in grado di riconoscere Dio una volta mostratosi. Da questo si evince che per Agostino la ragione non è nulla se non parte dalla fede, la fede stessa è la guida che impedisce alla ragione di percorrere i sentieri sbagliati: solo la fede può rendere vero il cammino della ragione, senza di essa, la ragione percorre l'errore.

Dunque con la fede l'uomo crede di poter arrivare a concepire Dio, con la speranza egli trova la forza per accoglierlo entro sé e con l'amore desidera che le condizioni precedenti possano essere esaudite. Ma come dimostrare, una volta mondata l'anima dagli ostacoli che le impediscono di raggiungere la verità, l'esistenza di Dio?

La ragione può finalmente mettersi all'opera: occorre ragionare sui termini "verità" e "vero". Ogni cosa che è vera ha in sé la verità. Ma le cose vere scompaiono: gli uomini, gli oggetti, le cose del mondo, le quali sono vere perché si mostrano indubbiamente, scompaiono perché periscono o si distruggono. Pur scomparendo le cose che sono vere, la verità comunque non scompare, continua a vivere "come la castità sopravvive alla morte di colui che è casto". Ma se una cosa esiste e continua ad esistere, occorre che tale cosa esista da qualche parte. La ragione dimostra ad Agostino come la verità che sopravvive alle cose terrene non sia da cercare nel mondo terreno, la verità è qualcosa che si trova al di là della materia, la verità non muore con le cose che muoiono, la verità è immortale. Ma visto che ogni cosa che è vera non può che avere in sé la verità, ogni cosa che si mostra agli uomini (ogni cosa vera) partecipa alla verità immortale e ultraterrena, ovvero, partecipa a Dio, il quale, indubbiamente, esiste.

Risulta chiara da questa dimostrazione l'influenza di Platone, in particolare nella distinzione tra concetto di verità (che per Platone costituisce l'idea immortale) e concetto di "vero", che qui rappresenta l'aspetto sensibile, realizzato e corruttibile dell'idea immortale della verità alla quale ogni cosa vera partecipa.


2. La creazione del tempo

Uno dei temi più celebri della teologia agostiniana è legato al concetto del tempo. Agostino cerca di rispondere a questa domanda: se Dio ha creato il mondo, cosa faceva prima della creazione? E che cos'è in realtà il tempo?

Sant'Agostino dapprima rispose con la celebre battuta: "Dio stava preparando l'Inferno per le persone che vogliono indagare cose troppo profonde". Successivamente afferma che Dio, prima della creazione, non faceva nulla, perché se così non fosse stato avrebbe di certo creato qualcosa, ovvero il mondo. In particolare Dio creò con il mondo anche il tempo. Con questo si afferma quindi il necessario legame che esiste tra le cose presenti nello spazio e il tempo stesso, per cui il tempo trova significato solamente rispecchiandosi nella materia, e viceversa. Spazio e tempo sono quindi indubbiamente correlati tra loro.

Ma cos'è, dunque, il tempo? Il tempo percepito dagli uomini è un eterno presente, ovvero se si può affermare che il presente esiste indubbiamente, non così per il passato e per il futuro, i quali non sono altro che proiezioni dell'animo umano. L'uomo infatti vive il passato come ricordo e il futuro come anticipazione, mentre il presente che vive lo percepisce intuitivamente come un reale continuativo e contingente. Di conseguenza le tre dimensioni temporali dell'uomo sono il presente del passato, il presente del presente e il presente del futuro (memoria, intuito e anticipazione).

Esistono, quindi, realmente il passato e il futuro? Esiste realmente un tempo passato, che ci siamo lasciati alle spalle, ma reale ed esistente, e un tempo futuro, ancora da vivere, di cui non possiamo avere alcuna certezza? Per Agostino l'uomo è impossibilitato a vivere il passato e il futuro come condizioni reali, in effetti l'uomo vive il suo presente sempre e in ogni luogo, passato e futuro non possono che essere presenti in lui soltanto come proiezioni dell'anima, questo perché non è possibile a nessun uomo vivere contemporaneamente nel presente e in un altra dimensione temporale allo stesso tempo (l'ennesima applicazione del principio di non contraddizione).

Ma Dio quale dimensione temporale abita? Dio, essendo eterno, abita il suo eterno presente e non è soggetto ad alcuna temporalità, in quanto si trova al di là della temporalità da Egli stesso creata.

In accordo con la Bibbia, Sant'Agostino formula una concezione lineare del tempo: il tempo ha avuto inizio con Dio e terminerà con il giudizio universale, gli eventi scorrono in avanti sempre nella medesima direzione e senza possibilità di ritorno al passato. Tutto ciò che accade dall'inizio del tempo fino alla sua fine è unico e irripetibile.

Con questa visione del tempo Sant'Agostino certifica metafisicamente il passaggio epocale dall'assetto temporale dell'antichità, in cui si credeva alla ciclicità del tempo e che ogni evento dovesse ripetersi uguale formando un anello (si veda l'apocatastasi stoica), alla temporalità biblica di derivazione giudaica, in cui Dio crea il tempo come una successione lineare di eventi e si riserva la possibilità di porre fine ad esso.


3. Perché esiste il male?

Un altro problema essenziale della teologia di Agostino è la giustificazione dell'esistenza del male. Infatti, posto che Dio è il bene, ci si chiede perché abbia lasciato che esistesse il male. Se Dio è bontà assoluta, come ha potuto creare un mondo in cui vi è spazio per il male?

Prima di tutto occorre porsi la domanda se il male esiste davvero: se non esistesse è comunque indubbio che il timore del male è esso stesso un male, anche se avere timore per qualcosa che non esiste sarebbe assurdo. Tuttavia esiste la possibilità, secondo Agostino, che il male sia nello stesso timore del male, qualora il male non esistesse ("Quindi o esiste un male, oggetto del nostro timore, o il male è il nostro stesso timore." Agostino, Le Confessioni).

E ancora possibile che il male sia nell'imperfezione della materia, ovvero nel fatto che la creazione divina sia imperfetta rispetto al creatore, in questo caso la possibilità del male è insita nella stessa materia priva di perfezione, per cui il male sgorga da una tendenza connaturata all'uomo.

Ma Agostino non può che constatare il fatto che se Dio è onnipotente, sommo bene, positività, l'esistenza reale del male non potrebbe spiegarsi se non attribuendo a Dio stesso la volontà del male: in altre parole, Dio onnipotente, qualora permettesse che nell'animo umano albergasse il male come entità presente e sostanziale, sarebbe creatore del male stesso e responsabile comunque della sua mancata rimozione.

Tutto questo porta Agostino a constatare che il male, in sé, non esiste. Ciò che l'uomo percepisce come male è in realtà il frutto di un allontanamento dal bene, per cui il male è constatabile solo per via negativa, ovvero come assenza del bene. Dio ha creato il mondo perché fosse un bene, l'esistenza del male è un'impossibilità.

Ma mentre l'uomo si allontana dal bene volontariamente (tema che sarà trattato più approfonditamente nel capitolo seguente), il male che viene dalle catastrofi naturali non porta con sé alcuna volontà di male: esse accadono in assenza di considerazioni etiche e possono venire capite solo se si allontana lo sguardo dalle sofferenze personali e si riconduce il tutto a una legge cosmica superiore, per cui è possibile scorgere comunque un'armonia.


4. Il peccato

Per chiarire la meccanica del peccato secondo Agostino ci viene in aiuto un passo contenuto ne Le Confessioni, il celebre furto delle pere, commesso da Agostino ancora ragazzo, quando, assieme ai suoi compagni di giochi, andò a rubare le pere dei vicini per il solo gusto di commettere una bravata.

Agostino nota come il furto sia stato commesso non per necessità, avendo nel suo proprio giardino frutta migliore che quella del vicino, ma per il semplice gusto di trasgredire la morale e provare l'ebrezza del peccato. Le pere, per la maggior parte, vennero date in pasto ai porci, solo in piccola parte gustata dai ragazzi, e nemmeno con troppa soddisfazione.

Questo episodio insegna che l'uomo si accinge a peccare per un impulso all'autoannientamento. Il peccatore non cerca principalmente l'oggetto del peccato, esso è solo una condizione, un mezzo per raggiungere il peccato in sé, ciò che veramente egli cerca. Che cos'è il peccato se non una sfida funzionale a se stessa?

Per Agostino il peccato è un'imitazione della potenza di Dio, un'imitazione impossibile, che si risolve in un tentativo maldestro di creare da sé nuove regole. Il peccato è una rivolta contro la potenza divina, ma rivoltandosi, gli uomini non fanno altro che ribadire l'importanza e la potenza di colui che vogliono contestare, ovvero, Dio.

Il peccato, come ogni forma di male, è allora un allontanamento dalla verità di Dio, la verità è già presente nelle nostre anime, ma per il fatto di essere fragili e insicuri, limitati, soggetti alla paura, gli uomini spesso si allontano dalla verità per sfida o per sentimento di autoannientamento, ovvero il sentimento che spinge un uomo a cedere al buio per affrontarne e vincere la paura del buio stesso: per Agostino questi tentativi umani di affrontare il buio dell'anima concedendosi ad esso per creare una sorta di abitudine, sono destinati al fallimento. Il buio non si vince abituandosi ad esso, il buio si vince avvicinandosi alla luce.


5. L'imperfezione dell'uomo e la Grazia per predestinazione

La meccanica del peccato insegna che l'uomo ha in sé la tendenza ad allontanarsi dal bene divino per superbia (l'uomo è peccatore perché vuole imitare la potenza divina). Questa capacità di allontanarsi dal bene cedendo alla sua assenza (ovvero, come si è visto nel capitolo 3, al male stesso) consente all'uomo di commettere volontariamente il male. Mentre per gli antichi il male era frutto di una mancanza di conoscenza, per Agostino, e per tutta la durata del medioevo, il male è frutto dunque di un atto volontario dell'uomo.

L'uomo ha perduto la sua innocenza con Adamo, lo stato di precarietà e di limitatezza che l'uomo vive dalla cacciata dall'Eden è causa di ogni tendenza all'allontanamento dal bene. Dio è massima perfezione, le sue creature non condividono lo stesso stato di beatitudine, l'uomo è ferito, fragile, incompleto. E in questa fragilità che la tentazione di sfidare la paura del male abbandonandosi al male stesso genera quell'allontanamento da Dio che è causa di ogni miseria morale.

Ma come può l'uomo salvare la propria anima? "Il giusto sarà salvato per la sua fede" scriveva San Paolo nella Epistola ai Romani.
Molta parte della Chiesa interpretò e interpreta tuttora questa frase nel senso che l'uomo può salvarsi e raggiungere il Paradiso grazie alle buone opere di cui si può fregiare sulla terra, il Giudizio Universale sarà il momento in cui Dio assegnerà colpe e ricompense, grazia e dannazione, in ragione dell'operato dell'uomo. Tuttavia questa visione porterebbe a un paradosso teologico: se la salvezza dell'uomo dipende dalla possibilità da parte dell'uomo di scegliere con le proprie forze se essere dannato o no (sarebbe salvo se solo si attivasse per le opere buone), Dio non avrebbe più alcuna possibilità di esercitare la sua potenza sugli uomini e gli uomini stessi sarebbero padroni esclusivi del proprio destino. Tutto ciò ridurrebbe Dio a semplice esecutore di una Legge superiore ma nulla può essere superiore a Dio.

Questa visione non era quella di Agostino. Rispondendo all'eresia di Pelagio, che predicava la possibilità dell'uomo di salvarsi senza l'aiuto di Dio, essendo il peccato originale una colpa gravante sul solo Adamo, Agostino traccia la dottrina della predestinazione: solo Dio decide in piena autonomia chi salvare o no dalla dannazione, l'uomo non può che avere fede nella salvezza divina, ben sapendo che l'ultima parola sulla sua salvezza non può spettare ad altri che a Dio (tale dottrina verrà poi ripresa da Lutero e dal Giansenismo).

In ultima analisi, Agostino sostiene che l'uomo non può che trovare la Grazia in Dio. Gli uomini non possono far altro che avvicinarsi alla luce divina tenendo il buio delle loro anime il più lontano possibile: il bene è Dio, il male l'allontanamento dalla sua bontà, già presente in potenza nelle nostre anime, esse stesse creazioni divine.


6. La città di Dio

La città di Dio fu scritta da Agostino dopo il saccheggio di Roma da parte dei Goti di Alarico, nel 410 d.C. e risponde all'esigenza di dare un significato a quei terribili eventi che sembrarono segnare la fine della civiltà romana e porre inizio a un'epoca di imbarbarimento.

Con La città di Dio Agostino tratta organicamente e per la prima volta un tema molto importante, il tema del significato della storia degli uomini. Per gli antichi, come si è visto, il tempo era una successione ciclica di eventi, per cui a momenti favorevoli dovevano seguire, per una legge di giustizia e compensazione, momenti sfavorevoli. Agostino ribadisce invece la linearità di un tempo che non torna indietro ma che tende a un fine, quello della realizzazione di una società terrena improntata allo spirito cristiano. L'impero romano stava sì dunque crollando, ma tale crollo non significava la fine della civiltà, stava solo ponendo le basi di una società più giusta e migliore di quella romana, la civiltà cristiana. La storia, dunque, tendeva comunque a un lento e inesorabile miglioramento, a un fine, e non prevedeva ricadute necessarie nel buio.

Agostino afferma che esistono due forze contrastanti che agiscono nella storia, una lotta tra due regni: la città terrena e la città celeste. La città terrena è la città di Satana, corrisponde alla natura, alla materia, al corpo, ad ogni aspetto concreto dell'esistenza, la citta celeste è invece la città di Dio, la comunità dei giusti, promotori del bene. Tali città non sono da considerarsi come entità concrete, esse sono condizioni dello spirito umano, per cui la città terrena interpreta i bisogni impuri del corpo, i suoi istinti peggiori, essendo la comunità degli uomini votati al peccato e alla caducità delle cose materiali, mentre la città celeste interpreta i bisogni dell'anima votata al bene ed è la condizione degli uomini che vivono nella grazia divina. Tuttavia non vi sono periodi della storia umana che hanno visto la vittoria definitiva di uno o dell'altro regno, la storia umana è lotta perenne di queste due tendenze che continuamente si mescolano e si mescolano.

Entro questa visione, l'impero romano rappresenta solo un episodio del piano divino che tende alla realizzazione della società cristiana: la pax romana e la confluenza delle lingue dell'Europa nel latino, hanno permesso al cristianesimo di creare le condizioni necessarie alla diffusione del suo messaggio di pace.

La città di Dio ribadisce la superiorità delle istituzioni religiose a scapito di quelle civili, un cambio epocale e politico su cui si fonderà lo svolgimento di tutto il medioevo, rispecchiato anche nel lungo contrasto tra potere temporale e potere spirituale. Alla società cristiana spetta dunque il compito di realizzare in terra la città celeste, il regno dei giusti, una delle tappe di avvicinamento alla salvezza.


7. La risposta al Pelagianesimo e al Donatismo

Sant'Agostino, come già detto, scrisse alcuni libri in difesa del Cristianesimo, minacciato dalle eresie che all'inizio ne minavano l'identità. Le risposte alle eresie ebbero il grande vantaggio di rafforzare l'assetto e la dottrina della neonata religione cattolica. Si inaugurò così l'alleanza tra ragione e necessità di confutare le tesi avverse al messaggio autentico proposto dalla Chiesa, atteggiamento che troverà il suo massimo sviluppo con la Scolastica tomista.

La risposta al Pelagianesimo. Il Pelagianesimo trae origine da Pelagio (350-425 d.C. circa), un monaco britannico. Egli sosteneva che la salvezza dell'uomo non fosse nelle mani assolute di Dio, ma che l'uomo potesse arrivare da se, con le proprie forze, alla grazia e alla redenzione. Pelagio intendeva dare maggiore responsabilità all'uomo, alle sue possibilità: mentre Agostino affermava la totale sottomissione dell'uomo alla volontà divina, Pelagio affermava che il peccato originale non fosse connaturato all'uomo ma derivasse da un suo "disordine dei sensi", un errore accidentale, quindi, e non un peccato obbligato dalla natura imperfetta degli uomini.

Agostino risponderà formulando la dottrina della predestinazione (vedi capitolo 5) e ribadendo che l'uomo è troppo limitato e lontano da Dio per poter credere di salvarsi in piena autonomia, questa visione sarebbe poi una palese limitazione dell'onnipotenza divina.

La risposta al Donatismo. Il Donatismo (da Donato, il suo teorico) si caratterizza come movimento scismatico. Le sue origini si riscontrano già durante il periodo delle persecuzioni dei primi cristiani: il Donatismo predica la necessità che la Chiesa si configuri come un'organizzazione fortemente elitaria e selettiva, composta da cristiani puri (non ammetteva infatti il rientro in seno alla Chiesa dei sacerdoti convertiti sotto persecuzione). la Chiesa era una comunità talmente perfetta da non avere la necessità di aprirsi al mondo e alla grande massa. Le comunità religiose che si fossero aperte al mondo avrebbero perso la capacità di esercitare i sacramenti.
Tale movimento minacciava quindi il carattere universale ed ecumenico della Chiesa. La Chiesa di Cristo era stata fondata per portare la Lieta Novella alla totalità degli uomini, naturale che il carattere elitario promosso dal Donatismo contrastasse con la correttezza dei precetti cristiani.

Sant'Agostino sostenne che la Chiesa non poteva isolarsi e aveva anzi il dovere di aiutare l'uomo nel suo cammino spirituale. Inoltre la validità dei sacramenti divini non poteva dipendere dal sacerdote che li esercitava (condizione esasperata dal concetto di una Chiesa chiusa su se stessa in cui i sacerdoti erano detentori di una sapienza quasi "segreta"), in quanto è Dio che opera attraverso il sacerdote e non il sacerdote che opera autonomamente da Dio. La Chiesa cristiana era universale e permetteva ad ogni singolo individuo, sia esso peccatore o giusto, di accedere a pieno titolo alla religione.

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