26 aprile 2007
Intervista al professor Alfred Lapple, "istitutore" di Papa Benedetto XVI
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Rassegna stampa del 26 aprile 2007
VIAGGIO PASTORALE IN TV
Il 21 a Pavia, poi in Brasile, quindi ad Assisi, Loreto, Sidney e, nel segno della pace, a New York. Papa Benedetto XVI si rivela così anche figura mediatica.
Intervista esclusiva al suo “istitutore” Alfred Lapple
La formazione culturale di Joseph Ratzinger era, a ventiquattro anni, completa. Classici latini e greci, leggevo Goethe con entusiasmo”, dice, mentre Schiller gli pareva troppo moralista. Amava gli scrittori del XIX secolo: Eichendorff, Morike, Storm, Stifter. Lo appassionavano i romanzi di Gertrud von Le Fort, Elisabeth Langgasser, Ernst Wiechert, Dostoevskij; i grandi francesi Claudel, Bernanos, Mauriac.
Persino le opere di eminenti scienziati come Plance, Heienberg, Einstein. In campo filosofico e teologico: Romano Guardini, Josef Pieper, Theodor Hacher, Peter Wust, il cardinale Newman, Heiddeger, Jaspers. Nietzsche, Klages, Bergson, Husserl.
Come in fisica si poteva constatare l’abbandono dell’immagine meccanicistica del mondo, così si riteneva di poter osservare anche in filosofia un ritorno alla metafisica. Il cammino iniziava con Kant e gli studi su Hegel per sfociare nel nuovo movimento di pensiero del personalismo, che -scrive Ratzinger- nel mio caso si legò quasi da sé con il pensiero di Sant’Agostino.
Nelle Confessioni mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane.
Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di San Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in se stessa, impersonale e preconfezionata”.
Gli studi di teologia a Monaco danno a Ratzinger la possibilità di entrare ancora più nella cogitatio fidei, nella intelligenza della fede. L’esegesi diventa il centro del lavoro teologico del giovane Joseph. E’ una sorta di colpo di fulmine favorito dalla star della facoltà di teologia, Friedrich Wilhelm Majer, professore di esegesi del Nuovo Testamento.
Durante il seminario di Frisinga, come prefetto della sala di studio, viene assegnato un teologo da poco rientrato dalla prigionia inglese: Alfred Lapple, uno dei più fecondi scrittori religiosi del nostro tempo. Novantadue anni, da oltre sessanta è amico del Papa bavarese.
Raggiunto a Monaco da Elena Balestri, coordinatrice editoriale della struttura Rai-Vaticano, ha ricostruito le stagioni del dopoguerra in una Germania ricoperta di macerie materiali e spirituali.
La lacerazione delle coscienze, gli orrori del conflitto, la pena per i scomparsi, il senso di colpa che la fede solo a fatica leniva. Un popolo inchiodato dalla storia davanti alle proprie terribili responsabilità. Da carnefice a vittima di se stesso. Il ricordo di Lapple è nitido ed aiuta a cesellare la personalità di Benedetto XVI. Scontornandolo ne evidenzia la singolarità e la grandezza.
Quando, professor Lapple, ha conosciuto Joseph Ratzinger?
“Solo dopo la guerra, nel 1946. Il rettore del seminario filosofico di Frisinga mi nominò prefetto di cinquanta giovani seminaristi. Nella sala rossa, fra cinquanta banchi di legno, erano seduti i due fratelli Ratzinger: Georg, più grande e Joseph, il più piccolo. Fu Jospeh ad avvicinarsi: “Potrebbe spiegarmi che cosa significa la meditazione e la spiritualità di cui ha parlato ieri sera il padre spirituale? Da quella domanda e da una infinità di altre è nata l’amicizia di una vita”.
Aveva il compito di seguire una generazione che aveva visto in faccia la guerra. Irrequieta e afflitta da tormenti.
"Un giorno Joseph Ratzinger mi domandò come avevo potuto resistere all’intero periodo della guerra. Dove avevo trovato la forza interiore. Risposi che soltanto la fede in Dio mi aveva salvato. La fede in Dio e le preghiere di mia madre. A Frisinga i seminaristi erano circa centoventi. Le differenze erano evidenti. Io, allora, avevo trentuno anni, Joseph Ratzinger diciannove. Una differenza di età enorme, il che equivaleva ad una differenza dei ruoli ricoperti in guerra. Lui, arruolato di forza nella contraerea , io sul fronte. Gradi militari diversi. Il cardinale Michael von Faulhaber celebrò una messa di requiem un memoria dei sacerdoti, degli studenti di teologia e dei seminaristi caduti. “Siete tornati a casa. Dio vi ha donato una seconda vita. Ringraziatelo studiando per diventare buoni sacerdoti”. Ci insegnò la gratitudine".
Non volevate guardare indietro?
“No. Durante la guerra avevamo saputo dei campi di concentramento. Il nuovo rettore del seminario, Michael Hock era stato internato cinque anni a Dachau. Non parlavamo mai fra noi degli ordini ricevuti né dei ruoli militari ricoperti. Nessuno sapeva dove era stato l’altro. Io, per esempio, ero alle porte di Leningrado nell’inverno 1941-42. volevamo studiare su un’isola di pace, dimenticare che, sotto il nazismo, alcuni preti avevano scambiato l’abito talare con l’uniforme marrone”.
Ci sono stati probabilmente seminaristi sui trent’anni, che si sono confidati con Lei. Erano stati al fronte, magari avevano ucciso. Potevano diventare buoni preti?
“Ricordo che fra il 1948 e il 1952 feci parte della commissione decisionale. Decidere se un giovane poteva diventare prete. Uno di loro mi disse: “Non posso andare dal rettore, lui è stato in un campo di concentramento e non potrà capire”. Fra i docenti del seminario di Frisinga io ero il solo ad essere stato in guerra. Questo seminarista continuò: “In Russia, durante un’azione di partigiani, ho fucilato venti persone. Non so dire se sia stato necessario. Crede che potrò diventare sacerdote?"
E Lei che cosa rispose?
“Sta a te decidere. Se senti però questo peso interiore e hai la sensazione di una colpa irrimediabile, allora devi riflettere. Salire sull’altare ed iniziare la Santa Messa col dominus vobiscum col terrore che qualcuno si alzi e ti gridi: “Sei un assassino…”
E come andò a finire?
Quel giovane lasciò il seminario. Il figlio poi è diventato sacerdote. Un altro che aveva vissuto la lotta partigiana nell’Italia centrale ebbe un approccio diverso: “Voglio diventare sacerdote, voglio espiare per tutto quello che è successo laggiù”. E’ diventato sacerdote e, in seguito, vescovo. Era un uomo straordinario”.
Torniamo a Joseph Ratzinger. Come lo descriverebbe?
“Era il beniamino della sua famiglia. Tranquillo, riservato, mai inopportuno. Un giovane di buon cuore che aveva bisogno di confidarsi. Era curioso di verità. Faceva continuamente domande. Era un intellettuale col cuore. Tradusse come me la Quaestio disputate de caritate di Tommaso d’Aquino ed apprezzò il mio lavoro su “La Teologia come crisi ed impresa del teologo”, frutto di alcune lezioni tenute in un campo di prigionia americano. Si avvicinò, grazie a me, al pensiero del cardinale Newman e fu colpito dal suo motto episcopale “Cor ad cor loquitur”, il cuore parla al cuore. Tale espressione era il paradigma del pensiero di Joseph Ratzinger”.
Oltre a Lei ha coltivato in quel periodo altre amicizie?
“Non aveva molte amicizie. Solo quando fu ordinato sacerdote e cominciò ad insegnare in varie università si creò una grande cerchia di amici. Con gli anni Ratzinger ha continuato a pensare con il cuore, ad essere una persona leale. Lo ha dimostrato nel 2006 in Polonia, al campo di concentramento di Auschiwitz-Birkenau: “Sono figlio del popolo tedesco, sono un papa tedesco e sono qui per pregare”.
In Baviera ha scelto come motto del viaggio pastorale “Chi crede non è mai solo”. Questa non è una scelta teologica, è la sua vita. In quel motto c’è tutto Ratzinger".
Lei lo ha seguito nei primi passi da sacerdote alla Parrocchia del Preziosissimo Sangue di Monaco, poi come docente e Vescovo…
“Diventato prete gli dissi: “Dedicati alla pastorale, così ti renderai conto se fa per te oppure no. Un anno dopo l’ordinazione si trovò a prendere la decisione di proseguire gli studi di teologia. Non esitai: “Joseph, la tua strada è quella accademica”. E nella mia stanza al secondo piano del seminario ci salutammo dopo la sua prima Messa. Fu lui a prendere il mio posto come docente; fu sulla stessa scrivania dove sedevo io che scrisse la tesi di dottorato e preparò l’esame di abilitazione. Quando Dofner, l’arcivescovo di Monaco, morì all’improvviso, fra i candidati episcopabili c’eravamo io, Ratzinger e Karl Forster. In un colloquio notturno gli dissi: “Joseph, accetta, è la cosa più giusta per te. Come Lei sa, aveva dato più volte le dimissioni da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Voleva raccogliere tutti i suoi lavori. Gli avevo persino fatto avere due contratti con case editrici tedesche che lui firmò. Era tutto sistemato, ma le cose sono andate diversamente”.
Oltre a Lei, chi sono stati i punti di riferimento intellettuali?
Sono stati l’Henri de Lubac di Cattolicesimo e il professor Gottlieb Sohnger di Colonia che amava, fra l’altro, profondamente la musica e spesso portava lo studente Ratzinger all’Opera di Monaco.
Una cosa che fino ad oggi nessuno sapeva. Alcuni discorsi di Sohnger rivelano quello che questo teologo è stato per Ratzinger, quali siano state le sue radici. Penso al legame strettissimo con la famiglia. Più volte Ratzinger ha confessato: “E’ nella mia famiglia che ho imparato a pregare, a fare musica dai libri religiosi”. Solo pochi giorni fa il fratello del Papa, monsignor Georg, mi ha detto: “Mentre lavavamo i piatti cantavamo l’Ave Maria”. Atteggiamenti che vengono dal cuore. Joseph era dispiaciuto per certe liturgie arbitrarie. “A Gesù – ripeteva – non si fa una cosa simile”, per la confusione in campo religioso.
“La libertà di religione – affermava – può diventare facilmente uguaglianza di religione”; per come veniva considerata la Chiesa”.
Un conservatore o un progressista?
“E’ strano. In Italia Ratzinger è stato considerato per lo più un progressista; in Francia un conservatore. Questo fa capire che, in base alla posizione, la stessa identica persona possa essere considerata progressista o conservatrice. In realtà, Joseph Ratzinger è sempre rimasto fedele ad un’unica linea: lasciar parlare il cuore al cuore. Sono convinto che a tale proposito non abbia mai abdicato, che sia diventato il progetto della sua vita, della sua preghiera e della sua fede”.
Radiocorriere TV, n. 16
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