25 aprile 2007

Auguri, Santita'...parola di cardinale


Vedi anche:

Auguri, Santità! La parola ai cardinali...

L’amicizia imparata alla scuola di sant’Agostino

del cardinale Tarcisio Bertone sdb
segretario di Stato, camerlengo di Santa Romana Chiesa


Sta scritto nella Bibbia che gli anni della vita dell’uomo «sono settanta, ottanta per i più robusti» (Salmo 89, 10). Sì, il santo padre Benedetto XVI i suoi ottant’anni li porta assai bene, ma nella categoria dei “più robusti” egli va annoverato per ben altri motivi. Il Signore, infatti, lo ha dotato di una “robustezza” davvero eccezionale in senso intellettuale e spirituale: non solo per la vasta e profonda cultura teologica, che tutti gli riconoscono, ma anche per quella sua squisita gentilezza che non ha nulla di formale, ma esprime una straordinaria attenzione alle singole persone. È impressionante come con ciascuno di coloro che incontra, anche nelle udienze più affollate, papa Benedetto XVI scambi qualche parola non di circostanza, ma personalizzata. Ancora: il senso dell’amicizia, che egli considera sinceramente sacra. L’amicizia con Dio, prima di tutto, e poi anche l’amicizia umana e fraterna imparata alla scuola di sant’Agostino, per il quale l’amicizia va cementata «con la carità dello Spirito Santo, effuso nei nostri cuori» (Confessioni IV, 4, 7).
Io ho dei ricordi bellissimi del mio lavoro accanto al cardinale Ratzinger già da quando ero consultore della Congregazione per la dottrina della fede, quindi dagli anni Ottanta, prima ancora di diventare segretario di quel dicastero. Anzitutto vorrei sottolineare la chiarezza della dottrina, nella sempre elevata nobiltà del linguaggio, ma nello stesso tempo la sua efficace capacità di persuasione. E poi la sua indefettibile amicizia, una vera forza, al di là della volubilità degli uomini. Da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Ratzinger era solito dire che il suo compito era difendere la fede dei semplici dalle dottrine ambigue ed erronee dei cosiddetti sapienti di questo mondo.
Dal 15 settembre 2006, Benedetto XVI mi ha chiamato a collaborare con lui come suo segretario di Stato. Nell’intraprendere questo arduo compito mi davano coraggio due certezze: sarei stato guidato dalla Divina Provvidenza, e avrei potuto contare sulla comunione profonda con il Santo Padre e sulla sua schietta fiducia. Una comunione che corrobora l’impegno al servizio della Chiesa e della comunità internazionale – e quindi della dignità umana e della pacifica convivenza fra i popoli – e che si traduce in leale e fedele collaborazione, rafforzata dallo spirito sacerdotale e dalla carità pastorale che deve sempre animare ogni nostra attività.
Ben volentieri, quindi, ho accolto l’invito a offrire un mio contributo a questo numero di 30Giorni, dedicato all’ottantesimo genetliaco del santo padre Benedetto XVI. Esso mi dà la possibilità di esprimere, anche attraverso queste righe, i profondi sentimenti di gratitudine che nutro nei suoi confronti.
Benedetto XVI unisce in sé in modo mirabile il ruolo di Maestro e di Pastore. Questo si radica, in profondità, nella singolare armonia con cui, a mio avviso, nel suo animo si coniugano Verità e Amore, i due inseparabili “nomi” di Dio che si intrecciano l’uno con l’altro e si illuminano reciprocamente. Se questo connubio tra dottrina e carità pastorale è proprio di ogni ministro ordinato della Chiesa, esso brilla con maggior splendore in quegli uomini di Dio i quali, per speciale dono dello Spirito Santo, giungono a operare una sintesi robusta a livello di pensiero, che si irradia di conseguenza sul piano esistenziale.
Verità e Amore: in ogni epoca l’umanità vive di queste due realtà e ne ha bisogno più del pane. Ma gli uomini e le donne di questo nostro tempo ne avvertono una necessità ancor più acuta. A prima vista sembrano – e in effetti superficialmente lo sono – distratti e dispersi in tante “cose”, in tanto “fare”, in tanto “apparire”. Ma a chi guarda in profondità non può sfuggire che il mondo di questo inizio del terzo millennio non solo ha ancora bisogno di Verità e di Amore, ma necessita specialmente della loro unità. È questo, io credo, uno dei motivi per cui la Provvidenza ha scelto quale successore di Pietro il cardinale Joseph Ratzinger: perché egli insegna e prima ancora testimonia con la sua vita che non c’è amore senza verità e non c’è verità senza amore. Non a caso la prima enciclica uscita dalla sua penna parte proprio da quelle parole che costituiscono la sintesi di tutta la Sacra Scrittura: «Deus caritas est – Dio è amore» (1Gv 4, 8.16).
C’è poi un’altra e complementare chiave di lettura della personalità del Santo Padre che non può essere tralasciata: il nome che si è scelto, Benedetto. Chi infatti più di san Benedetto da Norcia incarna quella sintesi tra contemplazione e azione, che ha offerto una valida risposta alla grande crisi del passaggio tra l’Impero romano e quella che sarebbe diventata l’Europa? Oggi stiamo attraversando un’altra lunga transizione epocale, culminata in modo tragico in Europa nel XX secolo e orientata a un esito non ancora definito, ma di certo non più eurocentrico bensì globale. Il Signore si serve di tanti suoi umili e fedeli servitori per guidare le sorti degli uomini secondo il suo disegno di salvezza; tra questi ci sono giganti quali i pontefici Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II, ma anche santi che hanno vissuto in grande semplicità come la beata Madre Teresa di Calcutta, santa Faustina Kowalska, san Pio da Pietrelcina. A essi si uniscono innumerevoli “pietre vive”, sconosciute agli uomini ma ben note a Dio, che saldamente fondate su Cristo edificano l’umanità nuova. È in questo contesto che al timone della barca di Pietro, dopo papa Wojtyla che l’ha introdotta nel “vasto oceano” del terzo millennio, Dio ha chiamato, il 19 aprile del 2005, Joseph Ratzinger, umile e coraggioso «servitore della vigna del Signore», come ebbe a dire appena eletto, dolce e forte «cooperatore della verità», come recita il suo stemma episcopale. Auspichiamo di cuore e preghiamo perché i frutti del suo pontificato siano veramente abbondanti, ma già ora ne gustiamo le primizie e ne diamo lode al Signore.

Trenta giorni


Dio ha reso breve la sua Parola

del cardinale Agostino Cacciavillan
presidente emerito dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica


Celebriamo gli ottant’anni di vita dell’amato nostro papa Benedetto XVI e gliene auguriamo ancora molti di più. Il Signore gli conservi a lungo il suo bel volto intelligente e buono, incoronato da folti capelli d’argento, la sua espressione ferma e mite, determinata e dolce, l’amorevole delicatezza con cui saluta e ringrazia tutti, e con cui si muove nelle udienze, avvicina le persone, specialmente gli ammalati, e bacia i bambini (sul Bambino Gesù e i bambini si ricordi la sua omelia della notte di Natale dell’anno scorso). Gli conservi il Signore l’agilità dei passi nel salire e scendere i gradini dell’altare della confessione in San Pietro e quelli dell’aula delle udienze.
Ha raggiunto gli ottant’anni in grande vigore d’intelletto, di sentimenti (compreso un fine sense of humour), di movimenti, pur essendo il suo carico dell’orso di san Corbiniano diventato più pesante di prima (cfr. Memorie autobiografiche 1927-1977, Edizioni San Paolo, Milano 1997, pp. 118-121, e saluto nella Marienplatz, Monaco, 9 settembre 2006).
Non possiamo dimenticare quel «semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore» con cui si è presentato il 19 aprile 2005. Viene da pensare allo spirito salesiano, cioè all’umanesimo cristiano umile e mite del vescovo e dottore della Chiesa san Francesco di Sales. Forse era così anche Benedetto XV.
Gli ottant’anni di papa Ratzinger si possono facilmente dividere in due parti: cinquanta prima di diventare vescovo (1927-1977), trenta dall’ordinazione episcopale in poi (1977-2007).
Trent’anni di episcopato: cinque in Germania come arcivescovo di Monaco e Frisinga (1977-1982), venticinque a Roma-Vaticano, ventitré dei quali (1982-2005) con l’incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e due come pastore universale. Per ventotto anni (1977-2005) è stato anche cardinale, cinque a Monaco, ventitré a Roma.
Nel suo ottantesimo anno di età, che ora si compie per dare inizio all’ottantunesimo, Benedetto XVI ha fatto ben quattro viaggi apostolici, e tutti di grande significato e successo: in Polonia (25-28 maggio 2006), a Valencia (8-9 luglio 2006), in Baviera (9-14 settembre 2006) e in Turchia (28 novembre -1° dicembre 2006).
Quella in Baviera è stata anche in un certo senso la sua celebrazione del proprio ottantesimo anno di vita con speciale riferimento al periodo anteriore alla venuta a Roma nel 1982: una celebrazione commovente ed edificante rivivere in luoghi e con persone conosciute e care, nonché nel ricordo di altre assenti o scomparse, tra esse i genitori Joseph e Maria e la sorella Maria, sulla cui tomba è andato a pregare insieme col fratello monsignor Georg; rivivere le proprie diverse età e tante cose ed eventi del passato, dall’infanzia alla maturità operosa e fruttuosa come sacerdote, docente, scrittore, vescovo – una celebrazione che solo lui poteva fare. Alla luce del suo recente viaggio in Baviera è interessante rileggere i summenzionati ricordi autobiografici dei suoi primi cinquant’anni di vita.
Il settembre scorso in patria si è così espresso: «[...] luoghi che hanno avuto un’importanza fondamentale nella mia vita [...] molti ricordi degli anni passati a Monaco e a Ratisbona: ricordi di persone e di vicende che hanno lasciato in me una traccia profonda [...] coloro che hanno contribuito a formare la mia personalità nei decenni della mia vita [...] le tappe del mio cammino, da Marktl e Tittmoning ad Aschau, Traunstein, Regensburg, e München» (discorso all’arrivo a München); ed è stato anche ad Altötting e a Freising. «Luoghi a me familiari, che hanno avuto un influsso determinante sulla mia vita, formando il mio pensiero e i miei sentimenti: i luoghi nei quali ho imparato a credere e a vivere [...] tutti coloro – viventi e morti – che mi hanno guidato e mi hanno accompagnato» (omelia a München). «Mi sono commosso quando ho sentito quante persone [...] hanno collaborato per abbellire anche la mia piccola casa e il mio giardino» (omelia a Regensburg). «È per me un momento emozionante trovarmi ancora una volta nell’Università e una volta ancora poter tenere una lezione» (discorso all’Università di Regensburg). «In questa bellissima piazza, ai piedi della Mariensaule: un luogo che già altre due volte è stato testimone di svolte decisive della mia vita [inizio del ministero episcopale nel 1977 e congedo per venire a Roma nel 1982]» (saluto a Marienplatz, München). Ricordi della sua ordinazione sacerdotale ricevuta nella Cattedrale di Freising e delle ordinazioni di sacerdoti e diaconi da lui fatte nella stessa Cattedrale (discorso nella Cattedrale di Freising). «Sono stati giorni intensi, e nel ricordo ho potuto rivivere tanti eventi del passato che hanno segnato la mia esistenza» (discorso di congedo all’aeroporto di München). Su tutto ciò Benedetto XVI è tornato con una sintesi precisa e toccante nell’udienza generale in piazza San Pietro del 20 settembre. Ha dedicato poi ai quattro viaggi pastorali del 2006 il discorso natalizio alla Curia romana (22 dicembre), e allora disse: «Proseguiamo mentalmente verso la Baviera-München, Altötting, Regensburg, Freising. Lì ho potuto vivere giornate indimenticabilmente belle dell’incontro con la fede e con i fedeli della mia patria. Il grande tema del mio viaggio in Germania era Dio». Si diffuse quindi in un approfondimento di tale tema e di due temi a esso collegati, il sacerdozio e il dialogo.
Della vita del nostro Santo Padre, tutta un grande servizio alla Chiesa, sono particolarmente preziosi i ventitré anni nei quali è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, primo collaboratore del magistero dell’indimenticabile servo di Dio il papa Giovanni Paolo II. Il cardinale Ratzinger è stato prefetto dal cinquantacinquesimo al settantottesimo anno di età. Un lungo periodo di crescente rinomanza e prestigio. Ha tenuto conferenze in varie parti del mondo e soprattutto ha continuato a pubblicare libri e articoli, sempre molto diffusi e apprezzati.
Vorrei tuttavia segnalare soprattutto i numerosi documenti ufficiali da lui emanati come prefetto del menzionato dicastero. È stato appena pubblicato dalla Congregazione per la dottrina della fede uno splendido volume che raccoglie Documenta inde a Concilio Vaticano Secundo expleto edita (1966-2005).
Notando che la maggior parte di questi documenti (dal n. 46 al n. 105, pp. 195-629) recano la firma del cardinale Joseph Ratzinger, l’arcivescovo Angelo Amato, segretario, scrive (p. 12): «In essi è presente la sua alta qualità teologica fortemente radicata nella grande tradizione della Chiesa e, allo stesso tempo, aperta all’ascolto attento del novum culturale, visto con simpatia e, all’occorrenza, con sano spirito critico. È a lui, divenuto per grazia di Dio papa Benedetto XVI, che la Congregazione per la dottrina della fede offre questa raccolta in segno di immensa gratitudine».
Due caratteristiche di grande importanza, essenziali della sua personalità e della sua vita, sono state e sono la piena dedizione al servizio appassionato della verità e dell’amore. La sostanza della vita cristiana.
Nei citati ricordi autobiografici dei suoi primi cinquant’anni leggiamo: «Come motto episcopale [nel 1977] ho scelto due parole dalla terza lettera di san Giovanni: “Collaboratori della verità”, anzitutto perché mi pareva che potessero bene rappresentare la continuità tra il mio compito precedente e il nuovo incarico: pur con tutte le differenze si trattava e si tratta sempre della stessa cosa, seguire la verità, porsi al suo servizio. E dal momento che nel mondo di oggi l’argomento “verità” è quasi scomparso, perché appare troppo grande per l’uomo, e tuttavia tutto crolla se non c’è la verità, questo motto episcopale mi è sembrato il più in linea con il nostro tempo, il più moderno, nel senso buono del termine». Questo motto continuò a usarlo anche quando fu prefetto della Congregazione per la dottrina della fede dal 1982 al 2005.
Si può subito osservare che nella citata breve terza lettera di san Giovanni, se c’è una sottolineatura della verità, non manca la menzione della carità. Negli scritti dell’apostolo Giovanni c’è un intrecciarsi di verità e di carità.
D’altra parte, con la verità sono intimamente connesse la ragione, la razionalità, l’intelligenza; il logos minuscolo e il Logos maiuscolo, il Logos creatore; nonché il tema fede e ragione, religione e ragione. E a questo proposito abbiamo la lezione tenuta dal Santo Padre all’Università di Regensburg il 12 settembre 2006, ciò che egli stesso ne disse poi all’udienza generale del 20 settembre 2006, e il suo discorso al quarto Convegno nazionale della Chiesa in Italia, a Verona, il 19 ottobre 2006.
Se la verità campeggia nel motto all’inizio del suo ministero-magistero episcopale, la carità domina nell’enciclica iniziale del suo sommo pontificato. È di nuovo giovannea la sua ispirazione: «Dio è amore» (1Gv 4, 8). Orbene, quell’enciclica la ritroviamo citata nei due predetti discorsi di Regensburg e di Verona: e ciò inevitabilmente, dato lo stretto rapporto che esiste tra verità e amore. Si noti questa riflessione della lezione di Regensburg: «[...] il Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l’amore, come dice Paolo, “sorpassa” la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Ef 3, 19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio-Logos, per cui il culto cristiano è, come dice ancora Paolo, loghikè latreía, un culto che concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr. Rm 12, 1)».
Ancora un testo di papa Benedetto XVI, dall’omelia della notte di Natale 2006: «[...] “Dio ha abbreviato la sua Parola”. La Parola che Dio ci comunica nei libri della Sacra Scrittura era, nel corso dei tempi, diventata lunga. Lunga e complicata [...] Gesù ha “reso breve” la Parola – ci ha fatto rivedere la sua più profonda semplicità e unità. Tutto ciò che ci insegnano la Legge e i profeti è riassunto – dice – nella parola: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente [...] Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22, 37-40). Questo è tutto – l’intera fede si risolve in quest’unico atto d’amore che abbraccia Dio e gli uomini». È quanto si legge di sant’Agostino nella Liturgia delle Ore del tempo natalizio (3 gennaio): «Venit ipse Dominus, caritatis doctor, caritate plenus, brevians, sicut de illo praedictum est, verbum super terram, et ostendit in duobus praeceptis caritatis pendere legem et prophetas». Nell’omelia nel Duomo di Regensburg, il 12 settembre 2006, il Santo Padre aveva detto: «L’agápe, l’amore, è veramente la sintesi della Legge e dei profeti. In essa è “avviluppato” tutto; un tutto, però, che nel quotidiano deve sempre di nuovo essere “sviluppato”».
Le sopra riferite parole del Papa fanno dunque per così dire un tutt’uno della Verità-Verbo-Logos e dell’Amore. Il Verbo, la Parola, la Verità, riguarda principalmente l’Amore: Dio è amore, e la sintesi della Legge e dei profeti è amare Dio e amare il prossimo.
Verità e carità sono argomenti fondamentali per tutta la vita e l’opera della Chiesa: la sua missione nella società civile (i campi della politica, dell’economia, del lavoro, del pensiero, della scienza, della tecnica, eccetera), la promozione dell’unità dei cristiani, il dialogo con le altre religioni e le culture, eccetera. Nella stupenda omelia dell’Epifania 2007 il Papa ci ha parlato delle dimensioni politica, scientifica, religiosa, costitutive dell’umanesimo moderno, e ha auspicato che i governanti, gli uomini di pensiero e di scienza, e le guide spirituali delle grandi religioni non cristiane siano i Magi di oggi.
Nelle suddette sfide Benedetto XVI ha una responsabilità suprema, ed egli la svolge in maniera ammirevole, con molta scienza e molta sapienza, a volte “in modo sorprendente” si è anche detto, e “con vera maestria della parola e dei gesti”. Per il suo instancabile grande servizio alla verità e all’amore, al papa teologo Benedetto XVI va tutta la nostra riconoscenza. Al tempo stesso, gli accenni al suo insegnamento, di cui sopra, giovino a farci crescere in quel “sostegno e affetto” verso la sua persona per il quale umanissimamente egli spesso esprime il suo “grazie”, con modesta semplicità pari alla sua spirituale grandezza. L’aumentato suo carico dell’orso di san Corbiniano lo fa sentire più vicino a Dio.

Trenta giorni


Che l’amore umile del Santo Padre arricchisca la Chiesa e l’umanità

del cardinale Zenon Grocholewski
prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica



Ho accolto con particolare piacere l’invito a unirmi alla rivista 30Giorni per esprimere i più calorosi e filiali voti augurali al santo padre Benedetto XVI nel suo ottantesimo genetliaco.
Considero la ricorrenza una felice occasione per esprimere gratitudine al Signore per il dono che ha fatto alla Chiesa di questo Papa e per manifestare attorno alla persona del Santo Padre l’essere cum Petro di tutta la Chiesa, nonché il suo essere sub Petro, necessari alla costruzione del Regno di Dio che si espande nel mondo.
Nel rivolgere il primo saluto alla Chiesa e al mondo, il giorno della sua elezione, egli si è presentato come «un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore». Nell’omelia, poi, dell’assunzione del ministero petrino ha parlato di sé come «debole servitore di Dio». Queste immagini ci aprono la porta della sua coscienza per farci intravvedere l’atteggiamento interiore di fronte a Dio e alla Chiesa. Esse, da una parte, comunicano il sentirsi piccolo davanti a Dio e alla missione che gli è stata affidata. È un atteggiamento di grande portata. Sappiamo bene, infatti, che quanto più uno si svuota di sé stesso tanto più diventa capace di essere riempito di Dio, di essere strumento efficace nelle mani di Dio. Dall’altra parte, le citate parole indicano un forte senso di dedizione, anche faticosa e nascosta, nonché di totale disponibilità. Tale, del resto, è sempre stato il suo modo di porsi nel lungo servizio di studioso, di docente, di teologo, di pastore e di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, realizzato con impegno, elevata competenza e cristallino spirito di servizio alla Chiesa. Come membro della menzionata Congregazione ho avuto l’onore e il piacere di collaborare con il cardinale Ratzinger per alcuni anni, vedendo all’opera queste sue qualità. Il suo essere lavoratore e servitore è sempre stato semplice e appassionato servizio alla verità da offrire all’uomo per sottrarlo all’idolatria del relativismo.
Due anni or sono l’attuale Pontefice è stato chiamato dal Signore al supremo pontificato. Nell’assumere questo «compito inaudito» – come egli stesso ha affermato nell’omelia di inizio del pontificato – ha configurato il suo ministero nelle immagini del pastore e del pescatore, focalizzando il loro valore nel servizio dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore a Dio e al prossimo. Così, l’amore è il filo d’oro che percorre le diverse espressioni del ministero di Benedetto XVI, ora “pastore e pescatore” nella vigna del Signore. «Pascere», ha detto, «vuol dire amare […] amare significa: dare alle pecore il vero bene, il nutrimento della verità di Dio, della parola di Dio, il nutrimento della sua presenza, che egli ci dona nel Santissimo Sacramento […]. Nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio […]. Noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini […] solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. […]. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuole fare il suo ingresso nel mondo».
L’amore alla verità di Dio da donare all’uomo d’oggi non è concepito da Benedetto XVI come compito in solitudine del successore di Pietro, ma è di tutta la Chiesa. Per questo la scelta dell’argomento della sua prima lettera enciclica è caduta proprio sull’amore cristiano a partire dal cuore pulsante della fede cristiana: Deus caritas est. Il desiderio del Papa con l’enciclica è stato quello di continuare a «parlare dell’amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri» (n. 1). Dall’amore di Dio, che l’uomo può sperimentare volgendo lo sguardo «al fianco squarciato di Cristo» (n. 12), zampilla come acqua risanante l’amore del prossimo che «è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale» (n. 20). Pertanto, sottolinea il Papa, «tutta l’attività della Chiesa è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, impresa tante volte eroica nelle sue realizzazioni storiche; e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini» (n. 19).
A proseguimento e ad approfondimento dell’amore è giunta in questi giorni l’esortazione apostolica postsinodale, dedicata al sacramento dell’Eucaristia. Con essa Benedetto XVI continua il suo ministero di “pastore e pescatore” al servizio dell’amore di Dio per l’umanità, portando la Chiesa alla fonte che nutre maggiormente il suo amore, ossia alla sorgente in cui si saziano nel modo migliore la fame e la sete d’amore che sono nel cuore di ogni persona umana, infiammandolo verso Dio e nel servizio dei fratelli. Il mistero eucaristico è Sacramentum caritatis, perché in esso «Gesù ci mostra in particolare la verità dell’amore, che è la stessa essenza di Dio» (n. 2). Come profondo conoscitore dell’uomo e dei suoi veri bisogni, il Papa scrive che nell’Eucaristia «il Signore si fa cibo per l’uomo affamato di verità e di libertà. Poiché solo la verità può renderci liberi davvero (cfr. Gv 8, 36), Cristo si fa per noi cibo di Verità» (n. 2). A sua volta questo cibo di Verità «fa di noi testimoni della compassione di Dio per ogni fratello e sorella» (n. 88) e «ci dona nuova forza e coraggio per lavorare senza sosta all’edificazione della civiltà dell’amore» (n. 90).
Penso che la via dell’amore – di Dio, a Dio e al prossimo – sulla quale Benedetto XVI sta guidando come “pastore e pescatore” la Chiesa, sia il dono più bello al mondo intero, che fatica ad avere un cuore. Pertanto, con animo colmo di gratitudine, sono lieto di esprimere al Santo Padre anzitutto l’augurio che il suo ministero petrino, esercitato con umiltà e amore, nonché al servizio dell’amore, possa arricchire il mondo odierno dei valori dai quali dipendono la vita nella Verità e il vero progresso dell’umanità.

Trenta giorni


Nova et vetera


del cardinale José Saraiva Martins cmf
prefetto della Congregazione delle cause dei santi


Come chi dal proprio tesoro è capace di trarre cose antiche e cose nuove (cfr. Mt 13, 51), nella produzione teologica di Joseph Ratzinger emergono fattori della Tradizione, attraverso i quali ha permesso all’assoluta novità dell’avvenimento cristiano di esprimersi, rilucendo in tutta la sua bellezza. È precisamente su questa novità cristiana che vorrei soffermare per qualche momento l’attenzione, riflettendo sulla “persona” nel pensiero di colui che oggi è il santo padre Benedetto XVI.
C’è un dato emergente nella rivelazione cristiana: è il Novum! Sotto ogni forma dice all’uomo qualcosa che egli non sapeva, che non avrebbe mai potuto immaginare. Il teologo Ratzinger ha osservato che «il processo creativo costituisce pur sempre un processo recettivo; […] la plasmatura creativa si è resa possibile unicamente in forma di ricezione sulla lunghezza d’onda della Rivelazione».
Vale a dire che la decisione presa dai padri di Israele per un Dio personale e trascendente, o la confessione della Chiesa che Dio è comunione trinitaria di persone, non risponde primariamente a una loro iniziativa, frutto di un’invenzione culturale, ma implica necessariamente un dono, una ricezione, e perciò stesso anche una vera e propria iniziativa storica da parte di Dio verso l’uomo.
Questo aspetto di novità assoluta dell’identità di Dio, che rivelandosi dischiude all’uomo una dimensione totalmente nuova, emerge costantemente nella lettura biblica che l’attuale Pontefice ha condotto, per cui l’idea di persona è un dono che si dischiude a noi col rivelarsi di Dio: «Ci introduce in quella intimità di Gesù, in cui Egli ammette solo i suoi amici. Mostra Gesù dal punto di vista di quell’esperienza di amicizia che permette di guardare nell’intimo, ed è un invito ad entrare in questa intimità»2.
Similmente occorre anche rilevare il fatto che non solo l’idea di persona è frutto della Rivelazione, ma che essa rappresenta una delle più significative espressioni di quella rivoluzione semantica e linguistica che il cristianesimo è stato capace di operare.
Si pensi a questo proposito al contributo alla riflessione teologica apportato da Tertulliano soprattutto mediante la creazione di un linguaggio teologico; Ratzinger in merito afferma: «Tertulliano ha trasformato il latino in lingua teologica e, con una sicurezza quasi inesplicabile, ha saputo ben presto formulare una terminologia teologica […] passarono ancora dei secoli prima che quest’espressione potesse venire accolta e completata anche spiritualmente […]»3. Altrettanto significativo è quanto viene affermato dell’origine dell’idea di persona: «Per rispondere a questi due interrogativi di fondo (chi è Dio e chi è Cristo), che si posero non appena venne introdotta nella fede la riflessione, quest’ultima ha usato il termine di prósopon = persona, che fino ad allora era stato insignificante in filosofia o non era usato affatto; a esso venne dato un nuovo significato e venne dischiusa una nuova dimensione del pensiero umano»4.
La forza di novità dell’avvenimento cristiano non si limita all’aspetto linguistico, evidentemente, ma attraverso di esso ha espresso una ancor più profonda spinta di novità culturale. Se la tradizione cristiana dell’esegesi prosopografica esprimeva una novità letteraria, l’introduzione della categoria di relazione e quella di persona a opera dei Padri e di Agostino, soprattutto, dicono proprio lo stravolgimento degli antichi parametri culturali di un mondo segnato profondamente dal pensiero classico.
Basti in questo caso ricorrere alle tesi di dogmatica trinitaria che il teologo ora asceso al soglio di Pietro ha formulato, in cui afferma che il paradosso di un solo Essere in tre Persone mette ordine nel problema dell’unità e della molteplicità; inoltre tale paradosso è subordinato al problema dell’assoluto e del relativo e mette in rilievo l’assolutezza intratrinitaria di quest’ultimo. Tale paradosso è inoltre in funzione del concetto di persona5. Nella semplice ammissione, dunque, che, come forma ugualmente originale dell’essere, accanto alla sostanza si trova anche la relazione (la persona in Dio è costitutivamente relazione) si cela un’autentica rivoluzione del mondo: la supremazia del pensiero incentrato sulla sostanza viene scardinata: «La relazione viene scoperta come modalità primitiva ed equipollente».
Tutto ciò ha reso possibile e rende nuovamente possibile il superamento di quanto noi chiamiamo “pensiero oggettivante”, in quanto prospetta un nuovo piano dell’essere. Con ogni probabilità, ha osservato il nostro autore, «bisognerà anche dire che il compito derivante al pensiero da queste circostanze, di fatto, è ancora ben lungi dall’essere stato eseguito, quantunque il pensiero moderno dipenda dalle prospettive qui aperte, senza le quali non sarebbe neppure immaginabile […]. Io credo che, seguendo lo svolgersi di questa lotta […] si possa vedere quale enorme fatica e quale mutamento di pensiero si trovino dietro questo concetto di persona, il quale nella sua impostazione è del tutto estraneo allo spirito greco e latino; non è pensato in termini sostanziali, ma dal punto di vista esistenziale»7.
La teologia di colui che si è definito «umile lavoratore nella vigna del Signore» potrebbe esser designata come la capacità di ricondurre sempre tutto alla propria origine, al punto genetico. Infatti, «il concetto di persona è sorto da due questioni che si sono imposte, fin dall’inizio, al pensiero cristiano come problemi centrali; essi sono i due interrogativi: cosa è Dio e chi è Cristo?». L’idea di persona all’interno del discorso cristologico, si rivela essere di capitale importanza. Nel momento stesso in cui Ratzinger tratta di teologia dell’incarnazione e di teologia della Croce, oppure quando analizza la cristologia, in quanto dottrina sull’essere di Cristo, e la soteriologia, risulta evidente che l’idea cristologica di persona come relazione permette di uscire dal vicolo cieco della separazione degli itinerari in cui tante volte la teologia cristiana è incappata. Infatti è proprio la comprensione relazionale dell’essere personale di Cristo che permette di far confluire naturalmente la teologia dell’incarnazione nella teologia della Croce e viceversa; come anche la consapevolezza dell’identità, in Cristo, tra persona e opera (la persona non ha la relazione, ma è relazione) consente di formulare una cristologia in prospettiva soteriologica e una soteriologia rettamente impostata.
Concludo ancora con un pensiero di Ratzinger il cui valore appare quanto mai attuale: «Dio, fondandosi sull’autocomprensione della fede, denomina sé stesso, esprime la sua intima essenza e si rende nominabile, abbandonandosi all’uomo al punto da lasciarsi chiamare per nome da lui»10. Dio, in Gesù per il dono dello Spirito, si fa chiamare Abbà, Padre, e ci introduce nella sua divina intimità. «L’Apocalisse parla dell’antagonista di Dio, della fiera. Questo animale […] non ha un nome, ma porta un numero […] è un numero e trasforma in numeri. Che cosa significhi lo abbiamo vissuto nei campi di concentramento, orrendi, perché cancellano il volto, trasformano in numero. L’uomo diventa una funzione. […] Dio invece ha un nome e chiama per nome. Egli è persona e cerca la persona; ha un volto e cerca il nostro volto; ha un cuore e cerca il nostro cuore. Per Lui noi non siamo una funzione!»
Ho voluto soffermarmi su un aspetto della riflessione teologica di Joseph Ratzinger e non sul magistero di Benedetto XVI, pur sapendo che il Papa o un vescovo, come lui stesso ha precisato anni or sono, non deve esporre le sue concezioni personali ma deve fare spazio alla parola comune della Chiesa12. Tuttavia l’ho fatto proprio per auspicare, sull’esempio di tutti i santi della Chiesa, che i vescovi, i sacerdoti e i laici abbiano tale consapevolezza. Infine, è proprio questo che voglio augurare al Santo Padre, nella fausta circostanza del suo ottantesimo compleanno, che tutti accolgano il suo alto magistero quale espressione dell’unità e della carità della Chiesa cattolica, come ebbe a dire Cipriano a papa Cornelio13.
Il canto unanime della Chiesa ci accomuna tutti nell’affetto e nella devozione al successore di Pietro che la Provvidenza ha saputo donarci: «Dominus conservet eum et vivificet eum...».

Trenta giorni

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