22 marzo 2008

Tra aprocrifi e stravaganti "biografie". I diversi volti dell'Iscariota: "La Pasqua di Giuda" (Mons. Ravasi per l'Osservatore Romano)


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Tra aprocrifi e stravaganti "biografie" I diversi volti dell'Iscariota

La Pasqua di Giuda

di Gianfranco Ravasi

È una presenza oscura e tragica, e proprio per questo non può essere dimenticata. In quella notte, tra gli ulivi del Getsemani, l'orto con un frantoio (come suggerisce il toponimo ebraico) situato oltre il torrente Cedron, avanzava Giuda, figlio di Simone, detto Iscariota.

La sua è una denominazione variamente decifrata dagli studiosi. C'è chi l'ha intesa come ish-Keriot, cioè "uomo del villaggio di Keriot", località menzionata nel libro di Giosuè (15, 25). C'è, invece, chi l'ha riletta come una deformazione aramaizzante del latino sicarius, appellativo col quale si definivano gli estremisti nazionalisti ebrei ribelli a Roma (da sica, il pugnale da essi usato per i loro attentati ai soldati romani o ai collaborazionisti ebrei). Per altri esegeti a Iscariota è sotteso l'aramaico ish-qaria, ossia "uomo di menzogna, mentitore" e quindi "traditore" (sulla scia del Salmo 55 che contiene il lamento di un amico tradito): si tratterebbe, perciò, di un'attribuzione posteriore finalizzata a bollare il comportamento del discepolo di Gesù.
Difficile è optare tra queste e altre interpretazioni. Sta di fatto, però, che la sua figura ha lasciato una scia nella storia della cultura occidentale, in particolare nella narrativa contemporanea (certo, Giuda è il soggetto già di tante opere del passato: si ricordi solo il frammento epico L'eterno ebreo di Goethe o la Fine di Satana di Victor Hugo). Ma, e qui avviene un fatto curioso, l'Iscariota è di rado un eroe negativo. Pensiamo al Ponzio Pilato pubblicato nel 1961 dallo scrittore Roger Caillois, ove Giuda diventa un santo, votato all'attuazione di un disegno superiore. Persino il cattolicissimo Paul Claudel nella sua Morte di Giuda del 1933 riabilitava la buona fede del traditore, sia pure in chiave paradossale: "Deponendo un bacio rispettoso sulle sue labbra, sapevo di rendere allo Stato, alla religione, a lui stesso un servizio eccellente, alle spese dei miei interessi e della mia reputazione, impedendogli ormai di turbare con le migliori intenzioni del mondo! Gli spiriti deboli, di seminare l'inquietudine nella popolazione, il malcontento per lo stato delle cose e il desiderio dell'impossibile".
Mario Pomilio, nel suo ben noto Quinto evangelio (1975), ricorreva al mistero della salvezza che trascende Giuda e che lo coinvolge quasi di necessità: "La verità è che io non fui il traditore: fui piuttosto la vittima di un curioso piano di salvezza, esteso a tutti gli uomini, che per esplicarsi perfettamente doveva escludere me". È la tesi radicale del L'Ultima tentazione (1952), romanzo del greco Nikos Kazantzakis, divenuto poi un popolare e discusso film L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese (1988), che presenta Giuda come il più pio dei discepoli "costretto" a scegliere il tradimento per rendere possibile la morte sacrificale ed espiatrice di Gesù. Simile è anche il Giuda nichilista de Il Maestro di Max Brod (1952) che è, però, testimone suo malgrado della forza salvifica della mitezza e dell'amore. Più imbarazzata la difesa che ne faceva Diego Fabbri nel suo Processo a Gesù (1955) quando il traditore urlava: "No! Io lo tradivo, è vero, per 30 denari. Ma dovete crederlo io non sapevo che sarebbe stato messo a morte, crocifisso! Non lo sapevo! Pensavo che sarebbe stato soltanto imprigionato, isolato. Le cose presero, invece, una piega impreveduta. La morte ve lo giuro! non era nei patti, non era prevista!".
Potremmo continuare a lungo, rispolverando Il Vangelo secondo Giuda (1973) dello scrittore polacco Henryk Panas, morto nel 1985, sconcertante storia di un ricco e colto affarista che segue inizialmente Gesù perché innamorato della Maddalena e che vive poi una storia più grande di lui, affidata appunto a un "vangelo" apocrifo. Oppure potremmo rimandare all'altro apocrifo immaginato da Carlo Monterosso nel suo Il sale della terra (1965), romanzo un po' scontato, mentre dissacratrice ma più intensa è L'opera del tradimento (1975) di Mario Brelich che trasforma Giuda in Satana. Dopo tutto sono gli stessi evangelisti Luca (22, 3: "Satana entrò in Giuda detto Iscariota") e Giovanni (6, 70: "Uno di voi è un diavolo!"; 13, 2: "Il diavolo aveva messo in cuore a Giuda, figlio di Simone, di tradire Gesù") a dipingerlo come un'emanazione satanica. Nella lista dei Giuda letterari c'è da ricordare anche il romanzo dal titolo emblematico Trenta denari pubblicato nel 1986 da Ferruccio Ulivi. Ad alcuni, poi, è noto il Giuda dello scrittore italo-francese Lanza del Vasto (1938) o il Vangelo di Giuda dello scrittore ligure Roberto Pazzi (1989). Come una grande eco ebbe in passato (1978) il romanzo La gloria di Giuseppe Berto, anch'esso una specie di "vangelo secondo Giuda" in cui la figura di Gesù è vista attraverso lo sguardo dell'Iscariota. In un'intervista, lo scrittore veneto affermava che "in Gesù c'era stata l'ostinazione di voler morire per far vincere a tutti noi la paura di morire. Per questo aveva chiesto la collaborazione del suo apostolo Giuda", che era stato in tal modo investito di una missione amara, anche perché la morte di Gesù per Berto non sarà salvifica. Ben più banale è stata l'immaginaria creazione di un testo antico apocrifo fatta lo scorso anno da Jeffrey Archer, un discutibile autore inglese di "best seller", intitolato Il Vangelo secondo Giuda di Beniamino Iscariota, una stravagante biografia del discepolo traditore idealmente narrata da suo figlio.

Ma a proposito di apocrifi prima di percorrere sia pure essenzialmente gli unici testi attendibili, cioè quelli dei Vangeli canonici, un cenno merita quel particolare "Vangelo di Giuda" di cui si è tanto discusso (e favoleggiato) negli ultimi tempi.

Si tratta di un codice papiraceo scritto in copto, la lingua tardo-egiziana, testo databile attorno al IV secolo, traduzione di un originale greco da collocare nel II secolo perché, attorno al 180, il vescovo di Lione, sant'Ireneo, nella sua opera Contro le eresie dimostra di conoscerne e criticarne il contenuto. Scoperto in Egitto attorno agli anni Settanta del secolo scorso, il manoscritto apparve sul mercato antiquario statunitense negli anni Ottanta e, dopo diciassette anni di oscuramento, venne acquistato da un antiquario, Fieda Nussberger-Tchacos, che riuscì a piazzarlo, ad alto costo, alla svizzera "Maecenas Foundation for Ancient Art". Quest'ultima, anche per rifarsi dell'esborso, si accordò con l'americana "National Geographic Society" per un restauro, un'edizione critica, una traduzione inglese e un'ampia divulgazione della scoperta con uno straordinario battage pubblicitario, promettendo tra l'altro la restituzione del codice all'Egitto per collocarlo nel Museo Copto del Cairo.
Il contenuto di questo apocrifo che, come si è detto, era già noto anche attraverso la testimonianza di Ireneo, non ha nessun valore per la ricostruzione storica delle ultime ore di Gesù e quindi non inficia minimamente i dati evangelici, al contrario di quanto sostenuto da molte pretese "rivelazioni" giornalistiche. L'opera, infatti, nasce dalle speculazioni posteriori del cristianesimo gnostico egiziano, un cristianesimo sofisticato, intellettualistico ed eterodosso. Lo stesso Gesù in questo apocrifo è un essere celeste che oscilla tra incarnazioni diverse (ai discepoli si presenta come un bambino) e tra epoche differenti. Anche l'interpretazione della figura di Giuda, a prima vista suggestiva, è in realtà inficiata dalle tesi generali dell'eresia gnostica. Egli, infatti, sarebbe l'unico dei discepoli a scoprire la vera identità segreta di Gesù; e il suo tradimento è considerato come un evento provvidenziale ma non nel senso che intenderà la tradizione neotestamentaria e cristiana, e cioè con l'esito della morte e risurrezione di Cristo, sorgente di redenzione. La prospettiva del testo apocrifo è radicalmente diversa: Giuda contribuisce a mandare a morte non il vero Gesù ma solo l'uomo di cui l'essere spirituale Cristo era rivestito, il suo involucro materiale ed esteriore. Gesù, infatti, ha solo apparentemente assunto un corpo carnale per ingannare i "prìncipi di questo mondo" (gli "arconti") che presiedono alla storia e nascondersi tra gli uomini per riuscire a salvare, tra di loro, la sola stirpe eletta imprigionata nell'umanità peccatrice così da riportarla a quel cielo da cui era caduta. Il tradimento di Giuda fa, dunque, parte di quel progetto segreto e quello che è crocifisso ed è morto è solo un corpo umano insignificante. Tra parentesi, ricordiamo che la tesi coranica secondo la quale sulla croce muore un sosia e non Gesù stesso nasce proprio dall'influsso di tesi gnostiche conosciute da Maometto forse attraverso i membri delle carovane cristiane egiziane che percorrevano l'Arabia. È facile, quindi, comprendere che questo particolare "Vangelo di Giuda" è solo l'espressione posteriore di teorie cristiane libere e fin stravaganti.

Teorie e leggende che affollavano altri apocrifi, già noti in passato e destinati anche a qualche successo popolare nei primi secoli cristiani. Infatti, secondo altri testi copti egiziani, indemoniato fin da piccolo, Giuda aveva tradito Gesù per istigazione di sua moglie, che lo costringeva a rubare dalla cassa comune dei discepoli.

Nelle Memorie di Nicodemo (II sec.), invece, la moglie si sforza di convincerlo a non impiccarsi, nella certezza che Cristo non sarebbe risorto. La donna sta arrostendo un gallo e dice a Giuda: "Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù può risorgere! Ma, proprio mentre lei parlava, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte. Giuda, allora, ancor più convinto, con la corda si fece un capestro e andò a impiccarsi". Per altri apocrifi Giuda era figlio del sommo sacerdote Caifa e aveva seguito Gesù proprio per tradirlo. Un vescovo del secolo II, Papia di Gerapoli (Asia Minore), descriverà invece in modo macabro la morte di Giuda: interpretando liberamente il passo degli Atti degli Apostoli (1, 18) sul quale ritorneremo, immaginava che egli si fosse gonfiato a dismisura fino al punto di esplodere! Una tradizione, questa, seguita da molte leggende posteriori che fecero di questa fine un monito per i traditori, mentre altri testi apocrifi descrissero la sua anima disperata nell'Amenti, cioè negli inferi.

Ma lasciamo ai margini questo immenso "paratesto" che ha accompagnato nei secoli il testo evangelico originario e puntiamo su quest'ultimo per una lettura molto essenziale. Tutto comincia agli inizi di quella che verrà poi chiamata la "Settimana Santa".

Nel sobborgo gerosolimitano di Betania, "sei giorni prima della Pasqua", in casa di un amico di Cristo, Lazzaro, di fronte al gesto di Maria, sorella dell'ospite, pronta a sacrificare un vaso di "olio profumato di vero nardo assai prezioso", Giuda non si trattiene: "Perché non si è venduto quest'olio profumato per trecento denari per darlo ai poveri?". L'evangelista Giovanni commenta gelido: "Questo egli disse non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro" (12, 4-6). La cupidigia fu, allora, la molla del tradimento, come spesso è accaduto e accadrà nella storia?
A prima vista sembrerebbe di sì se leggiamo queste righe di un altro evangelista, Matteo: "Uno dei dodici, Giuda Iscariota, si presentò ai sommi sacerdoti e disse: Quanto volete darmi per consegnarvelo? Quelli gli fissarono trenta monete d'argento" (26, 14-16).

Curiosa quella cifra, ignorata dagli altri evangelisti e divenuta una sorta di stereotipo per evocare il tradimento: essa probabilmente è più simbolica che storica perché secondo il suo stile "teologico" Matteo rimanda a una complessa parabola del pastore e del gregge descritta dal profeta Zaccaria. Là si leggeva questa indicazione: alcuni mercanti "pesarono trenta sicli d'argento" come equivalente del valore del gregge (11, 12); ma questo era anche il prezzo della vita di uno schiavo secondo la legge biblica (Esodo 21, 32). Fu, dunque, per una cifra così modesta che Giuda tradì? Certamente no secondo la prospettiva teologica matteana. Il rimando al testo profetico di Zaccaria, ove i mercanti si sostituiscono al pastore e il gregge si rivela riottoso a chi lo pasce, fa balenare una ragione sottintesa ma significativa. Giuda probabilmente era un deluso: si era gettato nell'avventura di seguire Gesù sperando in un messianismo trionfale, teocratico, più o meno come auspicavano alcune frange rivoluzionarie ebraiche. E la sua, come vedremo, diverrà una delusione disperata perché egli alla fine comprenderà che la sua vita non ha sbocchi, neppure col tradimento e con l'appoggio da parte del potere sacerdotale-politico.
Intanto, però, nella nostra ricostruzione della trama di quelle ore decisive per la storia, dobbiamo spostarci in quella "grande sala coi tappeti, al piano superiore" di una casa di Gerusalemme (Marco 14, 15), il cosiddetto cenacolo. Della scena abbiamo quasi due "riprese" visive da prospettive differenti.

La prima è quella dei Vangeli Sinottici (Matteo, Marco, Luca). Ascoltiamo Matteo. "Venuta la sera, Gesù si mise a mensa con i Dodici. Mentre mangiava disse: "In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà". Ed essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: "Sono forse io, Signore?". Ed egli rispose: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà. Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!"". Giuda, il traditore, disse: "Rabbì, sono forse io?". Gli rispose: "Tu l'hai detto!" (26, 20-25). Il testo è così trasparente da rendere dal vivo le emozioni di quella sera. Anche le parole di Gesù che ripropongono quel nodo misterioso tra libertà umana e disegno divino sono nette: Cristo "se ne va come è scritto di lui"; ma ecco subito dopo quel monito terribile: "Guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito!". E quel soffio finale: "Tu l'hai detto" fa calare il sipario sulla presenza di Giuda nella comunità dei Dodici.

Ma, come dicevamo, c'è un'altra ripresa della scena del cenacolo. È quella di Giovanni. Come si sa, il quarto evangelista ci offre una descrizione solenne di ciò che avvenne all'interno di quella sala, una descrizione distribuita in ben cinque capitoli (13-17), dominati dalle parole ultime del Cristo. Fin dalle prime battute Gesù evoca l'ombra oscura del tradimento: "Voi siete mondi, ma non tutti. Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: Non tutti siete mondi. Non parlo di voi tutti; io conosco quelli che ho scelto: ma si deve adempiere la Scrittura: colui che mangia il pane con me, ha levato contro di me il suo calcagno" (13, 10-11.18). Cristo attraverso la citazione del versetto 10 del Salmo 41 collega il dramma che sta per vivere al piano che Dio vuole attuare. L'odiosità di quel tradimento (alzare il calcagno contro un altro era segno di disprezzo aggressivo) acquista il suo pieno significato proprio nella familiarità profonda che univa traditore e tradito ("mangiare il pane" insieme era segno di comunione di vita e di intenti). Anche alla fine dei discorsi tenuti secondo il quarto Vangelo nel Cenacolo, Gesù ritornerà sul tema prospettandolo nella stessa luce teologica. Infatti, nella preghiera finale rivolta al Padre dirà: "Quand'ero con loro, io conservavo nel tuo nome coloro che mi hai dato e li ho custoditi; nessuno di loro è andato perduto, tranne il figlio della perdizione, perché si adempisse la Scrittura" (17, 12).
Ma ritorniamo al centro della scena così come Giovanni la narra. "Gesù si commosse profondamente e dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà". I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno e gli disse: "Di', chi è colui a cui si riferisce?". Ed egli, reclinandosi sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?". Rispose allora Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò". E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, satana entro in lui. Gesù quindi gli disse: "Quello che devi fare fallo al più presto". Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: "Compra quello che ci occorre per la festa", oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte" (Giovanni, 13, 21-30).
Ci accontentiamo, di fronte a questo quadro di grandi emozioni, che è alla base di tutte le "ultime cene" della storia dell'arte (si pensi solo a Leonardo), di fissare la nostra attenzione su un paio di particolari. Il primo è il gesto che Gesù compie nei confronti di Giuda, annunziandolo prima al "discepolo amato": egli intinge un boccone e lo passa al traditore. Alcuni pensano a quella salsa o pastella particolare, detta haroshet, fatta di mele grattugiate, di noci, spezie, vino e farina, che fa parte del rituale del seder, ossia del rituale della cena pasquale giudaica.

Altri ricorrono al vocabolo usato da Giovanni, psomìon, applicato poi dal cristianesimo greco antico all'ostia eucaristica: Giuda sarebbe stato svelato proprio attraverso l'eucaristia. Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi scriverà che "chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna" (11, 29). Ma sono solo supposizioni, anche perché Giovanni non descrive la cena eucaristica. Forse è meglio cogliere il gesto, segnalato anche dagli altri Vangeli, nel suo valore immediato: è un atto classico dell'ospitalità orientale (si legga Rut 2, 14), segno estremo di amicizia rifiutata e tradita.
C'è un altro particolare che merita di essere evidenziato, ed è quella straordinaria annotazione finale: "Ed era notte". Non è solo un'indicazione cronologica, ma è ormai l'ingresso prepotente delle tenebre nel dramma dell'"Ora" (come la chiama Giovanni) che Cristo sta vivendo. La tenebra, infatti, rappresenta un simbolo amato da Giovanni: "La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta" (1, 5); "La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie" (3, 19); "viene la notte" (9, 4); "se uno cammina nella notte inciampa, perché gli manca la luce" (11, 10); "chi cammina nelle tenebre non sa dove va" (12, 35). E poche ore dopo, nel Getsemani, Gesù dirà: "Questa è la vostra ora: l'impero delle tenebre" (Luca 22, 53). Giuda ora affonda in questa tenebra misteriosa che va ben oltre la notte che sta per iniziare.
Seguiamo, allora, Gesù e Giuda in questa lunga oscurità notturna che non è solo temporale ma anche spirituale. Tutte le narrazioni dei quattro evangelisti hanno qua e là nella sostanziale identità pennellate proprie. Noi ci affideremo a Matteo: "Ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: "Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!". E subito si avvicinò a Gesù e disse: "Salve, Rabbì!". E lo baciò. E Gesù gli disse: "Amico, per questo sei qui!". Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono" (26, 47-50). Il segnale del bacio forse era stato concordato per l'identificazione di Gesù nell'oscurità di quell'orto di ulivi posto ai piedi del monte omonimo. Il bacio era un gesto comune tra discepoli e maestro ed esprimeva affetto e venerazione. Ad esso si aggiunge il saluto del discepolo: "Salve, Rabbì", cioè: "maestro mio". Gesù in Luca risponde a quel bacio con una frase emozionante: "Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo?" (22, 48). È l'unica volta nei Vangeli in cui Gesù interpella per nome Giuda. In Matteo abbiamo, invece, una frase molto secca, in greco simile a un soffio: ef'ho parei, "per ciò sei qui!", cioè : "fa' dunque quello che devi fare!". Ma a queste parole Gesù premette un etaire, "amico", "compagno", più freddo però del vocabolo filos, "amico" in senso stretto. In Giovanni, invece, è Cristo stesso che si offre ai suoi avversari e la sua risposta sembra alludere alla definizione esodica di Dio: "Io sono!". "Conoscendo tutto quello che gli doveva accadere, si fece innanzi e disse loro: "Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù il Nazareno!". Disse loro Gesù: "Sono io!". Vi era là con loro Giuda, il traditore" (18, 4-5).

Quel bacio rimarrà stampato nei secoli come l'immagine del tradimento: come non ricordare l'affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova con quei due volti accostati? Ma ormai gli eventi accelerano il loro corso. Gesù si avvia al suo "calvario" di processi, tortura, scherni e morte. E Giuda? È solo Matteo a seguirne i passi. Lasciamo a lui la parola. "Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: "Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Ma quelli dissero: "Che ci riguarda? Veditela tu!". Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. Ma i sommi sacerdoti, raccolto quel denaro, dissero: "Non è lecito metterlo nel tesoro, perché è prezzo di sangue". E tenuto consiglio, comprarono con esso il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri. Perciò, quel campo fu denominato "Campo del sangue" fino al giorno d'oggi. Allora si adempì quanto era stato detto dal profeta Geremia: "E presero trenta denari d'argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il Campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore"" (27, 3-10). Netti sono i dati e l'interpretazione che Matteo ci offre. C'è innanzitutto la restituzione del prezzo del tradimento e il suo uso da parte dei sacerdoti per l'acquisto di un appezzamento di terreno come area cemeteriale per stranieri. Le indicazioni topografiche, quella antica "Campo del vasaio" e la nuova "Campo del sangue" (Luca negli Atti degli Apostoli ha la denominazione aramaica Hakeldamà) rimandano a una località ben nota all'evangelista, forse nella valle della Geenna, come ha sostenuto un'antica tradizione. Questo dato, Matteo non si accontenta di riferirlo, lo vuole anche comprendere nel suo significato profondo. Ecco, allora, riapparire il rimando alla Sacra Scrittura con una citazione di Zaccaria (11, 13) combinata con un passo (18, 2-3) di Geremia (si spiega così l'attribuzione approssimativa fatta da Matteo): essa permette di dare a quell'evento concreto un senso più alto, che ci riporta all'opera che Dio sta intessendo in questa amara storia di sangue e di tradimento.
Siamo ormai alla fine della vicenda del discepolo traditore, una fine che almeno a livello storico non vedrà sorgere l'alba di Pasqua. Giuda imbocca la via della morte che si infligge impiccandosi. Dobbiamo, però, segnalare che anche Luca nella sua seconda opera, gli Atti degli Apostoli, ci offre brevemente una sua versione del suicidio di Giuda, mettendola in bocca all'apostolo Pietro che la modella su un passo del libro della Sapienza (4, 19) ove si dipinge a tinte forti il destino dei malvagi: "Giuda, precipitando in avanti, si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere" (1, 18). Siamo, quindi, di fronte a una sorta di caduta precipite nel vuoto di un burrone, una morte sempre tragica ma differente rispetto all'impiccagione evocata da Matteo. Quest'ultima sembra, invece, ricalcare una cupa vicenda parallela dell'Antico Testamento, il suicidio del consigliere ufficiale del re Davide, che aveva tradito il suo sovrano per mettersi alla sequela del figlio ribelle Assalonne e che, vistosi ormai perduto, si era impiccato nella sua residenza (Secondo Libro di Samuele 17, 23).
Una morte atroce, comunque sia accaduta, funge da sigillo a una vita forse segnata dall'illusione e dalla delusione, causate molto probabilmente da una falsa immagine di Gesù, sognato come un messia politico e scoperto come un maestro dall'orizzonte troppo alto e remoto. Giuda rimarrà come un simbolo universale di tradimento, anche se si narra che la mistica santa Caterina da Genova (XV secolo) affermava di aver ascoltato in visione un Cristo sorridente dirle: "Se tu sapessi quel che io ho fatto per Giuda!", e don Primo Mazzolari, in una sua famosa predica, parlava di Giuda come del "prediletto di Gesù e nostro fratello". Egli, certo, rimane responsabile del suo atto: la libertà umana non è cancellata e, quindi, non decade la responsabilità personale del traditore, anche se noi non possiamo giudicare quale sia stata l'estrema sua opzione interiore nell'ultimo misterioso istante della sua esistenza. Sant'Ambrogio, come è stato ricordato qualche giorno fa dal Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana monsignor Cesare Pasini, in un articolo apparso sul nostro giornale affermava che "anche Giuda avrebbe potuto non essere escluso dal perdono per effetto dell'immensa misericordia del Signore, se avesse fatto penitenza".
L'atto finale terribile di Giuda è, però, inserito da Dio in un progetto più ampio, paradossalmente positivo: infatti, è proprio attraverso l'oscurità del tradimento e poi dell'odio, della violenza e della morte conseguente di Cristo che si compie la fecondità della redenzione e dell'amore di Gesù. Egli entra con amore e donazione nella vicenda storica di quelle ore di sofferenza per essere pienamente nostro fratello e così offrirci la sua salvezza, irradiando di luce pasquale la sua e la nostra morte. Come scriveva Edith Stein, cioè santa Teresa Benedetta della Croce, martirizzata ad Auschwitz nel 1942, "la croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l'alto, simbolo trionfale con cui Cristo batte alla porta del cielo e la spalanca. Allora ne erompono i fiotti della luce divina, sommergendo tutti quelli che marciano al seguito del Crocifisso".

(©L'Osservatore Romano - 23 marzo 2008)

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