10 marzo 2008

Anche per Giuda ci sarebbe perdono se avesse fatto penitenza (Osservatore Romano)


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TESTO INTEGRALE DELLA PROLUSIONE DEL CARDINALE BAGNASCO (10 marzo 2008)

(Caravaggio, "Cattura di Cristo")

Ambrogio di Milano una guida sicura verso la conversione

Anche per Giuda ci sarebbe perdono se avesse fatto penitenza

di Cesare Pasini

"Concedimi anzitutto di essere capace di condividere con intima partecipazione il dolore dei peccatori. Questa, infatti, è la virtù più alta. Anzi, ogni volta che si tratta di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimbrottarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che, mentre piango su un altro, io pianga su me stesso".

Dobbiamo questa nobilissima espressione alla viva sensibilità di pastore di Ambrogio, vescovo di Milano nell'ultimo squarcio del quarto secolo. Nella pagina del suo trattato su La penitenza, da cui prendiamo le mosse (II, 8, 73), egli commenta l'episodio della risurrezione di Lazzaro; e le tappe di quell'evento, con le azioni e le voci dei presenti, divengono una traccia per descrivere l'atteggiamento di Cristo che si accosta al peccatore e lo libera e perdona.
Non si tratta, fa notare il nostro autore, di una questione privata. Sono coinvolti anche i vicini, gli amici, le sorelle; è coinvolta la Chiesa. "Cristo verrà alla tua tomba, e se vedrà piangere per te Marta, piangere Maria, sarà mosso dalla compassione; quando vedrà che moltissimi piangono per la tua morte, chiederà: "Dove l'avete messo?" (Giovanni, 11, 34)" (II, 7, 54). La gente risponde: "Vieni e vedi" (ivi). Sono parole dense di significato, poiché contengono un augurio molto più profondo: "Venga la remissione dei peccati, venga la vita per i defunti, la risurrezione per i morti, venga anche in questo peccatore il tuo regno" (II, 7, 55).
Ormai il percorso simbolico è ben indirizzato, e diventa perfino facile e lineare vedere, nella pietra tolta via dal sepolcro, la liberazione del peccatore dal carico dei suoi peccati. Ma ad Ambrogio preme rimarcare anche qui il ruolo dei presenti: non poteva forse togliere Gesù la pietra grazie alla potenza divina della sua parola? Perché mai doveva chiedere aiuto a quegli uomini? Lo fece, simbolicamente, "per indicare che ci concedeva di scuotere il carico dei peccati che, come enormi pesi, gravavano sui colpevoli. Tocca a noi rimuovere il carico, spetta a lui risuscitare, a lui trarre dalla tomba quelli che sono stati liberati dai loro legami" (II, 7, 56). Il perdono è opera di Dio, ma in quest'opera divina Gesù non trascura la collaborazione umana.

Ed ecco l'esito dell'azione, sempre intrecciata fra Gesù e la Chiesa, in una gara di sofferta condivisione: "Vedendo il grave carico dei peccatori, Gesù piange; non permette che pianga solamente la Chiesa, condivide la sofferenza della sua amata e dice al morto: "Vieni fuori!", cioè: tu che giaci nelle tenebre del rimorso e nella sozzura delle tue colpe, come in una prigione riservata ai peccatori, vieni fuori, confessa il tuo peccato, per essere giustificato" (II, 7, 57).

La meditazione di Ambrogio, rileggendo simbolicamente la risurrezione di Lazzaro come esperienza salutare di tutti coloro che sono perdonati, approda infine alla pagina da cui abbiamo preso avvio. Il vescovo infatti prende a parlare in prima persona e, personificandosi nel Lazzaro bisognoso di risurrezione, invoca la venuta di Gesù, invoca la sua parola che lo chiami fuori dal sepolcro e gli permetta così di partecipare al convito dove si è commensali con Gesù. Del resto, non racconta forse il vangelo che, dopo aver fatto ritornare in vita Lazzaro, Gesù si recò di nuovo dagli amici di Betania e fu accolto a cena da loro? Ecco quindi l'articolata preghiera a Gesù espressa dal nostro autore: "Possa tu degnarti di venire a questa mia tomba, di lavarmi con le tue lacrime, poiché nei miei occhi inariditi non ne ho tante da poter lavare le mie colpe! Se piangerai per me, sarò salvo! Se sarò degno delle tue lacrime, cancellerò il fetore di tutti i miei peccati... Chiama dunque fuori il tuo servo. Quantunque, stretto nei vincoli dei miei peccati, io abbia avvinti i piedi, legate le mani, e sia ormai sepolto nei miei pensieri e nelle opere morte, alla tua chiamata uscirò libero e diventerò uno dei commensali nel tuo convito" (II, 8, 71-72). Poter sedere "tra i convitati della mensa celeste" è dono e grazia e misericordia. E così percepisce la sua stessa chiamata all'episcopato l'antico governatore, che riconosce di rimanere nel suo ministero "non per proprio merito ma per grazia di Cristo" (II, 8, 72). Ecco perché non può manifestare vane sicurezze personali, ma riesce soltanto umilmente a invocare: "Conserva, Signore, la tua grazia!", e a constatare, con san Paolo: "Per tua grazia sono ciò che sono" (I Corinti, 15, 10). E - come leggevamo all'inizio - ciò che egli si sente di manifestare ed esprimere con tutta chiarezza e sicurezza è la condivisione "con intima partecipazione" del "dolore dei peccatori", è "gemere e piangere" con loro e, nel piangere su un altro, piangere su se stesso in pentimento e gratitudine (II, 8, 73).

Si è introdotto il discorso a partire dal trattato su La penitenza di sant'Ambrogio attingendo alle pagine a commento dell'episodio della risurrezione di Lazzaro.

Se si vuole ora osservare questo scritto nel suo insieme, ci si accorge che l'autore vi sottolinea due aspetti: anzitutto - e soprattutto - vi afferma con decisione, contro ogni tentazione contraria, l'infinita misericordia di Dio, che in Gesù vuole raggiungere ogni uomo peccatore e concedere a tutti la possibilità del perdono; allo stesso tempo il vescovo rimarca la serietà del percorso penitenziale del cristiano. Quest'ultimo aspetto esprime schiettamente il senso di responsabilità, che devono assumere quanti si dichiarano peccatori, riconoscono la gravità delle loro mancanze e preparandosi quindi - con una penitenza pubblica e prolungata, molto impegnativa ed esigente, come era nella prassi della Chiesa antica - a ricevere il perdono.

Così, nello scritto di Ambrogio, vediamo che il penitente è invitato a intensificare la propria preghiera di invocazione, accompagnandola con lacrime d'intima sofferenza per ciò che ha compiuto: "Voglio che il colpevole speri il perdono, lo chieda con le lacrime, lo chieda con i gemiti, lo chieda con il pianto di tutto il popolo, supplichi di essere perdonato. E dopo che la comunione gli sarà stata differita una seconda e una terza volta, sia convinto di aver supplicato con poco vigore, aumenti i pianti, ritorni successivamente destando maggior compassione" (I, 16, 90). Sono persino proposte rinunce molto dure - e, accanto a suggerimenti sacrosanti, indubbiamente anche qualche esagerata forzatura -: "Bisogna rinunciare al mondo, bisogna persino concedere al sonno meno di quanto esige la natura; il sonno deve essere intervallato con gemiti, interrotto con sospiri, separato con orazioni; bisogna vivere in modo da morire al nostro consueto modo di vivere" (II, 10, 96).
Anche la confessione dei peccati ha un suo specifico valore, nonostante l'umiltà che richiede, anzi, proprio grazie all'esperienza di umiltà che fa sperimentare: "Il Signore conosce tutto, ma attende che tu parli, non per punirti, ma per concederti il perdono. Non vuole che il diavolo ti oltraggi e ti smascheri mentre cerchi di nascondere i tuoi peccati. Previeni il tuo accusatore; se sarai tu ad accusarti, non dovrai temere nessun accusatore; se ti denuncerai da te, anche se sarai morto, rivivrai" (II, 7, 53). Anche gli imperatori, se peccatori, sono chiamati ad apprendere questo atteggiamento schietto e purificatore, ponendosi anch'essi fra i penitenti, manifestandosi tali nell'assemblea: Ambrogio insegnerà questo percorso a Teodosio dopo la violenta vendetta da lui ordinata a Tessalonica, e nel discorso funebre in sua memoria il vescovo ricorderà la confessione pubblica dell'imperatore come un gesto di grande coraggio e di genuino spirito cristiano, ben più grande di tante altre sue imprese.
Certo, non lo si può dimenticare, tutto quello che si compie in un cammino penitenziale, è comprensibile e accettabile solo in un contesto di fede. Senza la fede e fuori di un clima di fede, non è possibile essere riconciliati, né ha senso invocare un perdono. Anzi, proprio perché è una grazia implorata per fede e il peccatore non può conquistarsi lui la remissione delle sue colpe, il perdono non si pretende, ma si riceve come dono generoso, invocato in umiltà: "Dobbiamo credere che si deve fare penitenza e concedere il perdono, a condizione tuttavia di sperare, in quanto esso ci è assicurato dalla fede, non in quanto ci è dovuto. Una cosa è meritare, un'altra ritenere diritto acquisito. La fede ottiene come rilasciando una cambiale, la presunzione invece è più simile all'arroganza che alla supplica" (II, 9, 80).
Nella severità di questo percorso penitenziale abbiamo visto entrare da protagonista la comunità cristiana, la Chiesa. Come a ricordare che la penitenza è un lavorio impegnativo, ma condiviso e sostenuto dagli altri, dai vicini, dai fratelli, dalla Chiesa. Non è una questione privata, e non è una faccenda penosa, per la quale i singoli malcapitati devono provare ad arrangiarsi. Piuttosto "tutta la Chiesa prende su di sé il carico del peccatore, e alla sua sofferenza partecipa col pianto, con la preghiera, col dolore, affinché, per opera di tutti senza eccezione, ciò che resta da espiare in un penitente sia purificato, per così dire, con il contributo collettivo di una pietà e di una compassione senza debolezza" (I, 15, 81).
L'impegno severo richiesto al penitente e la collaborazione operosa e orante di tutta la Chiesa non sono quindi sentiti come una contrapposizione alla misericordia: è proprio la misericordia che apre la via al perdono e, aprendo alla speranza, rende pronti e volonterosi nel percorrere la via gravosa, ma proficua, della conversione e della penitenza. Il tutto avvolto, motivato e sospinto dalla misericordia. Ambrogio lo sottolinea specificamente per contrastare la dottrina dei Novaziani, che escludevano la possibilità di un perdono dopo il battesimo: secondo loro, se si pecca gravemente dopo aver aderito alla fede cristiana e aver ricevuto il battesimo, non sarebbe lecito invocare di nuovo il perdono.
Sant'Ambrogio invece ribatte che "il Signore ha perdonato tutti i peccati, non ha escluso colpa alcuna" (I, 2, 5), che "lo Spirito di Dio è più incline alla misericordia che alla severità" (I, 2, 9), che "Dio è più indulgente nella misericordia che tenace nella severità" e che "anche Giuda avrebbe potuto non essere escluso dal perdono per effetto d'una così immensa misericordia del Signore, se avesse fatto penitenza".
Proprio grazie alla polemica in cui si trova coinvolto, sant'Ambrogio ripercorre ampiamente questo tema, che gli risulta estremamente intimo e sentito, tanto da farlo coinvolgere in prima persona. Accanto alle espressioni autobiografiche già citate all'inizio, è commovente raccogliere le affermazioni nelle quali si riconosce peccatore, bisognoso di perdono.

In particolare quando rievoca Tamar, la nuora di Giuda che con un inganno si unì al suocero. Il vescovo ripete, a mo' di ritornello, facendo passare i differenti generi di tentazioni e di peccati, che Tamar è più giusta di lui, proprio come trovava in bocca a Giuda nel passo biblico in questione: ""Tamar è più giusta di me" (Genesi, 38, 26). Può darsi che sia caduta una giovinetta, ingannata e travolta dalle occasioni, che sono incitamento al peccato.

Pecchiamo noi vecchi, la legge di questa nostra carne si ribella in noi alla legge del nostro animo e ci trascina prigionieri verso il peccato, così che facciamo ciò che non vorremmo. Quella giovinetta ha una scusa nella sua età, io non ne ho nessuna: essa infatti deve imparare, noi invece dobbiamo insegnare. Dunque "Tamar è più giusta di me". Biasimiamo l'avarizia di qualcuno? Cerchiamo di ricordarci se noi stessi non ci comportiamo con avarizia; e se ci siamo comportati così, diciamo ciascuno per conto nostro: "Tamar è più giusta di me"" (II, 8, 74-75).

Del resto, poco sopra, il vescovo aveva confessato, con qualche forzatura negativa verso di sé, ma in piena schiettezza: "Io sapevo infatti che non ero degno d'essere chiamato vescovo, perché mi ero dato a questo mondo (...) Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quand'era perduto, hai chiamato all'episcopato" (II, 8, 73).

E ancor prima aveva dichiarato: "Confesso che il mio debito è più grande e che a me è stato rimesso di più, perché sono stato chiamato all'episcopato dal frastuono delle liti del foro e dal temuto potere della pubblica amministrazione. Perciò temo di essere giudicato un ingrato, se amo di meno, mentre mi è stato rimesso di più" (II, 8, 67).

Per far comprendere la misericordia che perdona, Ambrogio aveva a sua disposizione le parabole della misericordia, in particolare quella del padre e dei due figli. E infatti il vescovo la utilizza e si sofferma a considerare la situazione del figlio prodigo sino al suo ritorno e l'accoglienza che riceve dal padre. Questi infatti "gli corre incontro al suo arrivo, mentre è ancora lontano, e gli dà il bacio, segno della pace santa, fa portare l'abito, cioè la veste nuziale senza la quale si è esclusi dal banchetto, gli pone in dito l'anello, che è il pegno della fede e il sigillo dello Spirito Santo, fa portare i calzari, fa uccidere un vitello, perché "Cristo nostra Pasqua si è immolato" (I Corinzi, 5, 7)" (II, 3, 18). Così la vicenda del figlio è assimilata al ritorno del peccatore pentito e perdonato al banchetto pasquale dell'eucaristia.
Fra le parabole, sant'Ambrogio trae spunto anche da quella del buon Samaritano, che diventa immagine della Chiesa, cioè di quanti non passano oltre davanti al peccatore ma, se appena notano in lui un barlume di vita, si soffermano per farlo rinvigorire: il Samaritano, infatti, "non passa oltre, perché riscontra in lui qualche segno di vita, per effetto del quale potrebbe riprendersi. Non ti sembra che chi è caduto, sia semivivo, se la fede conserva in lui un qualche alito di vita? Solo chi scaccia interamente Dio dal suo cuore è privo di vita. Se è semivivo, fa' di essergli prossimo. Non potresti però essergli prossimo, se non gli usassi misericordia" (I, 11, 52).

Chi è allora il mio prossimo? Era questa, peraltro, la domanda posta a Gesù dal dottore della legge e che aveva occasionato la narrazione della parabola (Luca, 10, 29). Sant'Ambrogio aveva già risposto qualche pagina prima, con una di quelle sue espressioni vibranti e folgoranti, come una definizione e uno slogan insieme: "Il tuo vero prossimo non è colui che un'uguale natura ha congiunto a te, ma colui che la misericordia ti ha intimamente unito" (I, 6, 28). La misericordia, cioè, non la semplice natura, ti unisce veramente al prossimo e te lo fa accogliere e aiutare nella benevolenza e nel perdono: questo infatti fa la Chiesa imparando da Cristo, buon Samaritano dell'umanità.
Suggeriamo un'altra interpretazione, forse andando oltre al significato che sant'Ambrogio aveva qui inteso, ma certo rimanendo in armonia con il suo pensiero più profondo: quanto ci unisce gli uni agli altri non è tanto la comune natura umana, ma quella misericordia ricevuta dall'Alto, di cui tutti, piccoli e peccatori, siamo bisognosi e nella quale siamo tutti fratelli e beneficati. A ben guardare l'aveva chiaramente espresso proprio il vescovo Ambrogio, quando aveva invocato, pensando a quanti incontrava nel suo ministero episcopale: "Concedimi di provarne compassione e di non rimbrottarli altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che, mentre piango su un altro, io pianga su me stesso". Era a tutti intimamente unito dalla misericordia ricevuta in dono.

(©L'Osservatore Romano - 10-11 marzo 2008)

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