16 maggio 2008

Meglio il realismo di Tommaso del dubbio sistematico di Cartesio (Osservatore Romano)


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In Tommaso Étienne Gilson vede la strada per far uscire il pensiero moderno dalle secche del razionalismo scettico

Meglio il realismo di Tommaso
del dubbio sistematico di Cartesio


di Antonio Livi
Decano della Facoltà di filosofia
della Pontificia Università Lateranense

Étienne Gilson (1884-1978) è citato nell'enciclica Fides et ratio di Giovanni Paolo II (1998) tra i pensatori moderni che rappresentano la pratica di quella "filosofia non separata dalla fede" che l'enciclica raccomanda; il documento pontificio recepisce inoltre il rilevamento storiografico di Gilson, ossia che la filosofia ha derivato dalla rivelazione cristiana alcune nozioni fondamentali per la metafisica (quelle di creazione dal nulla, di persona, di libertà e di storia), che il pensiero moderno ha fatto sue.
Ma l'importanza storica di Gilson in rapporto agli orientamenti che il magistero ecclesiastico ha fornito ai cristiani in materia di filosofia non si limita a questa connessione testuale. La profonda e seria riflessione filosofica di Gilson - di riconosciuto valore, non solo storiografico ma anche teoretico - è infatti servita a mostrare l'originalità e la fecondità di quel modo di fare filosofia, da parte dei credenti, che prende il nome di "filosofia cristiana" e che trova il suo più convincente modello nell'opera di Tommaso d'Aquino. Colui che nel passato la Chiesa denominò doctor communis e che ora è modello del giusto modo di fare teologia, è per Gilson (che sostiene questa tesi con forti ragioni epistemologiche) anche un modello di come si deve fare filosofia: non "malgrado" i suoi interessi fondamentalmente teologici, ma proprio perché questi interessi teologici si sono dimostrati capaci di orientare il pensiero cristiano nella ricerca della verità naturale come premessa necessaria dell'assenso alla verità rivelata, evitando gli opposti errori dello scetticismo e del razionalismo. Oggi il pensiero cristiano, se vuole sopravvivere, deve trovare di nuovo una via di uscita da questa falsa alternativa di scetticismo e razionalismo: e ciò sarà possibile solo adottando in filosofia e in teologia il metodo tommasiano, che consiste essenzialmente nella riflessione critica sull'unità dell'esperienza.
In dialogo con tutte le principali istanze del pensiero contemporaneo e utilizzando sapientemente alcune categorie critiche moderne ("realismo", "senso comune"), Gilson ha interpretato il tomismo come una metafisica non razionalistica, capace anche di dimostrare la "verità" delle premesse della fede cristiana con la sua nota (ma spesso non adeguatamente compresa) dottrina dei praeambula fidei.
Quanto ho detto sul metodo tommasiano in rapporto al "futuro del pensiero cristiano" potrà sembrare eccessivo; qualcuno potrebbe obiettare (e in effetti molti lo hanno fatto) che è stata proprio l'enciclica Fides et ratio a ridimensionare l'importanza del tomismo, tanto che il nome del tomista Gilson (e quello di un altro tomista, Jacques Maritain) figura tra tanti altri che tomisti non erano. Intanto dico subito che il fatto che l'enciclica di Giovanni Paolo II sulla filosofia cristiana non si riferisca a Tommaso d'Aquino in modo primario ed esclusivo (molti lo hanno sottolineato nei loro commenti, anche se pochi ne hanno potuto o voluto capire il motivo) si deve alla ragione teoretica essenziale che il tomismo è interessante per la Chiesa solo nella misura in cui è un'espressione riuscita, coerente ed efficace della filosofia cristiana, la quale invece interessa direttamente la Chiesa perché serve all'intelligenza della fede.
E Gilson era un pensatore laico, estremamente libero e indipendente nelle sue scelte filosofiche; egli apprezzava il pensiero tommasiano per motivi esclusivamente teoretici, vedendo nella metafisica di Tommaso la realizzazione storica più riuscita della filosofia cristiana, tanto che alla fine della sua lunga e operosa esistenza egli usava proprio questo termine, "filosofia cristiana", per indicare il tomismo. Insomma, Gilson è tomista perché crede alla validità di una filosofia cristiana, e non viceversa. E, a ben pensare, questo rilievo non è privo di risvolti paradossali, se si guarda al neotomismo del Novecento come a un "movimento" o a una "scuola" (cosa che fu solo in parte e solo per taluni pensatori): infatti, se si eccettua Jacques Maritain, quasi tutti i tomisti contemporanei di Gilson (Maurice de Wulf, Léon Noël e Fernand Van Steenberghen dell'Università di Lovanio, Amato Masnovo e Sofia Vanni Rovighi della Cattolica di Milano, e poi Cornelio Fabro e Giorgio Giannini) furono molto critici nei suoi confronti, e non ne condivisero quelle che invece io reputo le sue grandi intuizioni, come il carattere "metodico" e non "critico" del realismo tomista e soprattutto il carattere intrinsecamente cristiano della metafisica di Tommaso, che molti tomisti volevano presentare come "filosofia pura" (molti direbbero oggi "laica", ma l'enciclica Fides et ratio la chiama con il suo vero nome, "filosofia separata").
Gilson sosteneva invece che nel Medioevo non era mai esistita, nemmeno all'epoca della scolastica, una filosofia unitaria, indipendentemente dalla fede e dalla teologia: la filosofia cristiana è filosofia di teologi, con varietà notevolissime che rendono la metafisica tomista - a suo giudizio la più profonda e valida - radicalmente diversa da quella agostiniana, bonaventuriana o scotista. Non è la separazione dalla teologia e dalla fede ciò che rende filosoficamente valida la filosofia cristiana ma la sua autonomia formale, ossia la sua capacità di argomentare razionalmente il proprio punto di partenza, il proprio metodo e le proprie conclusioni. Per la filosofia cristiana vale dunque il principio enunciato da Maurice Blondel (che, peraltro, con Gilson non andò d'accordo quasi su nulla): "Non adiutrix nisi libera, non libera nisi adiutrix philosophia".
Oggi nessuno, in campo cattolico, continua ad accusare Gilson di "fideismo", perché l'unità esistenziale e tematica di filosofia e teologia è un dato acquisito, ma al tempo stesso nessuno oggi riconosce con Gilson che in questa unità la filosofia ha una funzione propriamente "veritativa" solo se conserva la sua autonomia formale e la sua coerenza logica: cosa che Maurice Blondel aveva sempre negato e successivamente, in sintonia con lui, anche Henri de Lubac, così come non trova riscontro nella concezione che della filosofia cristiana ebbe Edith Stein.
Il contributo di Étienne Gilson, nel quadro di questa problematica, ha un'importanza storico-critica che non può assolutamente essere sottovalutata. Gilson è un pensatore che rappresenta - per le tematiche affrontate (dalla gnoseologia all'estetica) e per le categorie filosofiche utilizzate (quella di "senso comune" e quella di "esistenza") - un modo di fare filosofia che è squisitamente moderno, allo stesso tempo che è radicalmente in opposizione con altri modi di fare filosofia, quale soprattutto quell'immanentismo di matrice cartesiana che detiene da secoli l'egemonia culturale e politica in Europa: un modo di fare filosofia, un "metodo", che è il presupposto teoretico sia del razionalismo che dell'empirismo del Seicento, con i loro sviluppi posteriori (criticismo, idealismo, positivismo, fenomenologia, neopositivismo, materialismo dialettico, nichilismo, "pensiero debole"), che per Cornelio Fabro costituiscono la prova storica che l'immanentismo porta inevitabilmente all'ateismo positivo. La qualità filosofica delle ricerche di Gilson ha consentito agli studiosi più attenti di percepire con una chiarezza mai prima raggiunta la radicalità dell'opposizione dei due metodi, dei due modi di fare filosofia nell'età moderna: quello derivante dalla svolta cartesiana, che è giusto denominare "immanentismo", e quello loro, che ben può essere denominato "realismo" perché questo termine fu coniato da Jacobi proprio per contrapporsi a ciò che egli chiamava "idealismo".
Nel percepire questa radicale opposizione, poteva essere colta anche la sostanza di "scelta" fondamentale che caratterizza l'adozione dell'uno o dell'altro metodo nell'età moderna e contemporanea: e infatti molti studiosi hanno analizzato la componente volontaristica (extrafilosofica, arbitraria) della svolta cartesiana, evidenziando, di contro a questa, la qualità genuinamente razionale della critica del cartesianesimo e del rifiuto di adottarne il metodo in filosofia. Quanti hanno compreso che l'immanentismo non rappresenta la filosofia moderna tout court ma è soltanto una "opzione intellettuale" che di fatto si è verificata agli inizi dell'età moderna, con Descartes, ma che per tutto il tempo del suo sviluppo storico ha dovuto fare i conti con una critica serrata da parte di altre opzioni, altrettanto o più valide filosoficamente, sono arrivati alla conclusione che non è il "mondo moderno" come tale a opporsi frontalmente al cristianesimo ma sono gli ambienti culturali che per motivi ideologici hanno adottato l'immanentismo, e che questo deve il suo prestigio e la sua influenza non tanto alla incontrovertibilità delle sue tesi (a cominciare dal dubbio iperbolico) quanto alla possibilità di servire da copertura ideologica per operazioni politiche finalizzate alla demolizione della "cristianità" e alla edificazione di una civiltà neopagana.
E tutti coloro che sono pervenuti a questa consapevolezza riconoscono volentieri di dovere molto a Jacques Maritain, che già negli anni Venti pubblicava il suo famoso saggio sui Trois réformateurs: Luther, Descartes, Rousseaux, e ancora di più a Étienne Gilson, che pochi anni dopo dava alle stampe i saggi che formano Le Réalisme méthodique. E non si dimentichi che, anche su questo versante, non è certamente una posizione ideologica a determinare l'importanza di questi due filosofi, ma il loro spessore teoretico, ossia la loro qualità propriamente filosofica: quella qualità che, a proposito di Gilson, ha indotto Augusto Del Noce (che non era di scuola tomista) a dire che il filosofo francese rappresenta nel Novecento la più coerente e valida risposta al pensiero di Giovanni Gentile, ossia al rappresentante più genuino dell'immanentismo, giunto ormai alla fine della sua parabola speculativa.

(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2008)

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