15 maggio 2008

I fondamenti biblici della "Spe salvi". L'umanesimo cristiano, speranza della modernità (Osservatore Romano)


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I fondamenti biblici della "Spe salvi"

L'umanesimo cristiano
speranza della modernità


di Cesare Bissoli
Pontificia Università Salesiana

Per una lettura della Spe salvi che metta in evidenza i suoi fondamenti biblici, occorre far riferimento a tre aspetti particolarmente significativi: l'approccio esistenziale alla Parola di Dio, il tipo di presenza e di impiego della Bibbia, i motivi biblici centrali.
Il lettore attento, percorrendo i diversi paragrafi dell'enciclica, nota immediatamente che il riferimento alla Parola di Dio non assume affatto il ruolo di citazione edificante. Ci si trova presi nel binomio, tanto suggestivo quanto necessario, di "speranza e vita", e ciò dentro un serrato confronto tra due umanesimi, quello cristiano e quello moderno. Ne risulta un rigoroso esercizio ermeneutico che garantisce una corretta e fruttuosa comprensione sia della Scrittura sia della condizione dell'uomo a cui la Parola di Dio si rivolge.
Si pensi a questo proposito al valore portante di Ebrei, 11, 1 e di Efesini, 2, 12, che fanno da perno all'enciclica. Soltanto in questo modo infatti la Bibbia può dare risposte serie, perché viene interpellata su domande serie. E tali sono quelle sulla speranza, dove sono coinvolti in maniera intensa il pensiero biblico e il pensiero umano, più esplicitamente Dio e l'uomo. Si può applicare qui quanto dice la recente Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede: "Ogni incontro (del Vangelo) con una persona o una cultura concreta può svelare delle potenzialità del Vangelo poco esplicitate in precedenza, che arricchiranno la vita concreta dei cristiani e della Chiesa" (n. 6).

Assai numerosi sono i riferimenti biblici.
A partire da Romani, 8, 24, che dà il titolo alla "Spe salvi" ("salvati nella speranza"), le citazioni sono una settantina: la stragrande maggioranza di esse è tratta dal Nuovo Testamento, in particolare dalla Lettera agli Ebrei, da varie lettere paoline (segnatamente dalla prima e seconda ai Corinti e dalla Lettera agli Efesini), dal quarto vangelo. L'Antico Testamento, che fa da asse portante alla riflessione sulla Lettera agli Ebrei, compare soprattutto, nella parte finale dell'enciclica, con citazioni dei salmi in relazione soprattutto al binomio sofferenza-speranza.
Il Papa non ha inteso presentare una teologia biblica della speranza sotto tutti gli aspetti, ma come già nel libro su Gesù di Nazaret, al centro sta la riflessione su alcuni nodi ritenuti centrali nel disegno globale del tema speranza-salvezza. Sono nodi biblici, teologici e antropologici, approfonditi alla luce della grande tradizione, segnatamente con il contributo dei Padri della Chiesa, in cui facile principe è sant'Agostino.
In una visione di insieme si può riscontrare che il Papa non usa un linguaggio astratto, non fa la teoria della speranza, ma riflette sul mondo delle persone che hanno o non hanno speranza, che mostrano di essere in difficoltà (o in pace) con la vita perché in difficoltà (o in pace) con la speranza. È quella dinamica interpersonale tra Dio e l'umanità, accennata all'inizio, che il Papa alimenta con il ricorso alla Bibbia, sviluppato in cinque momenti: prima viene l'esempio storico di persone credenti nel Dio di Gesù Cristo che hanno esperienza positiva di speranza; poi è richiamato il paradigma normativo di un cammino di speranza che ingloba il popolo intero della Bibbia; in seguito si ricorda il fatto drammatico, pur esso storico, di un mondo di persone "senza speranza e senza Dio nel mondo", secondo l'espressione di Efesini, 2, 12; fa seguito l'illuminazione biblica che anima il non facile apprendistato a vivere nella speranza che tocca al cristiano nel tempo; conclude una testimone biblica eccezionale della speranza, Maria di Nazaret. Per ragioni di spazio ci fermiamo sui primi tre momenti.
Anzitutto partendo dalla verità, pur essa del tutto personale e personalizzante, che base oggettiva della speranza è la redenzione operata da Dio in Cristo, il Papa comincia la sua esposizione riportando fatti concreti: al convincente episodio della schiava Bakhita (n. 3) congiunge, come fondamento rivelato, quello di un altro schiavo, Onesimo, di cui parla la Lettera a Filemone (n. 4). Entrambi sono fruitori di speranza grazie alla riconosciuta signoria liberatrice di Cristo, qualificato con il binomio di filosofo (è il psicagogo antico, guida dell'anima) e pastore (n. 6).
Questa redenzione, feconda di speranza, conosce un paradigma rassicurante e normativo, che biblicamente ha il suo perno in Ebrei 11.
È un testo biblico, purtroppo ignorato o considerato una speculazione teologica circa il sacerdozio e il sacrificio di Cristo. In realtà, in questa lettera, Gesù è visto come sacerdote che fa da capo e guida di un popolo in cammino verso la terra promessa, tanto attesa e cercata. Il passo di Ebrei, 11, 1, su cui il Papa si ferma con una rigorosa esegesi, è un elaborato concettuale che interpreta le ragioni per cui il pellegrinaggio del popolo di Dio è vero ed è sostenibile: "La fede è hypòstasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono".

La fede è "sostanza", cioè un dato oggettivo (non un semplice sentimento soggettivo come pensava Lutero), che garantisce in noi fin da oggi ciò che ci sarà dato domani, e diventa per tale motivo prova e certezza di tale futuro. "La fede attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro "non ancora"". Il popolo di Dio non cammina nel vuoto o nel vago. "Il presente viene toccato dalla realtà futura e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future" (n. 7). Sempre nell'ambito di Ebrei, 11, il Papa mette in chiaro con parole molto forti la ferita fatta alla speranza cristiana, per averla "privatizzata" individualisticamente, estinguendo in qualche periodo storico quella carica sociale che le è propria, essendo speranza di un popolo che, in quanto tale, è portatore di una speranza condivisa, il raggiungimento della "città di Dio" (cfr 11, 10. 16; 12, 22; 13, 14), espressione massima di una salvezza comunitaria (cfr n. 14).
Vi insiste il Papa sempre indicando passi della Lettera agli Ebrei e aggiungendo due altri motivi biblici luminosi: citando 1 Timoteo, 2, 6, ci ricorda che Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti. Cui si aggiunge 2 Corinzi, 5, 15, con il commento: "Vivere per lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo "essere per"" lungo la sua vicenda terrena (n. 28). Non si ha speranza per sé se non la si ha per gli altri e con gli altri, dandone i segni, come buoni compagni di viaggio.
Siamo finalmente al terzo momento drammatico di un mondo di persone "senza speranza e senza Dio nel mondo". Il pensiero di Benedetto XVI traspare dall'insistenza nel citare Efesini, 2, 12, che troviamo come filo rosso dall'inizio alla fine dell'enciclica: ai numeri 2, 3, 5, 23, 27, 44 per ben sei volte. Ivi Paolo ricorda agli Efesini che prima del loro incontro con Cristo erano "senza speranza e senza Dio nel mondo" (n. 2). Il Papa vi vede come in filigrana il cammino storico di persone nel tempo della modernità. In un severo bilancio, nota il fallimento della "grande speranza" di cui l'uomo ha bisogno, a motivo di progetti soltanto umani e conclude: "L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di San Paolo citata all'inizio (cfr Efesini, 2, 12) si rivela molto realistica e semplicemente vera" (n. 23). "Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Efesini, 2, 12). "Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza" (Efesini, 2, 12)" (n. 44).
Qui il testo biblico si pone, dunque, come dolorosa profezia, dove non si nega per sé l'esistenza di valori anche in una modernità senza Dio, ma non se ne vede la capacità di essere via che porta alla meta. Non si respira la "grande speranza", quella speranza certa e definitiva che solo Dio può realizzare. Questo antagonismo è stato criticato da certuni.
Ma bisogna tener presente la prospettiva teologica dei principi entro cui Ratzinger si muove. Essa non esclude una prospettiva aperta su considerazioni storiche e pastorali più specifiche.
Successivamente il Papa con la Parola di Dio illumina il tirocinio della speranza tramite la preghiera, l'esercizio della speranza, la stessa sofferenza e finalmente in relazione al grande Giudizio finale, concludendo con Maria, stella della speranza.
Buon criterio di lettura sarà avere presente l'ottica esistenziale storica e concreta che deriva dalla comprensione biblica della speranza da parte di Benedetto XVI. Non dimenticheremo, in particolare, il testo di Ebrei, 11, all'interno della totalità della Lettera agli Ebrei, come specchio della nostra identità di popolo di Dio in cammino verso la città futura, un popolo impegnato a prefigurarne il volto oggi in segni di speranza condivisa e solidale, non dimenticando realisticamente sia i testimoni positivi, martiri della speranza, come dei fratelli vietnamiti, sia il respiro corto e fragile di speranze umane emarginando Dio.
Buon compito pastorale è di integrare la forte e giusta proposta del Papa con una teologia biblica più dettagliata della speranza e con una attenta mediazione pedagogica, mai dimenticando che proprio dell'incontro con la Sacra Scrittura è di attingere la "consolazione della speranza" (cfr Romani, 15, 4).

(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2008)

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