24 marzo 2008
La Resurrezione secondo sant'Ambrogio: "Nel cielo del mattino un segno di vittoria" (Osservatore)
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La Resurrezione secondo sant'Ambrogio
Nel cielo del mattino un segno di vittoria
di Inos Biffi
L'inno Hic est dies verus Dei è uno dei tre che sant'Ambrogio - che ne è sicuramente l'autore - dedica ai misteri di Cristo. In uno canta il Natale del Signore, in un altro le sue epifanie, in questo egli trasforma in "voce canora", per il suo popolo, il "mirabile mistero" della Pasqua, colto nel suo compiersi in Cristo e illustrato nel suo rifrangersi nell'uomo, e specialmente come sorprendente opera di misericordia.
Sant'Ambrogio vi raccoglie, fondendoli e componendoli in una luminosa e originale teologia, i motivi pasquali variamente sparsi nelle sue opere.
Il canto si apre con un annuncio gioioso e vibrante: "È questo il vero giorno di Dio, / radioso di santa luce".
Certamente tutti i giorni appartengono a Dio, che ha creato il tempo e la luce e che Ambrogio, nell'Aeterne rerum conditor, chiama "Creatore eterno delle cose" e moderatore delle loro vicissitudini; e nell'inno all'accensione definisce "Creatore degli esseri tutti".
E, tuttavia, nessun giorno è tanto di Dio quanto il giorno di Pasqua: quasi che, per crearlo, Dio abbia impiegato in maniera unica e incomparabile la sua divina potenza.
Allo stesso modo, nessun giorno è tanto terso, quanto quello pasquale, inondato e rischiarato dal nitore di una "luce santa": sancto serenus lumine. Ambrogio, forse echeggiando il serena luce di Virgilio, ama il termine "sereno" e usa espressioni come: dies serenius luceat; animi serenitatem; caeleste mysterium serena luce resplendet; aestivae lucis serenitatem.
Il giorno di Pasqua è un giorno sgombro di nubi, perché a renderlo limpido è il sanctum Lumen, o il Signore risorto, che diffonde intorno il suo splendore, che non ha paragone col bel tempo dei giorni che vediamo sorgere e tramontare nel mondo.
D'altronde, il motivo di Cristo Luce, che è proprio del vangelo di Giovanni, percorre l'inno intero e gli conferisce un diffuso senso di gioia e di pace: "la tranquillità del cuore e la serenità dell'animo - tranquillitatem cordis et animi serenitatem - come dice lo stesso sant'Ambrogio. Il quale spiega espressamente perché la Pasqua - che con la risurrezione include anche la passione e la morte del Signore e fa dire ad Ambrogio: "la morte di Cristo è l'annuale solennità del mondo" - sia il vero giorno di Dio: "La Scrittura ci insegna che ci sono giorni particolarmente illustri, in cui sono rifulse le imprese divine"; in un giorno come questo "è apparsa agli uomini la risurrezione di Cristo e quindi di questo giorno in modo speciale è stato detto: "Questo è il giorno che ha fatto il Signore. Esultiamo e rallegriamoci in esso!". Sebbene quindi tutti i giorni siano stati fatti dal Signore, a questo giorno sopra tutti gli altri è stato concesso il privilegio di essere opera divina. Questo giorno è il giorno illuminato dal Sole di giustizia".
Infatti, la trasparenza del "vero giorno di Dio", riflessa dalla "santa Luce" è tutta spirituale: quel giorno "vide un sangue sacro detergere i vergognosi delitti del mondo - probrosa mundi crimina" - ed è quanto avviene ogni volta nel lavacro battesimale. L'iscrizione del vescovo per il suo nuovo battistero di san Giovanni alle Fonti, richiama esattamente i probrosa crimina vitae lavati nell'"onda che limpida scorre": diluere è verbo che ad Ambrogio piace collegare col sangue di Cristo, che "lava questo mondo", e nel quale siamo stati detersi e redenti: suo sanguine nos diluit et redemit.
Nello stesso "vero giorno di Dio", grazie al sangue che ha cancellato le colpe, negli smarriti riprende a brillare la fede, e ai ciechi nello spirito è ridonata la vista e tornano a vedere: "Agli smarriti ridonò la fede; / ridiede luce, con la vista ai ciechi - fidem refundens perditis / caecosque visu inluminans".
Quello degli occhi dei ciechi schiusi alla luce ridonata da Cristo è tema che ritorna in sant'Ambrogio, al quale appare particolarmente gradito il verbo refundere. Egli ama parlare della "luce" miracolosamente "reinfusa ai ciechi - caecis refundi lumen" - e, in contesto battesimale, del Salvatore, che "col suo comando reinfondeva la luce agli occhi", spenti dal peccato - "per il fumo dell'iniquità si trova accecato l'occhio dell'anima - oculus animae caecatur". Alla comunità che cantava quest'inno il pensiero certamente riandava alla Luce della notte pasquale, e a quanti "Cristo aveva rischiarato con la grazia spirituale" ed erano chiamati "gli illuminati".
Ma probabilmente non manca un'altra allusione: quella ai due viandanti di Emmaus, smarriti e sfiduciati dopo la passione di Gesù, e dal cuore stolto e tardo, e dalla vista ottenebrata che loro impedivano di ritrovare e di vedere il Messia paziente nelle Scritture. Gesù, nelle sembianze del viandante, ridonò loro la fede e ridiede la luce.
A questo punto, l'inno si intrattiene su un particolare del "vero giorno di Dio" che tuttavia, per Ambrogio, è come la sintesi della grazia pasquale: in quel giorno non solo è ridonata la fede agli increduli e negli occhi dei ciechi è riaccesa la luce, ma anche è vinta ogni angoscia, dal momento che persino il ladro confitto sulla croce riceve subito il perdono: "Chi sarà ancora oppresso da timore/ dopo il perdono al ladro?".
Si direbbe che due eventi del Vangelo hanno profondamente impressionato sant'Ambrogio: lo sguardo di Gesù su Pietro, dopo il rinnegamento, con le lacrime purificatrici dell'apostolo, e il perdono concesso in un attimo al brigante crocifisso con lui, a motivo della sua pur "breve fede": "uno splendido esempio - egli commenta - di conversione".
Nel commento al vangelo di Luca il vescovo di Milano parla della "breve fede" - brevis fides - anche dell'emorroissa, subito compensata dalla misericordia; ma, più a lungo, si sofferma a considerare soprattutto "il fatto che il perdono sia concesso tanto in fretta - tam cito - a un malfattore, e il dono superi in abbondanza la domanda": "Quegli pregava che il Signore si ricordasse di lui, quando fosse giunto al suo Regno, ma il Signore gli rispose: "In verità, in verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso"". "Il Signore subito - cito - lo perdona, perché colui subito si converte".
È esattamente il tratto di prosa che è convertito in poesia.
Il ladrone - continua dunque l'inno - " (...) mutò la sua croce in un premio, / Gesù acquistando con rapida fede; / così, giustificato, / arrivò primo nel regno di Dio".
Il castigo del malfattore, cioè la sua croce, mirabilmente si trasforma in premio; un attimo di fede riesce a procurargli l'acquisto di Gesù, a renderlo giusto e a farlo giungere, primo, nel regno di Dio - iustusque praevio gradu / pervenit in regnum Dei - o, secondo un'altra lezione del testo, a farlo entrare in quel regno prima dei giusti - iustosque previo gradu / praevenit in regnum Dei.
"Il ladrone crocifisso - scrive sant'Ambrogio - viene assolto: lui ha riconosciuto Cristo nei dolori del supplizio. Ha confessato il proprio peccato a Cristo, che poteva perdonarlo, perché sulla croce ha contemplato con gli occhi dello spirito il regno di Dio. Drago infernale, esultavi perché avevi sottratto a Cristo un suo apostolo, ma hai perso più di quanto hai guadagnato, perché ti tocca vedere un ladrone trasportato in paradiso".
Nella figura del ladro pentito e perdonato Ambrogio trova il simbolo esemplare della clemenza divina, in presenza di un sincero atto di fede, ossia di affidamento a Gesù crocifisso, che agisce efficacemente e rapidamente, senza condizionamenti di tempo o affannose complicazioni penitenziali.
Sant'Ambrogio è il dottore della grazia misericordiosa; il peccato non lo angustia e non lo distrae, persuaso com'è della "pazienza del Signore - patientia Domini" - e della forza rinnovatrice e rasserenante dell'"assoluzione". Per lui, la colpa non sconvolge il disegno di Dio; al contrario, una volta "assorbita", diviene l'"occasione" che rivela il senso e il contenuto di quel disegno: Dio, infatti, non crea per manifestare ed esaltare l'innocenza, ma per rendere visibile il suo amore nella forma del perdono: "Felice caduta, che trova una rinascita più bella!".
È un disegno che suscita lo stupore anche negli angeli che vedono il Figlio di Dio subire il supplizio del malfattore, e il malfattore, strettamente congiunto con lui, ottenere in sorte il Regno - "dove c'è Cristo, là c'è il regno" .
Recita l'inno: "Persino gli angeli ne stupiscono, / contemplando lo strazio delle membra / e, tutto stringendosi a Cristo, / il reo carpire la vita beata".
Ricorrono in sant'Ambrogio sia lo "stupore degli angeli di fronte al celeste", o al "grande mistero", sia l'espressione "carpire la vita eterna - vitam carpere aeternam" - sia la contemplazione di Cristo che, "pendente dalla croce, tra i supplizi, ferito", "dona il regno celeste", e proclama: "Sarai con me in paradiso".
A meno che il corpo straziato sia quello del ladro, allora "la meraviglia degli angeli deriva dal contrasto tra il castigo subito e la beatitudine guadagnata" (Hervé Savon).
Si tratta di un "mistero mirabile", o di un disegno divino dalle componenti paradossali e inimmaginabili: "Una carne purifica i vizi della carne, / deterge il contagio del mondo / e toglie i peccati di tutti!".
Ambrogio lo ripete nei suoi scritti: grazie al sacrificio di Cristo, "anche le colpe più gravi sono rimesse"; egli "lava col proprio sangue il mondo".
È come impensabile quello che è avvenuto sul Calvario: il ladro - la colpa - che cerca Gesù - la grazia - l'amore di Cristo che allontana la paura; la morte che genera la vita.
Nulla ci potrebbe essere di più elevato - prosegue il poeta : "Che c'è di più sublime? / Cerca grazia la colpa, / è dall'amore vinta la paura, / la morte ci ridona a vita nuova".
Si comprende che il sentimento specialmente diffuso in questo canto pasquale, tutto rivolto alla Croce, sia quello di una gioia intima ed estasiata per quanto Dio ha compiuto, trasfigurando una passione in risurrezione, uno strazio in letizia, una carne crocifissa in una carne redenta e santa.
Ma prima di terminare il suo canto esultante, il poeta ferma uno sguardo irridente e sprezzante sulla morte, che si è autodistrutta. Essa, nel tentativo di mordere la preda, cioè il corpo di Cristo, messole dinanzi con sottile tranello, ne ha ingoiato letalmente l'amo, restando, insieme, avviluppata nella sua stessa rete.
Ambrogio usa altrove l'espressione "abboccare all'amo - hamum vorare" - e quanto ai lacci scrive: "Il modo migliore per spezzare il laccio - teso dall'inganno del diavolo - era quello di mostrare al diavolo la preda" - appunto il corpo di Cristo - "affinché, slanciandosi d'impeto su di essa, si impigliasse nella sua stessa rete - suis laqueis ligaretur".
È quanto il poeta traduce nel suo auspicio: "Si divori la morte il proprio amo, / nei suoi lacci s'impigli", dove è facile sentire l'eco delle parole di Paolo (e di Isaia e Osea): "La morte è stata ingoiata nella vittoria". "Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?" (1 Corinzi, 15, 54).
Così, paradossalmente, proprio dalla morte della "Vita di tutti" - ossia di Cristo (Colossesi, 3, 4) - scaturisce la risurrezione di tutti, ed è l'auspicio dei versi che chiudono la strofa: "muoia la vita di tutti/ di tutti la vita risorga".
Certo, l'esperienza della morte è universale, essendo dilagata - pertransiit - tra tutti gli uomini (Romani, 5, 12); sarà però altrettanto universale anche l'esperienza della vita, dal momento che "tutti saranno vivificati in Cristo" (1 Corinzi, 15, 22).
Su queste affermazioni della Scrittura, ancora una volta in forma di voto, l'Inno è condotto al termine: "Poi che tutti la morte avrà falciato - cum mors per omnes transeat - / tutti i morti risorgano; / e, da se stessa annientata - consumata morso ictu suo - la morte / d'esser perita lei sola si dolga": è il compiacimento per la vittoria pasquale della vita, a cui, come per contraccolpo, segue la soddisfazione per la sconfitta della morte, l'unica irreversibilmente destinata a soccombere in un lamento senza speranza.
Nessun inno, come questo di sant'Ambrogio, ha saputo tanto splendidamente far cantare nella Chiesa la Pasqua di Cristo, ossia la trionfale e inimmaginabile riuscita della croce, l'esaltazione dell'incontenibile perdono divino, e l'estrema e definitiva disfatta del peccato e della morte.
(©L'Osservatore Romano - 23 marzo 2008)
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