5 marzo 2008

Le sfide della secolarizzazione al centro della plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura: intervista con mons. Ravasi (Radio Vaticana)


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Le sfide della secolarizzazione al centro della plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura: intervista con mons. Ravasi

Inizia domani in Vaticano l’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura sul tema “Le sfide della secolarizzazione per la Chiesa e nella Chiesa”. Ma come affrontare queste sfide? Giovanni Peduto lo ha chiesto al presidente del dicastero, l’arcivescovo Gianfranco Ravasi:

R. – Bisogna prima di tutto ricordare che nell’ambito della secolarizzazione si tende sostanzialmente ad allontanare qualsiasi istanza e urgenza che si rivolga verso la trascendenza, verso l’Oltre e l’Altro. Ci si accontenta quindi semplicemente di cogliere i valori concreti, immediati, diretti. Tante volte sono prevalentemente scelte di moda e di modi di comportamento, sono scelte che si affidano sostanzialmente ad una morale della situazione, dell’immediatezza, qualche volta persino del proprio interesse o, peggio ancora, ci si orienta verso una alienazione da ogni valore di tipo spirituale o trascendente. Per questo motivo bisogna ritornare ancora negli spazi che sono propri dell’uomo il quale – come diceva Pascal – supera sempre infinitamente se stesso, ha sempre delle domande ulteriori; inserirsi e riproporre ancora i grandi valori, quei valori costitutivi dell’Uomo nella sua autenticità e questi valori, anche, si aprono verso il mistero, verso la trascendenza, verso il divino.

D. – Come entrare in dialogo con una cultura sempre più secolarizzata senza perdere la propria identità e cadere nell’irenismo che è un falso dialogo?

R. – Certamente, da un lato può esserci la tentazione della comunità cristiana, che vede questo mondo ormai superficiale, legato ad altre componenti dell’esistenza, la tentazione di ritirarsi in se stessa e di costituire come una sorta di oasi serena e pacata, in cui poter celebrare i propri riti e poter compiere anche un’esistenza che sia secondo lo spirito. In realtà, per l’Evangelo, in quel famoso appello che Gesù ha lasciato l’ultima sera della sua vita terrena, parlando ai suoi discepoli, la realtà del cristiano è quella di essere nel mondo senza essere del mondo. Ecco, quindi, la necessità di entrare nel mondo, di entrare però con la propria identità, senza stingersi, senza perdere il proprio colore, la propria personalità, portando anzi la fiaccola alta dei propri valori, che sono valori penultimi e ultimi, cioè valori certamente di solidarietà, di impegno sociale, ma sono anche i grandi valori del bene e del male, della vita e della morte, dell’oltrevita, dell’amore, della giustizia, del senso stesso dell’esistenza.

D. – Oggi si pone con forza la questione della laicità: c’è un tentativo da parte di alcuni di emarginare e privatizzare la dimensione religiosa come se i principi dei cristiani fossero meno validi dei principi cosiddetti laici …

R. – La secolarità, per molti versi, è sinonimo di una laicità sana, come dicevamo all’inizio. C’è la possibilità, cioè, di riconoscere che esistono delle autonomie proprie nella città secolare. Solo che la tentazione, attualmente, è quella – come avviene per il laicismo, così per il secolarismo – è il tentativo di espungere da questo mondo, da questa città qualsiasi segno, qualsiasi vessillo, qualsiasi emblema, qualsiasi simbolo ma soprattutto qualsiasi valore che appartenga alla dimensione spirituale, alla dimensione profonda, religiosa, ma anche etica in senso lato, riconducendoci invece ad etiche più semplici e più immediate. Ecco, allora, la necessità di far sì che questa città abbia ancora la voce dello spirito che risuoni, e questa voce dello spirito deve risuonare nella piazza, nelle strade, cioè nel groviglio delle vicende quotidiane e non soltanto nel silenzio aureolato di incenso, nella pacata serenità del tempio, dove pure ha il suo ambito privilegiato.

D. – Alla fine, alla luce delle considerazioni che lei ha fatto: come comunicare oggi il Vangelo?

R. – Questa è la grande sfida, come si suol dire adesso, perché un mondo che non è più abituato alle grandi parole, alle parole fondamentali, che non è più abituato alle grandi domande che artigliano la coscienza, che non è più abituato anche a giudicare in maniera rigorosamente etica i propri comportamenti, far risuonare la parola forte dell’Evangelo e della Bibbia è indispensabile – io credo – proprio come scotimento, come una sorta quasi di provocazione. Purtroppo, però, esiste un percorso molto arduo da fare che è quello, prima di tutto, di ritrovare il linguaggio, un linguaggio che sia adatto a questo mondo secolare, e dall’altra parte, far sì che queste parole siano pronunciate nell’interno dei problemi dell’Uomo, non siano cioè considerate semplicemente come un messaggio trascendentale, non nel senso di trascendente, cioè che ci supera, ma semplicemente nel senso di astratto, che ci invita a decollare dalla realtà verso cieli mitici e mistici. La Parola di Dio è, come dice la Bibbia stessa, un seme, è come pioggia che può fecondare tante volte i deserti della banalità, della superficialità, del secolarismo contemporaneo.

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