4 marzo 2008
Spe salvi, il teologo protestante Jürgen Moltmann e Mons. Bruno Forte si confrontano sull'enciclica del Papa
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Spe salvi: Dialogo tra teologi
JÜRGEN MOLTMANN
Il Dio della speranza è quello che riscatta gli oppressi qui e ora
di Jürgen Moltmann
Se si confronta l’Enciclica sulla speranza di Benedetto XVI con la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, la sua peculiarità risulta subito evidente: essa è intesa all’interno della Chiesa, è rivolta in senso pastorale ai vescovi della Chiesa cattolica romana e a «tutti coloro che credono in Cristo».
Essa limita la speranza cristiana ai fedeli e li separa da quelli che nel mondo «non hanno alcuna speranza». La Gaudium et spes inizia con l’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana»: «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». La Gaudium et spes indaga perciò sui problemi dell’umanità del mondo di oggi, quali la dignità e i diritti umani, la pace e la costruzione di una comunità di popoli. Nulla di questo si ritrova nell’Enciclica. Il «mondo», come «mondo senza Dio» è solo «un mondo senza speranza».
L’Enciclica non inizia con la solidarietà di Cristo con tutti gli uomini, e nemmeno con l’obiettivo, l’universale «Dio della speranza» (Rm 15, 13), ma soggettivamente ed ecclesialmente con «noi»: «Siamo salvati dalla speranza» noi e non gli altri, la Chiesa e non il mondo. In questo modo si vuole acuire la differenza tra credenti e non credenti, o diversamente credenti: noi abbiamo la speranza, gli altri non hanno alcuna speranza (par. 3, 5, 23, 27 e altrove). Il primo esempio di Bakhita, la santa africana vissuta nel XIX secolo, più che della forza della fede è un esempio della certezza della speranza. Lo stesso vale per il martire vietnamita Paul Le-Bao-Thin (37).
Per quanto riguarda il noto punto della Lettera agli Ebrei 11,1 –«La fede è una certa fiducia delle cose che si sperano..», il Papa ci fa conoscere il suo concetto di ipostasi, che egli traduce con substantia: «La fede è l’ipostasi delle cose che si sperano». Che significa: il presente del futuro. Il che non è certamente sbagliato. Ma perché collegarlo con un’autocritica protestante, citando l’esegeta evangelico H. Köster: «[…] Non può più essere messo in dubbio che questa interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile»? Si sarebbe potuto consultare Lutero o anche Calvino, oppure le opere sulla Lettera agli Ebrei degli stessi ex-colleghi di Ratzinger a Tubinga Otto Michel e Ernst Käsemann.
Se partiamo dalla resurrezione oggettiva di Cristo, non costituisce un problema il pensare al presente del futuro. Se però si afferma che la fede equivale alla speranza e la speranza equivale alla fede, si presenta il problema la cui soluzione viene proposta qui.
L’Enciclica affronta in modo apologetico la moderna accusa secondo cui la speranza cristiana è «individualistica» (13-15), definendo la speranza «comunitaria». La salvezza è stata sempre considerata come una «realtà comunitaria» (14). «Questa visione della 'vita beata' orientata verso la comunità mira, sì, a qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo» (15).
Obiettivo e futuro della speranza cristiana, secondo l’Enciclica, è la beatitudine della vita eterna. La via che conduce ad essa viene definita come quella «condizione intermedia» che si chiama anche purgatorio, e la porta che vi conduce viene definita come «primo Giudizio».
Cosa manca? Non c’è un richiamo sufficiente al Vangelo del Regno di Dio, al messaggio del dominio del Cristo Risorto sui vivi e sui morti e sull’intero cosmo, che troviamo nell’Apostolo Paolo, alla «resurrezione della carne» e «la vita del mondo che verrà», come pronunciata nelle professioni di fede, alla redenzione della creatura implorante (Rm 8) e alla speranza del nuovo mondo, nel quale abita la giustizia (1 Petr 3, 13); in breve, alla speranza della grande promessa di Dio, che dice: «Ecco , faccio ogni cosa nuova» (Apocalisse 21, 5). Aggiungerei gli orizzonti di speranza per la creazione, per questa terra, per l’umanità - e sulla venuta stessa di Dio.
Si potrà qui obiettare che l’Enciclica si occupa dell’antropologia della fede e della speranza, non della teologia della speranza. Ma se si limita la speranza alla beatitudine dell’anima nella vita eterna, decadono anche le promesse profetiche dell’Antico Testamento. E la speranza cristiana difficilmente si distingue dalla religione gnostica della redenzione.
L’Enciclica passa poi criticamente all’attacco della «trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno» (16-23). Senza far riferimento all’Enciclica Populorum Progressio, critica la fede nel progresso del mondo moderno, a partire da Francesco Bacone, come smania umana di grandezza. Dato che il disastro europeo della prim a e della seconda guerra mondiale ha già messo fine a tale vecchia fede nel progresso, la critica del Papa rischia di essere l’assassinio di un cadavere.
Lo stesso vale per la critica alla «ragione» e alla «libertà», al «regno della ragione» dei tempi moderni ed alle moderne rivoluzioni della libertà, delle rivoluzioni civili e socialistiche. L’entusiasmo di Kant per l’Illuminismo viene rifiutato senza indagare sul feudalesimo e sull’iniquo assolutismo del suo tempo.
Anche al cadavere del marxismo viene poi attribuito un «errore fondamentale» (21). «Il suo vero errore è il materialismo» (21). Non si discute la sua dialettica e nemmeno le tesi di Marx su Feuerbach. «Egli ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male».
Tale tardo antimarxismo non può essere più semplice!
L’Enciclica fa propria l’«autocritica» del tempo moderno della Scuola di Francoforte di Adorno e Horkheimer, per dimostrare con la «dialettica dell’illuminismo» che «l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza» (23). Questo rischia di non convincere gli intellettuali del nostro tempo, poiché hanno già operato questa autocritica e non hanno necessità di una teologia al riguardo. Dietrich Bonhoeffer avrebbe detto: la teologia cristiana non ha nulla di proprio da offrire allo spirito del tempo moderno?
Aseguito del Vaticano II e in particolare della Gaudium et spes, negli anni sessanta i teologi cattolici ed evangelici grazie alla Paolus-Gesellschaft sono entrati nel dialogo cristiano-marxista. Abbiamo avvicinato la grazia ai marxisti umanisti, in rapporto al male, e la speranza di resurrezione in vista della morte. Milan Machovec e Roger Garaudy hanno compreso molto bene il deficit delle speranze immanenti della modernità, mentre noi abbiamo compreso la loro passione per la liberazione degli oppressi e per la giustizia per gli umiliati.
La Teologia della speranza del 1964 e la Teologia della liberazione del 1971 sono nate dall’analisi critico-cooperante della situazione dell’epoca moderna. La Teologia politica ha rappresentato il contesto globale dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana». Il fatto che «un mondo senza Dio» sia «un mondo senza speranza», detto con questa semplicità può essere empiricamente frainteso: un mondo con Dio è, empiricamente, un mondo in cui possono esistere la rassegnazione e il terrore in nome di Dio.
Dipende dal Dio di Israele e da Gesù Cristo, dal Dio della Resurrezione e del futuro Regno sulla terra.
Solo questo Dio è il «Dio della Speranza». Solo lui «è colui che viene» (Apocalisse 1, 8).
È bene che l’Enciclica indichi i «luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza (3248). Innanzitutto la preghiera viene indicata come «scuola della speranza». Questo è certamente importante, ma la preghiera è allo stesso tempo anche la scuola della fede. Che cosa aggiunge la fede alla preghiera? Il vegliare.
La chiamata alla preghiera nel Nuovo Testamento è sempre collegata con il richiamo al risveglio.
Nella tentazione nell’orto del Getsemani, ai discepoli che dormono Gesù chiede soltanto: «Non potete vegliare un’ora con me?» (Marco, 14, 34). «Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione». La preghiera è sempre collegata con il risveglio per il mondo di Dio e il risveglio di tutti i sensi. Essere svegli e attenti, vegliare ed attendere, vegliare e vedere sono sempre correlati alla fede cristiana nel Messia.
Pregando noi ascoltiamo e parliamo, stando svegli apriamo gli occhi e tutti i sensi alla venuta del Signore nella nostra vita e nel mondo. La preghiera con Cristo fa parte della spiritualità dei sensi vigili, affinché possiamo «vedere» Cristo nei poveri, nei malati e nei prigionieri (Matteo 25, 37). La veglia è il luogo di apprendimento della speranza.
Come secondo luogo della speranza vengono indicati l’«agire e soffrire della speranza». Questo è certamente corretto, ma si tratta sempre dell’agire e soffrire della resistenza contro i vizi dell’uomo e le forze della morte. «Resistere», scrisse Marie Durand nel Tour de la Constance a Aigues-Mortes, dove fu incarcerata per 38anni per la sua fede evangelica. Non tutte le sofferenze sono sofferenze piene di speranza. La partecipazione alla sofferenza di Dio nel mondo è la sofferenza messianica: se soffriamo come Cristo, risorgeremo con Lui.
L’Enciclica cita infine anche il «Giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza». Anche questo non è certo sbagliato, ma vorrei riportare lo sguardo dalla fine all’inizio. Il luogo di origine della speranza è la nascita, non la morte. La nascita di una nuova vita è motivo di grande speranza. E quando i morti sono risorti, entrano nella realizzata speranza di vita. Il luogo di apprendimento della speranza nella vita è pertanto il poter iniziare e il nuovo inizio, la vera libertà. I sensi risvegliati dalla speranza e la ragione da essa illuminata esplorano le possibilità che si aprono a noi ad ogni nuovo inizio. Al senso di realtà dell’amore, la speranza affianca il senso di possibilità del cambiamento.
Chi è secondo la tradizione biblica il Dio della Speranza?
Papa Benedetto XVI chiude con un inno a Maria, la serva umile e fedele del Signore, divenuta madre di tutti i fedeli, e la chiama «Madre della Speranza». Ma nella Bibbia c’è anche l’altra Maria, che gioisce di Dio, del suo Redentore: Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1, 48-54) Essa riprende il canto di Anna (2 Sam 22) lodando il Dio rivoluzionario dei Profeti, che Martin Luther King ha citato nel suo sogno del 1963 a Washington: Preparate la via del Signore.
Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in pianura.
Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà (Is. 40, 3-5).
Paolo vede questo Dio operare nella comunità di Cristo: Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, Chi si vanta si vanti nel Signore (1 Cor. 1, 26) Il Dio, che rende giustizia a coloro che soffrono la potenza, il Dio che ha risvegliato il Gesù umiliato e crocifisso, questo è il Dio della Speranza per Maria, per i Profeti e per gli Apostoli.
© Copyright Avvenire, 2 marzo 2008
BRUNO FORTE
La salvezza non è solo emancipazione: è dono e grazia da accogliere
di Bruno Forte
Jürgen Moltmann è autore di quella Teologia della speranza (1964), considerata una delle opere miliari della teologia contemporanea, anche per la capacità di interpretare le inquietudini e le attese dell’epoca della ricostruzione postbellica e dell’'età dell’oro' (Eric Hobsbawm) delle grandi 'modernizzazioni', realizzate nelle società avanzate dell’Occidente: la stessa epoca in cui fiorì nella Chiesa cattolica la primavera di speranza del Concilio Vaticano II. È perciò di tutto rilievo il fatto che questo Teologo evangelico abbia voluto dedicare un’attenzione speciale all’Enciclica di Benedetto XVI sulla speranza: segno della decisiva rilevanza del tema e delle sfide a cui esso risponde e che al tempo stesso solleva, in particolare per quanti hanno a cuore la testimonianza cristiana nel mondo d’oggi, a prescindere dalle diverse appartenenze confessionali.
Sul piano personale sono legato a Moltmann da un’antica consuetudine ed amicizia: che la mia ricerca teologica sia convergente su molti punti con le Sue posizioni, non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo. È peraltro lo stesso Moltmann che – nel volume intitolato Nella storia del Dio trinitario (originale tedesco 1991) –, così si esprime: «Pare che il pensiero trinitario si muova in orbite eterne e al pari delle dossologie liturgiche ami le ripetizioni. Il pensiero storico invece a partire dall’età moderna presenta un andamento lineare... A mediare le due prospettive interviene un ribaltamento della Trinità storico-salvifica in una storia della salvezza concepita in chiave trinitaria... Il teologo italiano Bruno Forte, muovendosi nella tradizione del pensiero storico dell’Italia meridionale... vede la Trinità come storia sviluppando una concezione trinitaria della storia che rimanda alla 'patria trinitaria' (1 Cor 15,28). Io mi sento molto vicino a queste posizioni» (traduzione italiana: Brescia 1993, 19s).
È dunque con l’attenzione dell’amico, oltre che con il rispetto del teologo e la sensibilità del pastore, che ho esaminato i rilievi mossi da Moltmann all’Enciclica di Benedetto XVI Spe salvi: le risposte che avanzo intendono approfondire il dialogo, non certo contrapporre interpretazioni, anche perché la diversità di alcuni giudizi non mi sembra debba significare inconciliabilità delle posizioni.
I rilievi del Teologo di Tubinga possono essere raccolti in quattro punti fondamentali, relativi rispettivamente ai destinatari dell’Enciclica, agli scenari culturali con cui essa entra in dialogo, all’idea teologica di speranza e ai luoghi in cui è possibile 'imparare a sperare' nella sequela di Gesù. A chi è destinata l’Enciclica? Per Moltmann la risposta è evidente: a chi è già dentro la Chiesa. Starebbe qui la differenza decisiva d’impostazione con i testi del Vaticano II: «Se si confronta l’Enciclica sulla speranza di Benedetto XVI con la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, la sua peculiarità risulta subito evidente: essa è intesa all’interno della Chiesa, è rivolta in senso pastorale ai vescovi della Chiesa cattolica romana e a 'tutti coloro che credono in Cristo'. Essa limita la speranza cristiana ai fedeli e li separa da quelli che nel mondo 'non hanno alcuna speranza'».
Stanno veramente così le cose? A me non pare: che una lettera enciclica del Papa sia rivolta in prima battuta a coloro di cui egli è Pastore e Padre universale, appartiene al genere letterario usuale di questo tipo di testi.
Il fatto stesso, però, che Benedetto XVI dialoghi a tutto campo con le grandi voci della modernità occidentale e della sua crisi, e citi a testimoni di speranza figure provenienti da continenti e culture diverse (come Suor Bakhita, la santa africana vissuta nel XIX secolo, o il martire vietnamita Paul Le-Bao-Thin, o il cardinale Van Thuan), rivela una destinazione più ampia e universale. Inoltre, lo sforzo che il Papa fa per cogliere gli aspetti positivi anche delle posizioni da lui non condivise, mi sembra più che un indizio a favore di una proposta rivolta a tutti, a largo raggio e con il solo desiderio di offrire ragioni su cui riflettere e confrontarsi tutti: valga il solo esempio di Marx, di cui l’Enciclica non esita ad affermare che «con puntuale precisione, anche se in modo unilateralmente parziale, ha descritto la situazione del suo tempo ed illustrato con grande capacità analitica le vie verso la rivoluzione – non solo teoricamente» ( Spe salvi, n. 20). Non si trascuri poi che la domanda sottesa a tutta l’Enciclica «Che cosa possiamo sperare?» è la domanda universale, quella su cui Kant imposta la sua Critica della ragion pratica, opera non certo destinata a una ristretta cerchia di eletti. Mi sembra infine che l’obiezione avanzata da Moltmann circa il «noi» dell’enciclica, se fosse fondata potrebbe essere rivolta allo stesso Paolo, l’apostolo delle genti, la cui vita è stata totalmente spesa al servizio della destinazione universale dell’evangelo: «L’Enciclica non inizia con la solidarietà del Cristo con tutti gli uomini, e nemmeno con l’obiettivo, universale 'Dio della speranza' (Rm 15, 13), ma soggettivamente ed ecclesialmente con 'noi': 'Siamo salvati dalla speranza', noi e non gli altri, la Chiesa e non il mondo». È proprio sicuro l’amico Moltmann che Romani 8,24 – da cui è tratta la citazione che dà il titolo all’Enciclica – escluda l’umanità non redenta? O non è vero forse che la testimonianza dell’essere salvati dalla speranza è resa – da Paolo, come da Benedetto XVI – con l’intento preciso che la buona novella raggiunga tutte le genti?
Con chi dialoga l’Enciclica? Per Moltmann, con una cultura morta e sepolta, quella della modernità europea. L’Enciclica – egli scrive – va «criticamente all’attacco della 'trasformazione della fede-speranza cristiana nel tempo moderno'...
Critica la fede nel progresso del mondo moderno, a partire da Francesco Bacone, come smania umana di grandezza. Dato che il disastro europeo della prima e della seconda guerra mondiale ha già messo fine a tale vecchia fede nel progresso, la critica del Papa rischia di essere l’assassinio di un cadavere… Anche al cadavere del marxismo viene poi attribuito un 'errore fondamentale'…». Come il capo dei Fiorentini davanti al suo uccisore alla battaglia di Gavinana (1530), Bacone, Marx e molti altri avrebbero dunque ragione di gridare a Papa Benedetto: «Tu uccidi un uomo morto!». Stanno però veramente così le cose? A me sembra di no. Ciò che il Papa teologo vuole richiamare è il confronto epocale fra due concezioni antitetiche di ciò che possiamo sperare: «redenzione» o «emancipazione»?
La salvezza sperata è un fiore della terra che spunterà esclusivamente grazie alla fatica dell’uomo, o è dono dall’alto, certamente preparato e atteso, e tuttavia sempre sorprendente e irriducibile a un calcolo puramente umano? La risposta a questi interrogativi è data dall’intera parabola dell’età moderna: una speranza umana, troppo umana, non ha prodotto maggiore libertà, uguaglianza e fraternità.
Come dimostrano le avventure ideologiche, di destra come di sinistra, la speranza affidata al solo portatore umano è sfociata nell’inferno dei totalitarismi, dei genocidi e delle solitudini, in cui l’altro è stato ridotto ad avversario da eliminare o a semplice «straniero morale» da ignorare.
Non diversamente la tecnica e la scienza si sono rivelate fallaci nelle loro pretese assolute: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» ( Spe salvi, n. 22). E non ci vuole molto a constatare come questa fede nel progresso legata alla tecnica sia tutt’altro che scomparsa dalla cultura del nostro presente, allo stesso modo in cui rigurgiti ideologici si lasciano riconoscere facilmente da tutte le parti. Qui mi sembra che Benedetto XVI si mostri interprete più fine e profondo della contemporaneità di quanto Moltmann non abbia colto. E la Sua conclusione – contraria non alla scienza, ma ad ogni scientismo, che altro non è se non una ideologia della scienza – mi pare non possa non essere condivisa anche dal Teologo evangelico della speranza: «Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore. Ciò vale già nell’ambito puramente intramondano. Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di redenzione che dà un senso nuovo alla sua vita» ( Spe salvi, n. 26).
Che cos’è dunque la speranza? Nella lettura di Moltmann l’Enciclica risponderebbe a questa domanda limitandosi a indicare come contenuto della speranza la vita eterna, sia pur con un recupero della dimensione comunitaria trascurata da una certa pietà del passato: «Non c’è un richiamo sufficiente al Vangelo del Regno di Dio, al messaggio del dominio del Cristo Risorto sui vivi e sui morti e sull’intero cosmo, che troviamo nell’Apostolo Paolo, alla 'resurrezione della carne' e 'la vita del mondo che verrà', come pronunciata nelle professioni di fede, alla redenzione della creatura implorante (Rm 8) e alla speranza del nuovo mondo, nel quale abita la giustizia (1 Petr 3, 13)». In realtà, a me sembra che nulla di tutto questo sia escluso nel testo dell’Enciclica: solo che il modo di arrivare alle stesse conclusioni passa nella riflessione del Papa attraverso una «concentrazione cristologica». La speranza non è qualcosa che possiamo creare e gestire con le nostre sole forze, o semplicemente un effetto indotto sulle creature dall’evento Cristo: la speranza è anzitutto questo stesso evento, è Lui che viene a noi, trascendente e sovrano, libero e liberante per noi, Gesù, il Crocifisso Risorto. Solo nella Sua luce, la speranza cristiana è tale per il mondo e per ogni creatura o situazione umana.
Paradossalmente, la critica di Moltmann sembra capovolgere le posizioni tradizionali del dialogo cattolico protestante: il Teologo evangelico sottolinea il valore dell’umano, della speranza mondana e storica, criticando il Papa, responsabile a suo avviso di ridurre la speranza alle cose ultime e al mondo dell’avvento, alla sola opera della grazia donata dall’alto. Ora, è senza dubbio vero che per l’Enciclica un amore umano «non risolve, da solo, il problema della vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte.
L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato» ( Spe salvi, n. 26). La salvezza non è semplice emancipazione. È dono. È grazia da accogliere, a cui aprirsi, oltre ogni calcolo e misura: «La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa... Essa attira dentro il presente il futuro» ( Spe salvi, n.
7). Tuttavia, se per chi crede sperare vuol dire tirare nel presente degli uomini l’avvenire di Dio, vuol dire anche sperimentare in noi stessi il dono dell’atteso nuovo giorno, che nessuna forza mondana da sola è capace di generare. Lungi dall’essere evasione consolatoria, questa speranza della fede cambia il cuore e la vita e penetra la storia dal di dentro come forza di trasformazione culturale e sociale: lo dimostrano le stesse testimonianze che il Papa sceglie, perché parlino a partire proprio dall’eloquenza della loro umiltà e dalla loro esemplarità per il vissuto di tutti.
Dove apprendere a sperare? I luoghi di apprendimento della speranza sono indicati dall’Enciclica in tre percorsi: la preghiera; la disponibilità a pagare un prezzo d’amore per realizzare la speranza, soprattutto al servizio di chi soffre; il riferimento al giudizio di Dio, misura di verità e di giustizia per ogni scelta e sorgente di senso e di bellezza per il cuore che l’accoglie.
Moltmann si trova fondamentalmente consenziente con questa triplice scelta, anche se tiene a sottolineare della preghiera il carattere di «veglia» e del giudizio il suo riferimento non solo al futuro, ma anche all’origine, alla nascita stessa della vita. Le differenze d’accento non oscurano un consenso profondo: tanto il Teologo evangelico, quanto il Papa ci testimoniano come per imparare a sperare, analogamente a quanto avviene per imparare ad amare, occorre mettersi in gioco con tutta la vita. «Dio entra veramente nelle cose umane solo se non è soltanto da noi pensato, ma se Egli stesso ci viene incontro e ci parla» ( Spe salvi, n.23). Nulla di più lontano dall’apprendere la speranza del Vangelo, che l’atteggiamento della fiducia nella capacità di salvarsi da soli: per Moltmann, «se si limita la speranza alla beatitudine dell’anima nella vita eterna», e dunque a una sorta di compimento delle attese soggettive, «la speranza cristiana difficilmente si distingue dalla religione gnostica della redenzione». La scuola della speranza teologale è la scuola delle fede che accoglie l’avvento di Dio: «La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà… già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una 'prova' delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro 'non-ancora'. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e queste in quelle» ( Spe salvi, n.8). Questa era anche la tesi centrale di Teologia della speranza: «L’escatologia cristiana parla di Cristo e del suo futuro. Il suo linguaggio è il linguaggio della promessa. Essa intende la storia come la realtà inaugurata dalla promessa. Nella promessa e nella speranza presente, il futuro della promessa, che non si è ancora realizzato, si trova in contraddizione con la realtà data. In questa contraddizione si fa l’esperienza della storicità del reale sulla linea del fronte che divide il presente dal futuro che è stato promesso. La storia, con le sue estreme possibilità e pericoli, viene rivelata nell’evento promissorio della risurrezione e della croce di Cristo» (229).
Dunque, discordia concors.
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