21 marzo 2008
La cena pasquale, cuore della preghiera eucaristica: "Corpo dato, Sangue sparso" (Osservatore)
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La cena pasquale, cuore della preghiera eucaristica
Corpo dato, Sangue sparso
L'opera creatrice di una parola
di Inos Biffi
L'Eucaristia nasce all'Ultima Cena - "nella notte del tradimento del Signore" - per una iniziativa che appartiene tutta e soltanto a Cristo. È lui che, inattesamente, dichiara e offre da mangiare, come suo "Corpo dato", il pane, e da bere, come suo "Sangue sparso", il vino.
Grazie a quel gesto e alla potenza di quelle parole - le stesse che erano state al principio dei suoi miracoli - gli apostoli in quel momento già ricevono da Gesù, nel modo del convito, il sacrificio di se stesso, che, come Agnello di Dio, vero e definitivo, egli stava per consumare sul Calvario, avverando l'intenzione profonda degli antichi sacrifici, ormai oltrepassati.
Nel banchetto pasquale, ardentemente desiderato prima del suo passaggio al Padre, Cristo portava a compimento il rito della prima Pasqua e istituiva la forma e la liturgia della Pasqua nuova, che gli apostoli ricevono il mandato di celebrare come suo memoriale.
I racconti neotestamentari dell'istituzione dell'Eucaristia, mentre attestano la fedeltà e l'obbedienza al comando di Cristo, nella loro stessa composizione letteraria mostrano come la Chiesa avesse compreso le parole "Fate questo in memoria di me": non ripetendo la cena ebraica, con la manducazione dell'agnello immolato al tempio, ma assumendo il "Corpo dato" del Signore e il suo "Sangue sparso" a segno e suggello dell'alleanza nuova.
L'Eucaristia non ripete l'immolazione della croce, quasi che la sua forza redentiva si ritrovi depauperata o logorata col passare del tempo e sia, quindi, bisognevole di essere in se stessa rinnovata. Cristo, col suo "sacerdozio che non tramonta", è morto "una volta per tutte, offrendo se stesso" (Ebrei, 7, 24-28), e la sua offerta sul Calvario ha ottenuto "una redenzione eterna" (Ebrei, 9, 12): lo scorrere del tempo non allontana e non rende remoto il sacrificio del Crocifisso, che in ogni età sovrasta e permane con la sua grazia esuberante.
A essere ripetuto nell'Eucaristia, secondo il comando del Signore, è invece quello che lui stesso ha fatto nell'Ultima Cena, e così a ogni memoriale, i suoi discepoli ricevono dalle sue mani, e per l'opera creatrice della sua parola, "il Corpo dato" e il "Sangue sparso". Come affermava il concilio di Trento, in un'epoca teologica che non aveva specialmente sviluppato la dottrina sulla Messa come sacrificio: "Una e identica è la vittima; e lo stesso è colui che - tramite il ministero dei sacerdoti - la offre ora e che offrì se stesso sulla croce allora; a essere diversa è la modalità dell'offerta", che non comporta il rinnovarsi cruento del sacrificio, ma la piena percezione e assunzione del suo valore.
L'ulteriore riflessione, recuperato l'antico significato di "sacramento", preciserà questa diversa modalità di offerta e insegnerà che nell'Eucaristia il sacrificio della croce è in atto nella forma sacramentale; ne seguirà la felice definizione della Messa, accolta dal Magistero, come "sacramento del sacrificio".
È sempre indispensabile - se non si vuole fraintendere l'Eucaristia - riportarsi alla sua genesi, ossia all'Ultima Cena, dove fin dal principio e da sempre la Chiesa attinge la sua coscienza eucaristica.
In essa si comprende originariamente chi ne sia l'"Autore"; chi continui a presiederla; che cosa in essa riceviamo; per quale "virtù" il pane e il vino divengano il corpo e il sangue di Cristo; da chi li riceviamo, e quale significato abbia il ministero della Chiesa.
Intanto osserviamo che cosa faccia Paolo, quando avverte nella comunità cristiana di Corinto un comportamento che annebbia il significato della "Cena del Signore" e ne compromette l'inconfondibile identità, in qualche modo equiparandola con le cene abituali "nelle case": riporta i suoi fedeli puntualmente al tempo, al luogo e all'iniziativa da cui quella Cena è nata, ossia alla sua istituzione da parte di Gesù Cristo: "Io ho ricevuto dal Signore - scrive l'apostolo ai Corinzi - quello che vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui era consegnato, prese del pane e, reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, quello per voi. Fate questo in memoria di me". Allo stesso modo, prese anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"" (1 Corinzi. 11, 23-25).
Ricollocata l'Eucaristia nella sua istituzione iniziale ed esemplare, appare anzitutto chi ne sia l'autore, cioè "il Signore Gesù": essa proviene da lui, che liberamente consegna se stesso. In ogni Messa importa assolutamente sottolineare questa "precedenza" e questo primato di Cristo, con la sua scelta di dedizione che previene ogni attesa e ogni possibilità della Chiesa. Ogni convito eucaristico è il sacramento di quella iniziativa: in esso Gesù fa ritrovare fedelmente e puntualmente alla sua Chiesa quello stesso amore che "nella notte del tradimento" raggiunse la sua consumazione. Tutte le cene della Chiesa valgono perché sono presiedute da lui, che prosegue quella prima dedizione sacrificale.
Ugualmente, a lui risale ogni volta la conversione eucaristica. Come gli apostoli non mangiano più semplicemente del pane e non bevono più soltanto vino, unicamente per il fatto che Cristo li ha dichiarati e li ha distribuiti come proprio Corpo e proprio Sangue, così la Chiesa li riceve sempre per il rinnovarsi, in ogni eucaristia, della medesima "dichiarazione" del Signore. Se questa visibilmente è fatta dal ministro che, in unione con la Chiesa, presiede l'Eucaristia, in realtà questi opera a nome e in virtù di Cristo - in persona Christi - al quale si riconduce sempre e assolutamente la conversione.
Definendo che la "forma" dell'Eucaristia sono le parole: "Questo è il mio corpo" e "Questo è il mio sangue", il concilio tridentino non ha fatto che riferirsi alla sua genesi nell'Ultima Cena, dove questo Corpo e questo Sangue incominciarono a essere disponibili grazie alla determinazione e all'affermazione di Gesù Cristo, che ha attestato tali la "materia" del pane e del vino.
Si va spesso ripetendo che le definizioni di Trento sulla "materia" e la "forma" dei sacramenti provengono da una mentalità giuridica; che il risalto specifico del sacerdozio gerarchico rivela il prevalere della concezione della Chiesa come "istituzione" e non come "mistero" e "comunione": ma non è per niente vero.
Siamo di fronte, con linguaggio differente, alla semplice Tradizione ecclesiale, dove il pane e il vino sono ricevuti come Corpo e Sangue di Cristo, in forza della "prece eucaristica" legata a quanto è avvenuto nell'Ultima Cena, e dove la celebrazione, perché questo avvenga, viene presieduta non indistintamente da tutta la comunità, ma da chi ha ricevuto l'ordine episcopale o presbiterale.
In particolare, si fa notare che i termini e i concetti di "materia", di "accidenti", di "forma" derivano dalla filosofia scolastica: e questo è vero; solo che, a un'attenta riflessione, appare chiaramente che, con quel linguaggio culturalmente datato, si è inteso rendere radicalmente il contenuto dell'istituzione.
La "forma" significa l'essenziale riferimento dell'Eucaristia a Cristo, e, in certo modo, la permanenza delle sue parole, che l'hanno creata allora e continuano a crearla ora. E proprio per questa relazione esse non hanno un valore "magico", come si va da diverse parti e vanamente ripetendo: la loro efficacia proviene tutta dal fatto che a pronunziarle è ancora Gesù "qui, adesso" attraverso il ministero del sacerdote; le parole del ministro valgono non come una formula materialmente proferita, ma perché esse sono sempre il sacramento delle stesse parole del Signore, che in tutte le eucaristie prende il pane, rende grazie, lo spezza, e "dice": "Questo è il mio corpo, quello per voi"; così come prende il calice e afferma: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue".
È il "miracolo" ed è la grazia che si avverano in tutte le messe: dove ogni volta il pane e il vino - la "materia" - sono trasmutati nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo sacramentalmente elargiti dalle sue mani.
Essi sono sempre il frutto della sua signoria che non cessa mai di esercitare mediante il suo Spirito e mediante la collaborazione del ministero, in cui quella signoria è sacramentalmente ripresentata.
Solo con questi riferimenti al rito eucaristico esemplare - l'Ultima Cena - si può, quindi, comprendere l'Eucaristia e, sul suo modello, tutti gli altri sacramenti.
Indubbiamente, la Chiesa non si limita a ricevere passivamente il Corpo e il Sangue di Cristo. Nel fare memoria di quello che egli ha compiuto - secondo il suo mandato: "Fate questo in memoria di me" - essa esprime attivamente la pienezza della sua fede in lui, la sua amorosa obbedienza e dedizione, la sua volontà di condividere lo stesso estremo destino di Gesù, di prendere parte al suo unico sacrificio, e di riconoscerlo come il proprio sacrificio, da offrire - in lui e associata con lui - al Padre. Mangiando in ogni messa "il Corpo dato" e bevendo "il Sangue sparso", la Chiesa li presenta al Padre, quali "ostia pura, ostia santa, ostia immacolata", come splendidamente afferma il primo canone.
Così, istituendo nell'Ultima Cena il sacramento del suo sacrificio e chiamando i suoi apostoli a condividerlo nel convito, Gesù "istituisce" per ciò stesso il sacrificio della Chiesa.
Da qualche parte, in maniera teologicamente poco equipaggiata e poco avveduta, si va insegnando, anche rifacendosi al linguaggio di anafore non occidentali, che l'Eucaristia non è sacrificio ma solo rendimento di grazie, e che in tale rendimento di grazie si risolve il carattere sacrificale della Messa.
Senonché si dimentica sia che un tale rendimento di grazie da parte della Chiesa ha un carattere "sacramentale", ossia è un memoriale in cui si ripresenta ed emerge realmente il sacrificio della croce, sia che in quel linguaggio eucaristico memoriale e sacrificio si includono.
Possiamo, ora, riassumere quanto abbiamo fin qui affermato, con alcune proposizioni della Congregazione per la dottrina della fede (30 novembre 2000): "La Chiesa è certa nella fede che Cristo stesso - come narrano i Vangeli e san Paolo per tradizione apostolica - nella cena prima della sua passione consegnò ai discepoli sotto le specie del pane e del vino il suo corpo e il suo sangue ed istituì così l'Eucaristia, che veramente è il suo proprio dono alla Chiesa di tutti i tempi".
"È fede della Chiesa che Cristo nell'ultima cena ha offerto il suo corpo ed il suo sangue - se stesso - a suo Padre e ha dato se stesso da mangiare ai suoi discepoli sotto i segni del pane e del vino". "Il sacerdote ministeriale "con la potestà sacra di cui è investito" compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo". "Lo Spirito Santo per mezzo del sacerdote consacrato e le parole di Cristo da lui pronunciate rendono presenti il Signore ed il suo sacrificio".
"Non per suo potere e non per un incarico umano, ad esempio da parte della comunità, ma solo in forza della potestà data dal Signore nel sacramento la preghiera del sacerdote può invocare efficacemente lo Spirito Santo e la sua forza trasformante. La Chiesa definisce questa azione orante del sacerdote una azione in persona Christi".
E, infatti, alla consacrazione eucaristica, insieme con la "potestà" del Signore, concorre l'opera dello Spirito Santo: tutte le azioni salvifiche di Cristo, compreso il suo sacrificio, sono avvenute e avvengono nello Spirito.
La transustanziazione si compie, perciò, ogni volta per la volontà di Gesù, che - sempre in unione con il suo Spirito, quand'anche questo non sia esplicitato - proclama suo Corpo il pane e suo Sangue il vino.
È evidente, a questo punto, quanto importi far risaltare nell'anafora il valore non solo "recitativo", ma, per così dire, "creativo" della narrazione dell'istituzione. Certamente questa narrazione non va isolata dal tessuto dell'intera anafora, dal momento che non ne esaurisce tutta la ricchezza e non la sostituisce semplicemente.
E tuttavia, in quanto ci riporta all'Ultima Cena, dove l'Eucaristia è nata e ha preso avvio per comando del Signore, la narrazione dell'istituzione costituisce il "principio" dell'anafora stessa, non solo per il suo carattere informativo, ma per la sua funzione che abbiamo chiamato "creativa".
Secondo la dottrina di fede definita dalla Chiesa nel concilio di Trento, e secondo l'indicazione delle norme pratico-liturgiche tradizionali, la transustanziazione - poiché di questo si tratta - non avviene "diffusamente" nella prece eucaristica, come frutto dell'insieme dell'anafora, in un'ignoranza invincibile di quando essa si compia di preciso.
Le affermazioni tridentine sulla "forma" dell'Eucaristia non hanno, poi, perduto per nulla la loro pertinenza e il loro valore rigoroso, né sono diventate precarie e discutibili per il riconoscimento - che certo pone qualche delicato problema da risolvere con seria competenza teologica - della validità d'antiche anafore dove non si ritrovino espressamente il racconto e le parole dell'istituzione.
Anche in queste anafore è operativamente in atto la coscienza che quanto si sta compiendo risale all'istituzione eucaristica dell'Ultima Cena; che si sta obbedendo al mandato di Cristo; e che per l'azione dello Spirito invocato si riceve esattamente il Corpo e il Sangue di Gesù elargiti agli apostoli in quella stessa Cena.
Questo va detto con buona pace di quei liturgisti che sono affetti da "formofobia" eucaristica - avversione alla "forma" - e che non di rado sono dotati del carisma di capire le cose solo una alla volta. Avendo, per esempio, inteso che l'anafora, giustamente, non va sbriciolata, ma considerata come un insieme dai molteplici e preziosi significati, essi contestano la dottrina sul rilievo e sull'efficacia della "forma" e misconoscono la portata singolare della narrazione dell'istituzione, col risultato, in realtà, di non capire più né le varie articolazioni dell'anafora, né, ultimamente, la stessa Eucaristia.
Così, appare più volonterosa che illuminata la preoccupazione dei pastori d'anime coltivati che, godendo anch'essi del carisma di capire le cose solo una alla volta, proibiscono fieramente - quasi fosse un sacrilegio - qualsiasi segno speciale che avverta i fedeli del mirabile momento della consacrazione.
(©L'Osservatore Romano - 20-21 marzo 2008)
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