14 marzo 2008
Monsignor Faraj Rahho: "Il martire dei dimenticati". Il dolore del Papa (Eco di Bergamo)
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Il martire dei dimenticati
Andrea Valesini
La Chiesa cattolica ha un nuovo martire. L'arcivescovo caldeo di Mosul è la vittima più recente di un odio che nella storia ha immolato testimoni di Cristo sull'altare delle più diverse ideologie. Ma non si può consegnare semplicemente l'omicidio di monsignor Faraj Rahho a questa evidenza. Siamo infatti di fronte a una tragedia che svela alcuni fatti dei quali è utile prendere coscienza. Innanzitutto ci dice che l'Iraq non è sulla via di una vicina pacificazione. La riduzione degli attentati e del numero delle vittime rispetto a un anno fa è – come ha precisato lo stesso Pentagono nei giorni scorsi – «un progresso reversibile perché Al Qaeda e gli insorti restano una minaccia costante». L'anarchia imperversa in molte aree in mano a bande armate di diversa natura. Mosul è una di questa: il 90% della città è oggi fuori controllo. Qui si va consumando una vera e propria persecuzione ai danni della minoranza cristiana che altrove nel Paese è almeno sopportata. Nella roccaforte sunnita solo nel 2007 sono stati uccisi 13 cristiani (tra i quali padre Ragheed Gani, segretario di Rahho), due preti e un altro vescovo rapiti, alcune chiese colpite da ordigni o autobombe. Prima dell'inizio della guerra nel 2003, a Mosul vivevano 90 mila cristiani, una presenza cresciuta negli anni scorsi con l'afflusso di famiglie da Bagdad. Ma anche la violenza ha seguito lo stesso percorso e oggi nella città sunnita la presenza dei cristiani si è ridotta a un terzo.
Kamikaze e rapimenti in Iraq colpiscono indiscriminatamente. Ma la piccola comunità (passata negli ultimi cinque anni dal 3 all'1% della popolazione: da 800 mila a 250 mila persone) è presa particolarmente di mira non solo perché accomunata erroneamente agli occupanti occidentali (il cristianesimo in Iraq è arrivato sette secoli prima dell'islam) ma perché più indifesa – non ha né milizie né importanti Stati protettori – e soprattutto portatrice di un'idea di bene comune che confligge con quella totalitaria dei terroristi di matrice islamica. Difenderne la presenza in Mesopotamia e in generale in Medio Oriente significa difendere la possibilità che in quella parte del mondo possa attecchire davvero una forma di democrazia declinata localmente e di pluralismo.
Ma di questa evidenza l'Occidente non si cura, con tutti i rischi che possono conseguire all'oblio. «L'Iraq – diceva Rahho in una recente intervista – sotto un potere islamico e oscurantista sprofonderà nella povertà e nell'impotenza e i poteri internazionali potranno dominarlo meglio». Una frase che spiega molto il silenzio al quale il Paese dei due fiumi è stato consegnato. E che fa il paio con l'altra analoga pronunciata dall'arcivescovo latino di Bagdad, Jean Sleiman: «Psicologicamente abbiamo una chiara percezione di essere stati abbandonati. Forse politicamente c'è una volontà di incoraggiare una segregazione su base etnica che creerà regioni più o meno in conflitto. Quindi il pluralismo che si promuove a forza altrove, lo si sta trascurando o ostacolando in Iraq».
Monsignor Rahho è stato vittima anche di questa trascuratezza. Il tragico capitolo iracheno è diventato l'imbarazzo della diplomazia internazionale, messo al bando delle campagne elettorali (è successo in Spagna, sta succedendo in Italia). Sembra diventato una faccenda solo americana.
Nei giorni scorsi all'Unione europea è arrivato da Bagdad l'appello ad accogliere temporaneamente 60 mila profughi iracheni appartenenti a minoranze a rischio (in prevalenza cristiani) nelle aree dove hanno trovato un precario riparo. L'Ue ha risposto no. Tra quei 60 mila ci potrebbe essere il prossimo martire.
© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 marzo 2008
«Violenza disumana Ora pace per l'Iraq»
Il dolore del Papa per la morte del vescovo rapito Nessuna ferita sul corpo, trovato sotterrato a Mosul
Monsignor Paulos Faraj Rahho, il vescovo cattolico caldeo di Mosul, sequestrato il 29 febbraio scorso, è stato ritrovato senza vita ieri nella città del Nord dell'Iraq, dove era stato sotterrato dai rapitori.
Sul corpo dell'alto prelato – come ha riferito la televisione satellitare cristiana irachena Ishtar Tv e ha poi confermato monsignor Shlemon Warduni, l'ausiliare caldeo di Bagdad a cui i rapitori ieri mattina hanno segnalato il luogo dove avevano seppellito il corpo di Rahho – non sono state riscontrate tracce di violenza o ferite d'arma da fuoco.
«Morte per cause naturali»
Secondo quanto rivela AsiaNews, agenzia del Pontificio istituto missioni estere, dopo la biopsia dei medici legali sarebbe emerso che «il vescovo è morto di morte naturale», mentre fonti del patriarcato caldeo di Bagdad hanno affermato che monsignor Rahho (65 anni, già rapito e rilasciato tre anni fa) «secondo l'autopsia sarebbe morto da cinque giorni», forse a causa delle sue precarie condizioni di salute. I funerali di monsignor Rahho verranno celebrati oggi nel villaggio cristiano di Kremlesh, una decina di chilometri a Ovest di Mosul.
Della morte del vescovo, i rapitori hanno informato mercoledì con una telefonata la persona che – per conto della Chiesa caldea – era incaricata delle trattative per il rilascio, in cambio del quale, a quanto sembra, era stato richiesto il pagamento di un riscatto di un milione di dollari. Durante il sequestro erano stati uccisi l'autista e due guardie del corpo dell'alto prelato.
Maliki e bush
Nel messaggio di condoglianze inviato al cardinale Emmanuel III Delly, Patriarca della Chiesa caldea, il premier iracheno Nuri al-Maliki ha definito un «crimine brutale» la morte di monsignor Rahho, aggiungendo di considerarlo «un'aggressione che ha lo scopo di suscitare la sedizione tra le diverse componenti del popolo iracheno». Cordoglio è stato espresso anche dalla Casa Bianca, per un episodio che «dimostra la brutalità degli estremisti» e spinge l'amministrazione Bush ad esortare gli iracheni «a restare uniti sotto l'egida di una costituzione moderna, che protegge tutte le confessioni religiose».
Il dolore di Benedetto XVI
Poco dopo il ritrovamento del corpo di monsignor Rahho – per la cui liberazione il Papa aveva levato più volte la sua voce – il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha riferito ai giornalisti quanto la notizia avesse «colpito» e «addolorato profondamente» Benedetto XVI, che ha però tratto da questa vicenda spunto per un nuovo, accorato appello per un «futuro di pace» per il popolo iracheno.
«Purtroppo la violenza più assurda e ingiustificata – ha aggiunto il portavoce vaticano – continua ad accanirsi sul popolo iracheno e in particolare sulla piccola comunità cristiana, a cui il Papa e tutti noi siamo profondamente vicini nella preghiera e nella solidarietà in questo momento di grande dolore». Negli stessi momenti, in un telegramma di cordoglio inviato al patriarca caldeo di Bagdad, cardinale Emmanuel III Delly, il Papa ha espresso «la più decisa deplorazione per un atto di disumana violenza che offende la dignità dell'essere umano e nuoce gravemente alla causa della fraterna convivenza dell'amato popolo iracheno». Assicurando le sue preghiere «per lo zelante pastore sequestrato proprio al termine della celebrazione della Via Crucis», il Pontefice ha anche invocato che «questo tragico evento serva a costruire nella martoriata terra dell'Iraq un futuro di pace».
I vescovi: «Martirio»
Alle espressioni di dolore e al forte auspici di Papa Ratzinger si è poi associata la presidenza della Cei (Conferenza episcopale italiana) che ha parlato espressamente di «martirio» per monsignor Rahho, trovato morto dopo «l'inquietante rapimento di cui è stato vittima», con la speranza che questo martirio «sia seme di pace e di riconciliazione nella tormentata terra in cui l'indimenticato pastore è vissuto spendendosi completamente a beneficio di quella nobile popolazione».
«È una notizia scioccante che ci lascia senza parole. Siamo sgomenti», è stato il commento all'Osservatore Romano dall'arcivescovo Francis Assisi Chullikat, nunzio apostolico in Giordania e in Iraq, che descrive Rahho come «un uomo di pace e di dialogo, collante tra cristiani e musulmani. Ora il dialogo tra cristiani e musulmani deve andare avanti».
Da parte sua l'ambasciatore iracheno presso la Santa Sede, Edward Albert Yelda, ribadendo «l'immenso dolore» per la morte dell'arcivescovo, ha richiamato «la comunità internazionale al suo preciso impegno che è quello, ora più che mai, di non lasciare solo l'Iraq».
© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 marzo 2008
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