14 marzo 2008
Il cardinal Sandri «Mons. Rahho, un martire e uomo del dialogo» (Bobbio)
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Il cardinal Sandri «Un martire e uomo del dialogo»
Il vescovo era malato. C'erano stati contatti con i rapitori «Mi auguro non ci sia un disegno contro i cristiani»
nostro servizio
Alberto Bobbio
Città del Vaticano È affranto il cardinale argentino Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione delle Chiese orientali. Parla nel suo studio in Vaticano, mentre il telefono squilla in continuazione da Bagdad. Dall'altro capo del filo c'è il cardinale Emmanuel Delly III, patriarca di Babilonia dei Caldei, la Chiesa cattolica di rito caldeo che dipende dalla giurisdizione della Congregazione delle Chiese orientali. Sandri gli raccomanda di stare attento, di essere prudente. Chiude il telefono e dice: «Spero che il rapimento e la morte del vescovo Rahho non facciano parte di un tragico disegno contro la Chiesa cattolica».
Eminenza, chi era monsignor Rahho?
«Adesso è un martire, rapito e morto perché era vescovo, preso nel mezzo di chissà quali interessi. La Chiesa orientale ha perso un arcivescovo che è stato sempre vicino al suo popolo, un grande uomo di dialogo, uno che si è battuto contro ogni tentativo di far diventare il conflitto iracheno una guerra di religione».
Quando l'ha saputo?
«All'alba sono stato svegliato da una telefonata del patriarca Delly da Bagdad. Nella notte i rapitori avevano chiamato per annunciare la morte del vescovo e hanno indicato il luogo dove si trovava il corpo. Ho avvisato immediatamente il Papa».
C'erano stati contatti con i rapitori?
«Sì, ed è per questo che siamo ancora più addolorati. Avevamo cominciato a parlare con i rapitori, ma senza alcun successo. Non abbiamo potuto fare niente».
Avevate però qualche speranza?
«Abbiamo pregato molto per la salvezza di monsignor Rahho. Io era rimasto molto perplesso, circa una soluzione positiva, dinanzi alla violenza e alla furia disumane del rapimento. I terroristi hanno ucciso l'autista e due persone che erano con il vescovo prima di portarlo via. Ma non abbiamo perso la speranza e qualcosa sembrava fosse possibile dopo che i rapitori hanno cercato un contatto con la Chiesa. Ma temevamo molto per la salute del vescovo. Era malato ed eravamo consapevoli che non sarebbe stato facile per lui resistere alle dure condizioni di vita a cui certamente lo avrebbero sottoposto i rapitori».
Lei ha parlato con la famiglia del vescovo?
«Il giorno del rapimento ero ad Amman e alla Messa che celebravo nella chiesa latina della capitale giordana partecipava anche il fratello di monsignor Rahho, profugo cristiano iracheno come molti altri. La notizia è arrivata proprio durante la Messa».
C'erano già stati attacchi contro la Chiesa caldea a Mossul, con l'uccisione di un sacerdote e di alcuni seminaristi. Voi temevate un'escalation?
«Il rapimento e la morte del vescovo segnano un salto di qualità. Ma i cristiani iracheni sono nel mezzo di un infernale anello di lacrime e sangue che colpisce tutta la popolazione e che non fa differenza di religione. Certo, si confida sempre che non ci sia un disegno speciale contro i cattolici».
Sono cinque anni ormai dall'inizio della guerra in Iraq…
«E non si vede una soluzione. Sono andato con la memoria agli appelli di Giovanni Paolo II, quelle parole pronunciate dalla finestra su piazza San Pietro che scongiuravano a non cedere alla guerra. Oggi, cinque anni dopo, non vediamo ancora una formula, una proposta per arrivare finalmente alla pace. E tutti i richiami alla comunità internazionale, all'Europa, agli Stati Uniti, agli stessi iracheni cadono nel vuoto, mentre uomini delle tenebre uccidono impunemente la gente e anche un vescovo. Siamo al limite dell'impotenza, siamo quasi all'invettiva di Gesù nell'orto degli ulivi "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato". Dobbiamo però continuare a tessere il filo sottile del dialogo, ma soprattutto dobbiamo pregare».
La morte di monsignor Rahho assume un valore simbolico all'inizio della Settimana Santa?
«Certamente. Si aggiunge alla sofferenza di Cristo e completa la sua passione. Non dimentichiamoci che è stato ucciso nella terra di Abramo, quella che per prima ha sentito risuonare la parole di Dio. È una morte che aggiunge tormento alla Terra Santa».
Farà aumentare l'esodo dei cristiani?
«È quello che più ci preoccupa. Tutti noi vorremmo che i cristiani restassero nelle loro città. Ma è molto difficile dire a loro di restare. Manca la sicurezza, manca il lavoro, hanno case precarie, non sono sicuri nemmeno quando sono in chiesa. Rahho è stato rapito dopo una sparatoria avvenuta sul sagrato della chiesa, appena terminata la Via Crucis. In Iraq vi sono stati molti attentati contro le chiese. Per resistere in queste situazioni occorre molto coraggio».
È preoccupato anche per il patriarca Delly?
«Gli ho raccomandato molta prudenza. Lui non ha mai voluto la scorta, né una protezione militare. Conosco il suo amore per la gente, la sua dedizione pastorale, che gli impedisce di stare chiuso in casa e che lo mette in pericolo. Eppure non c'è altro modo per la Chiesa e per un vescovo di stare vicino ai suoi fedeli. Al patriarca è già quasi impossibile viaggiare per l'Iraq e oggi non potrà nemmeno partecipare ai funerali di monsignor Rahho a Mosul. Sarà per lui una grande sofferenza».
© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 marzo 2008
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