20 marzo 2008

Papa, Dalai Lama e Cina: "Se prevale un comune linguaggio di Pace" (Casavola)


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Papa, Dalai Lama e Cina

SE PREVALE UN COMUNE LINGUAGGIO DI PACE

di FRANCESCO PAOLO CASAVOLA

L’INVITO di Benedetto XVI al dialogo e alla tolleranza tra le parti in conflitto nella regione del Tibet si aggiunge alle esortazioni del Dalai Lama alla non violenza e alla dichiarata disponibilità sua ad abbandonare il ruolo di guida religiosa del popolo tibetano qualora lo scontro proseguisse. Il Tibet fu occupato nel 1950 dai cinesi che lo resero una regione autonoma della propria Repubblica Popolare. Il Dalai Lama, a capo di un governo in esilio nel Nord dell’India, ha favorito sempre negoziati con il governo cinese per sottrarre alla omologazione sociale e culturale le popolazioni tibetane, che intendono conservare le antiche tradizioni religiose e il peculiare patrimonio di civiltà, altrimenti con una forte modernizzazione destinato a scomparire. Ostilità anticinese condotta fino alla guerriglia ha incontrato la dura repressione di polizia e forze armate della Cina. L’interruzione di trattative con la Repubblica Popolare per misure di liberalizzazione nella regione ha aggravato la tensione tra le popolazioni originarie e lo Stato. Le istituzioni religiose buddiste sono l’emblema della diversità culturale del Tibet rispetto alla Cina, ma la loro osservanza della non violenza le esclude dal prendere parte attiva in una resistenza anticinese. D’altra parte la Repubblica Popolare è un colosso demografico rispetto al minuscolo numero dei tibetani, il che rende il confronto tra le due parti quanto mai asimmetrico e proprio perciò tanto più simbolico di due cause opposte, dei diritti umani dei tibetani e del regime della Repubblica Popolare. Siccome i diritti umani sono affidati ad una vigilanza universale, delle opinioni pubbliche, dei governi e parlamenti e partiti di ogni Paese, delle organizzazioni internazionali, l’esigenza di pressioni sulla Cina si è manifestata finanche, con la proposta di boicottare i Giochi Olimpici di Pechino. Il che sarebbe in contraddizione con il valore della pace tra i popoli veicolato proprio dalle Olimpiadi. Una diplomazia attivata da tutti gli Stati che sostengono la causa dei diritti umani potrebbe trovare vie più coerenti e realistiche. Le recenti repressioni del governo birmano contro le processioni di protesta dei monaci buddisti hanno dato rilievo alle grandi religioni nel conflitto tra diritti umani e poteri autoritari. Si attendeva che anche la Chiesa cattolica si esprimesse con il suo vertice. La difficoltà di avere notizie certe sugli scontri nel Tibet, diverse anche nel numero delle vittime a seconda delle fonti, cinesi o tibetane, ha reso solo in apparenza tardiva la presa di posizione della Santa Sede e della Chiesa. Essa è coerente con la causa della pace, da sempre insegna dei milioni e milioni di uomini e donne professanti la fede cristiana nel mondo. Che questa volta vivono una intensa fraternità con le tante comunità buddiste presenti in ogni continente. Le parole di Benedetto XVI e del Dalai Lama parlano un comune linguaggio di pace, per un dialogo universale, che superi le diversità delle culture e degli interessi politici. Se nel Tibet le istanze di maggiore autonomia e di liberalizzazione non fossero esaudite, potrebbero dar luogo ad altre di secessione e di indipendenza. E queste darebbero esca a scelte di guerra, e non di pace.

© Copyright Il Messaggero, 20 marzo 2008 consultabile anche qui

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