20 marzo 2008
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Cristiani d’Iraq
Il dolore e la sofferenza degli sfollati in Siria
DAL NOSTRO INVIATO A DAMASCO
CLAUDIO MONICI
In passato, viandanti assetati e taciturni, sotto un tetto di stelle, scoprivano Damasco al termine del loro peregrinare. Per i poeti arabi era simbolo della bellezza della Terra. E fin dai tempi di san Paolo la capitale siriana era una meta d’arrivo. L’approdo sicuro dopo le incertezze del deserto. Ma, in questo presente, il lirismo delle fantasticherie arabeggianti, dei prodigi della fede e dei miraggi dell’uomo si stempera e svanisce negli occhi privi di sguardo – malati di nostalgia, solitudine e rimpianti, quando non sono ferite che grondano di abominevoli torture e orribile morte – degli iracheni in fuga da quella terra che sta appena al di là del deserto e tra i due fiumi, in cui la tradizione colloca le meraviglie e la felicità dell’Eden.
Damasco è punto d’arrivo, uno dei tanti tra la Turchia e l’Egitto. È il caravanserraglio di sosta, ma anche il ricovero che segna il destino, quasi mai felice, dei lajéen. Sono gli esuli che con audacia, non sempre ripagata dalla fortuna, e nulla nella valigia se non il vuoto dell’abbandono frettoloso di ogni proprietà, si sono sottratti ai pericoli della guerra, degli attentatori suicidi, della violenza settaria. Una diaspora che anche qui in Siria, nei quartieri cristiani, ha trovato il suo approdo, provvisorio. In attesa di tornare in Iraq: «Ma quando?». O emigrare altrove: «Ma dove?».
Le loro testimonianze evocano ricordi che portano a Bassora, Nasiriyah, Baghdad, Najaf, Babilonia, Mosul, Ninive. Sono arabi, armeni, assiri, caldei, curdi. Sono bambini e anziani, disabili di guerra e malati terminali, donne incinte e vedove. Sempre pochi i maschi. Vittime della vendetta, dell’odio etnico e religioso, dell’arida sete dei riscatti, delle troppe botte ricevute al momento del rapimento. Quando non sono stati stritolati dalle bombe che piovono dal cielo, dai subdoli attacchi degli uominibomba, cinque anni dopo la guerra che doveva concludere un trentennale percorso di sventure e sofferenze all’apice di un pesante embargo internazionale. Profughi che pregano come musulmani sciiti e sunniti, che sono yazidi adoratori dell’angelo caduto dal Paradiso, e poi i cristiani che, seppure sparpagliati in una dozzina di denominazioni, rap- presentano il mondo delle origini. La tradizione di una minoranza debole che rischia di scomparire sotto gli attacchi violenti e il divieto di esercitare le attività proibite dal Corano. Una dispersione granulare, inesorabile e decisa. Che a tanti fa dare solo una risposta negativa, quando si chiede loro che ne è del desiderio di ritornare alle origini di Abramo. Alla terra che racconta duemila anni di cristianesimo in Mesopotamia che senza la loro testimonianza sarà destinato a evaporare come acqua al sole.
«Tornare indietro? Non si può più. Non solo perché le condizioni non lo permettono ancora, ma prima e più d’ogni altra cosa perché abbiamo subìto e visto troppe violenze. Tanto che i nostri occhi si sono asciugati delle lacrime dinanzi all’orrore senza limite che insanguina l’Iraq. Ma è nel fatto che siamo cristiani, e mi raccomando lo scriva, nel fatto che siamo vittime di abusi e di vera persecuzione, la ragione che ci spinge a lasciare il nostro amato Paese. Per noi è pura follia pensare di fare ritorno in Iraq». Insegnate di inglese in pensione, Fahmir Anhor proviene da Baghdad. In Siria per guadagnare da vivere fa lo scrivano. Compila le domande degli iracheni che fanno richiesta di un visto straniero, mentre sognano davanti ai cancelli delle ambasciate di Australia, Canada o Norvegia.
«Qui in Siria viviamo con in tasca un documento di 'dichiarazione di protezione temporanea' rilasciata dalle Nazioni Unite. Il nostro futuro è fatto di incertezza quotidiana, difficoltà economica e vita parcheggiata in attesa di una nazione che ci accolga definitivamente. Ma in Iraq per noi l’unica cosa certa è la morte violenta». Al signor Fahmir hanno rapito la figlia Farida, che è riuscito a riabbracciare solo dopo avere consegnato un riscatto di 20.000 dollari. Il cognato, invece, è stato rapito e brutalmente ammazzato perché vendeva liquori e commerciava con gli americani. È un sorriso storto, compassionevole e malinconico, quello dal signor Sabah, 63 anni, ex insegnante elementare, quando accenniamo alla «nuova democrazia » promessa per il dopo Saddam: «Qualcuno ha ancora il coraggio di andarla a raccontare, questa ridicola promessa, sulla tomba di padre Rajad a Mosul: rapito e torturato fino alla morte? Dove andare dopo Damasco? Ogni posto è buono per noi che abbiamo lasciato le nostre città, le nostre case, i ricordi nei cimiteri abbandonati in Iraq. Tornare indietro? Non ci sono speranze. Ma neppure scorgo una luce in fondo al tunnel per nostri giovani che in Siria non possono avviare un lavoro autonomo per rifarsi una vita. I Paesi che promettevano la nuova democrazia in Iraq, che ora ci cade addosso come macerie sporche di sangue, hanno girato la schiena. Quando bussiamo loro per un visto, guardano da un’altra parte. La Siria ha aperto le porte per accoglierci, ma per noi è come vivere in una sala d’attesa.
Sapendo, però, che là fuori non c’è nessun treno che possa raccogliere il fardello di una tragedia che non è solo degli iracheni, ma appartiene a tutti».
Nadir ha 34 anni, è scappato con la sorella che «per due volte hanno tentato di rapire». Il padre Rahim è troppo anziano per affrontare il viaggio verso Damasco e «ha scelto di morire a Baghdad»: «Siamo cristiani che vivono la paura di veder uccisi i loro vescovi, come è accaduto solo pochi giorni fa a monsignor Rahho. In Iraq non abbiamo mai vissuto bene, la sofferenza sta nella storia del mio Paese. Ma quella che siamo costretti a patire oggi è peggio. Siamo certi di una condanna a morte».
La solitudine e il senso di abbandono, l’estrema fragilità economica degli iracheni di rito caldeo trovano ristoro nella piccola chiesa di santa Teresa del bambin Gesù, nella città vecchia. Nel dedalo di vicoli e viuzze che si aprono appena varcata l’antica porta di Tommaso, si trova Bab Touma, il quartiere cristiano. «Qui si intrecciano destini comuni a tutti», è il sospiro del giovane padre Yussuf. Anche lui è dovuto scappare dal convento di Baghdad, quando è stato avvertito che il suo nome era su una lista di morte.
Gli occhi stanchi del sacerdote incrociano quelli di una madre che esce dalla messa. Fedel Faranzj tiene in braccio la piccola Sandra, cinque mesi addobbata di tulle bianco come una bambola di ceramica: «È nata a Damasco – dice la madre –. Non vedrà mai la sua terra d’origine, dove abbiamo lasciato anche i morti. Cosa spero per mia figlia? Che possa crescere in un Paese dove si conosce la pace».
© Copyright Avvenire, 20 marzo 2008
l’agenzia Onu
«Storie terribili, chi li aiuta non ne regge il peso»
DAL NOSTRO INVIATO A DAMASCO
Claudio Monici
Se non esiste un censimento degli iracheni che sono fuggiti dalle liste della morte, dalla persecuzione e insicurezza, se ne conosce però l’allarmante situazione di difficoltà contrassegnata dai passati traumi, ai quali si aggiungono quelli presenti. Subìti anche per poter sopravvivere. Come prostituzione, lavoro minorile e disperazione. Si ritiene (fonti Onu) che gli sfollati siano più di 2,2 milioni, mentre altri 2 milioni sarebbero i rifugiati che hanno trovato riparo tra Siria e Giordania.
Damasco ne ospiterebbe almeno 1,5 milioni, dispersi nei quartieri periferici di Masakin Barze, Sayyeda Zainab, Jarimana. Il fuoriuscito iracheno non vive nei campi profughi, come si è generalmente abituati a vedere nelle crisi internazionali. Abita in edifici e appartamenti, spesso fatiscenti, condividendo promiscuità familiari per affrontare le spese di affitti che al- trimenti non potrebbe garantirsi. Come gli «appena » 70 dollari che sono la tariffa per il viaggio di 10 ore in taxi verso Baghdad, quando si deve tornare per prendere le ultime cose rimaste e chiudere definitivamente con il proprio passato. Le prime fonti di sussistenza arrivano dai parenti all’estero, in attesa di prendere la loro stessa strada. Ma non è detto che sia facile. «È una presenza che si è sviluppata favorendo una sistemazione di tipo urbano. Per questa ragione è difficile venire a contatto con loro, se non sono loro a raggiunge noi, per l’assistenza medica e aiuti alimentari, che oggi riusciamo a garantire a 150mila persone», osserva Laurens Jolles, rappresentante dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Negli schedari a Damasco vi sono i nomi e le storie di «solo» 170mila persone. Di cui almeno 25mila sono segnalate come «vittime di torture e violenze». Senza considerare chi ha bisogno di cure urgenti e costose.
Gli arrivi in Siria apparentemente sono diminuiti. Ma prima che Damasco, su richiesta di Baghdad, in ottobre ripristinasse il visto d’ingresso ogni giorno alla frontiera si presentavano in più di 3mila. Esiste anche un movimento di rientro, imposto dalle avverse condizioni economiche che incontra il rifugiato che non trova lavoro e dalla necessità di rinnovare il visto. Ogni volta che si torna indietro è però come giocare alla roulette russa.
«Sono tantissimi gli iracheni che hanno subito traumi, vissuto violenze, episodi di criminalità, stupri, rapimenti, assistito almeno a un fatto di sangue – aggiunge il rappresentante dell’Unhcr –. Storie che raccogliamo tutti i giorni presso il centro di registrazione. E molte sono tremende. Livelli di sofferenza inauditi, che coinvolgono giovani e adulti, uomini e donne. Un lavoro anche per noi non semplice. Arriva un momento in cui siamo costretti a rinnovare gli operatori che ascoltano. Anche qui in Siria non è facile sopravvivere, quando non si ha la sicurezza di un lavoro. Quindi per le donne, che sono l’anello più debole, senza più mariti, uccisi o rapiti, la prostituzione è una tragica fatalità. E ancora per via di traumi, depressione e ansia, di una vita che non è più quella di un tempo, è aumentata la violenze domestica».
Nonostante gli incoraggiamenti e gli appelli lanciati dall’Acnur, i Paesi occidentali offrono sempre meno opportunità. «I rifugiati iracheni appartengono al ceto medio – architetti, ingegneri, professori, insegnanti – e arrivano qui senza più niente. La popolazione rurale si è dispersa nell’Iraq contadino. Le autorità siriane – conclude Laurens Jolles – sono le uniche che hanno tenuto le frontiere aperte: hanno fatto più della comunità internazionale. Ma è giunto il momento che anche altri Paesi condividano una parte di questo pesante fardello umano ».
© Copyright Avvenire, 20 marzo 2008
L’ANNUNCIO
LA FRANCIA NE ACCOGLIERÀ 500: SONO I PIÙ COLPITI, NESSUNO LI OSPITA
La Francia accoglierà «nelle prossime settimane» 500 rifugiati cristiani iracheni, le «persone più minacciate di tutti». Lo ha confermato ieri il ministro degli Esteri di Parigi Bernard Kouchner durante un’intervista radiofonica. «Non rifiuteremo l’accoglienza a dei musulmani», ha precisato l’esponente del governo Sarkozy, rimarcando come «il problema è che nessuno accoglie i cristiani». Kouchner ha preannunciato una sua prossima visita in Iraq, in particolare a Erbil, città nel Nord del Paese, dove Parigi aprirà a breve un consolato. «Soddisfazione» per l’apertura di Kouchner è stata espressa dall’Ouvre d’Oriente, agenzia cattolica di sostegno ai cristiani di rito orientale con sede a Parigi: «In effetti, c’è un problema specifico dei cristiani iracheni», ha sottolineato il presidente dell’Ouvre, monsignor Philippe Brizard. La fuga degli iracheni cristiani ha raggiunto picchi impressionanti: secondo Brizard, metà degli 800mila cristiani un tempo presenti in Iraq sono fuggiti a causa dei crescenti attacchi operati da terroristi di matrice islamica. ( L. Fazz.)
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