14 marzo 2008
Mons. Sleiman (arcivescovo latino di Bagdad): "Il dialogo andrà avanti, ma il mondo ci aiuti". Cristiani dimezzati dalla guerra
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Il dialogo andrà avanti, ma il mondo ci aiuti
Rosario Caiazzo
«Davanti a una tragedia simile il silenzio è grande, tutto quello che posso dire è niente di fronte a un atto così barbaro e anche gratuito. Un atto anche pericoloso perché colpisce non solo la persona dell'arcivescovo ma tutte le comunità cristiane e gli iracheni stessi. È un atto di una barbarie inaudita di cui possono essere capaci solo dei fondamentalisti, dei terroristi, dei criminali mafiosi».
Così Jean Benjamin Sleiman, arcivescovo latino di Bagdad, commenta il tragico ritrovamento del cadavere dell'arcivescovo caldeo di Mosul Faraj Rahho.
Da 13 giorni, da quando l'arcivescovo era stato rapito, Sleiman pregava e sperava che la vicenda si concludesse con il rilascio e il ritorno a Mosul di Rahho. Questo non è avvenuto, l'arcivescovo era morto già da cinque giorni: ieri l'indicazione del luogo in cui era stato seppellito il cadavere. «Il motivo di questo atroce delitto resta un mistero e un colpo tremendo per tutti. Siamo purtroppo abituati a tragedie qui in Iraq dove si mescolano bande di fondamentalisti e di criminali mafiosi», dice Sleiman.
Ma chi può aver commesso questo atroce delitto contro l'arcivescovo di Mosul e i cristiani iracheni?
«È stato ucciso un arcivescovo, ma chi lo ha fatto e perché attacca i cristiani noi non lo sappiamo. L'omicidio non è stato rivendicato. Noi piangiamo Rahho, una tragedia quella della violenza barbara e gratuita che anche tanti iracheni vivono quotidianamente, sotto l'assedio del terrorismo e del fondamentalismo».
I cristiani in Iraq sono sempre più nel mirino dei fondamentalisti.
«L'obiettivo dei fondamentalisti è far fuori quelli che non sono come loro, che non la pensano come loro. Ma non sappiamo ancora se dietro la morte di Rahho ci siano i fondamentalisti e finché i responsabili non vengono fuori tutto quello che diciamo è molto relativo».
Questo delitto ora avrà conseguenze sul dialogo tra cristiani e musulmani?
«Il dialogo tra cristiani e musulmani continuerà, anche se aumenterà la sfiducia».
Andrete quindi avanti su questa strada?
«Sì, andremo avanti, altrimenti rischiamo di morire moralmente. Non ci arrenderemo mai nella ricerca della pace».
Benedetto XVI ieri, nel dirsi profondamente addolorato per l'uccisione di monsignor Faraj Rahho, ha sottolineato che questo tragico evento deve ora richiamare «l'impegno di tutti, e soprattutto della comunità internazionale, per la pacificazione di un Paese così travagliato».
«Spero che il Papa venga ascoltato in questo suo drammatico appello».
La comunità internazionale deve fare quindi di più?
«Innanzitutto deve mettersi d'accordo, altrimenti non può fare molto. Solo se c'è un consenso per aiutare l'Iraq, per portare la pace in questo Paese, si possono ottenere risultati positivi».
Anche l'Italia deve fare di più?
«Anche l'Italia, che è un Paese moderato e con tanta attenzione ai problemi del Medio Oriente, può fare moltissimo».
Come vivono i cristiani a Bagdad e in Iraq?
«La situazione è critica. Nei cristiani iracheni c'è una forte paura del futuro. Essi vivono una tragedia che termina spesso con un autoesilio, lasciano il loro paese sottoposto ogni giorno a violenze e attentati. La preoccupazione della sparizione dei cristiani dall'Iraq è fondata».
La violenza e la mancanza di sicurezza hanno spinto molti cristiani a fuggire in Paesi come Siria e in Giordania. Cosa può arrestare questa fuga?
«La maggioranza dei cristiani vive in grande difficoltà. Qualcuno che è andato via prova a ritornare in patria, ma sono pochi e incontrano tante difficoltà. Molti per partire hanno venduto tutto, lasciato il lavoro ed è difficile ritrovarlo. Il sentimento più diffuso tra i rifugiati cristiani è quello di aver perso i legami con la patria, con la sua cultura. Molti arrivano a dire "questa non è più la mia terra"».
Ma cosa porta a questi attacchi ai cristiani?
«Nella visione delle cose irachene i cristiani sono identificati con gli occupanti. Se coloro che fanno certi atti sapessero quanto rifiuto la politica americana susciti nei ceti cristiani, forse non compirebbero tali gesti. Purtroppo la mentalità tribale irachena confonde tutto e tutti. Si è parlato di riduzione della violenza in Iraq, ma questa c'è e si è solo spostata altrove. Fatti del genere fanno tornare alla memoria dei cristiani sentimenti di abbandono e di solitudine».
Avete notizie su come e quali ferite siano state ritrovate sul corpo dell'arcivescovo di Mosul?
«Non abbiamo notizie particolari oltre a quelle già diffuse dalle agenzie di stampa internazionali: il corpo è stato ritrovato a Mosul dove era stato sotterrato dai rapitori, ma sulle cause della morte non sappiamo ancora nulla. Da un primo esame sembra che non siano state riscontrate tracce di violenza o ferite d'arma da fuoco».
© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 marzo 2008
Cristiani dimezzati dalla guerra
Barbara Schiavulli
Kais è un cristiano di Bagdad o meglio lo era, perché un anno fa quando è riuscito a racimolare abbastanza soldi, ha trascinato la sua famiglia in Siria. È tornato da solo per qualche giorno per rinnovare il passaporto, ma ha fretta di andarsene. Non tira una bella aria per i cristiani, anche se ammette che la situazione è un po' migliorata dalla sua partenza. Le strade sono un po' più sicure, ma il pericolo per chi è cristiano, resta costante.
Kais è il nipote di un prete che qualche anno fa venne rapito, torturato e rilasciato, ora si trova al sicuro in Vaticano, ma per quelli che restano la paura domina le loro vite. In realtà non si sa quanti della minoranza cristiana da sempre presente in Iraq siano fuggiti nei paesi limitrofi che seppur islamici, li hanno accolti, creando dei veri e propri villaggi cristiani dove la vita è dura, ma più sicura almeno per ora. Prima della guerra c'erano circa 800 mila cristiani in Iraq e i caldei erano la comunità più numerosa. Ma ora si crede, anche se non ci sono dati certi che almeno la metà si sia trasferita, la maggior parte in Siria, alcuni in Giordania e altri nel nord dell'Iraq. Si presume che di un milione e mezzo di profughi, il 20% siano cristiani.
Attacchi alle chiese, minacce di morte, la costrizione per le donne a portare il velo, hanno cambiato il volto di un Iraq che era fatto di una presenza cristiana tranquilla e rassicurante. Di recente Mosul è stato uno dei posti dove i cristiani sono stati presi maggiormente di mira, ma nessuno in nessun posto si sente sereno. Il quartiere di Dora a Bagdad che era popolato di cristiani è stato svuotato, con sistematiche minacce di morte. «Uno trovava una busta con due proiettili davanti alla porta, e il giorno dopo lasciavi la tua casa con una valigia in mano e tuo figlio nell'altra», ci racconta Rais.
Lo scorso gennaio proprio a Mosul alcuni ordigni sono esplosi davanti alle chiese assire e caldee, altre due hanno colpito le chiese di Kirkuk e quattro di Bagdad. Attacchi coordinati come è spesso è accaduto nel passato, cristiani che il Corano, invece insegna a rispettare perché fanno parte della gente del Libro, così come gli ebrei.
L'arcivescovo Rahho è uno dei più alti rappresentanti della cristianità rimasti vittime della violenza irachena, ma il suo segretario Ragheed Ganni era stato trucidato lo scorso giugno, mentre nel 2005 un altro arcivescovo Basile Casmuossa era stato rapito e rilasciato. Così come il prete ortodosso Boulos Iskander decapitato dopo che la famiglia pagò un riscatto. Non si contano le persone normali che ormai hanno risposto le croci d'oro che portavano con fierezza al collo, in qualche cassetto. Rapite, torturate, spaventate, molestate. Usate anche solo come merce di riscatto, perché i militanti sanno che in qualche modo i familiari di un sequestrato troverà i soldi del riscatto.
«Non possiamo più stare qua, questa non è vita. Non ci vogliono, non rispettano i nostri riti, vogliono inghiottirci o cancellarci, non ci resta che andarcene», spiega Kais, che rimpiange la sua casa, la scuola dei suoi figli, e le passeggiate sul Tigri. Mi fa promettere quasi con insistenza che un giorno faremo un picnic sul fiume con tutta la sua famiglia alla quale si è aggiunta «Miracolo», una piccola appena nata in Siria. Ha bisogno della mia promessa per sperare che un giorno tutto tornerà normale.
Ma gli estremisti così come vogliono le donne imprigionate nei loro veli, vogliono i cristiani fuori dal paese, ai tempi del regime di Saddam, i cristiani insieme ai sunniti godevano di alcuni privilegi e questo ora lo pagano. Non solo, sempre per gli estremisti, i cristiani possiedono rivendite di alcolici e hanno idee più progressiste, un pericolo per le menti deviate di chi vuole tornare ai tempi di Maometto a colpi di proiettili.
© Copyright L'Eco di Bergamo, 14 marzo 2008
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