3 marzo 2008

Il fisico nucleare Gianpaolo Bellini: "Vi spiego perchè il Papa sta con noi scienziati" (Tracce)


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Vi spiego perchè il Papa sta con noi scienziati

Davide Perillo

La spinta verso la verità, la difesa della ragionevolezza, il richiamo al bene… Ostacoli alla ricerca? No, l’esatto contrario. Parola di uno dei fisici più importanti d’Italia

Tra le firme piazzate sotto quella lettera al rettore Guarini in risposta ai “67” c’è anche la sua: Gianpaolo Bellini, ordinario di Fisica nucleare all’Università di Milano. Ma anche scienziato visitatore del Cern di Ginevra, dello Fbnal di Chicago, dell’Ihep russo… Uno dei fisici più noti e stimati dalla comunità scientifica, insomma.

Se l’aspettava che i suoi colleghi romani sollevassero un caso del genere?

«Per la verità mi ha sorpreso che la protesta venisse dai fisici. Di solito hanno una visione più aperta degli scienziati di altri campi. I biologi, per dire, in genere sono più sensibili a una certa ideologizzazione della scienza… E poi mi hanno meravigliato alcuni nomi. Persone che conoscevo come ragionevoli».

Come se lo spiega?

Penso che molto sia dovuto a scarsa o nessuna conoscenza delle posizioni della Chiesa in questi ultimi decenni. E manca anche attenzione a questioni che non riguardano direttamente la scienza. Chiaro, nel nostro mestiere siamo molto presi. Ma certi colleghi, anche in buona fede, non hanno presente l’evoluzione della filosofia e pure della Chiesa su questi temi.

E da dove nasce questa scarsa attitudine al confronto con ciò che sta all’esterno della propria disciplina?

Probabilmente dal fatto che la scienza sta diventando sempre più specializzata. Vorrei far presenti due fatti importanti. Uno: alcune correnti della filosofia moderna, che vanno sotto il nome di pensiero debole e di relativismo, minano alla base le fondamenta della scienza. Il pensiero debole nega la conoscibilità della realtà. E il relativismo afferma, in buona sostanza, che non si può fare una distinzione chiara tra verità e falsità. Mentre la scienza si basa essenzialmente su una rappresentazione della realtà che deve essere vera. Chiaro, non è mai definitiva; il suo modo di procedere è quello di mettere sempre in discussione queste rappresentazioni, testandole a ciclo continuo. Ma la distinzione tra vero e falso è fondamentale. Se la togliamo, non esiste più scienza. Nella stessa università ci sono scuole che di per sé sono l’antitesi della scienza.

Così il richiamo del Papa al pericolo del relativismo fa sì che la Chiesa sia molto più vicina alla scienza che molti altri ambiti della stessa vita universitaria.

E il secondo fatto?

È il richiamo continuo alla ragione. Anche questo è un supporto fortissimo alla scienza, in un momento in cui, peraltro, prevalgono atteggiamenti irrazionali. Non mi riferisco solo al proliferare degli oroscopi. C’è confusione anche nelle università, dove ormai si tende a chiamare “scienza” tutto: scienze alberghiere, scienze della comunicazione… Ma non hanno niente a che fare con le scienze viste come un processo continuo di rappresentazione teorica e controllo sperimentale, di intuizione e deduzione, che ha una forza e un certo grado di oggettività e, quindi, una facoltà predittiva. Insomma, anche da questo punto di vista la posizione della Chiesa è molto più vicina alla scienza che altri tipi di atteggiamenti.

Eppure pensiero debole e relativismo sono celebrati sui giornali nelle stesse pagine che esaltano la scienza come unico criterio di conoscenza della realtà. Siamo al paradosso…

Esatto. Ma sa, ci sono uomini di cultura che arrivano persino a confondere il relativismo con la teoria della relatività e concludono che anche la scienza è relativista. Peccato che una cosa non c’entri nulla con l’altra.

Quali sono i passi del discorso del Papa che l’hanno colpita di più?

Partiamo da questo: «Verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri?». Mi sembra un richiamo al fatto che lo scienziato deve perseguire la verità, ma con onestà. Mentre un’altra cosa che distrugge la scienza è il cercare di manipolare il risultato scientifico in modo ideologico. Forse il Papa non intendeva proprio questo, ma per me è un richiamo a uno spunto sul quale sono sensibile.

Uno spunto che giudica anche il rischio di perdere di vista il rapporto necessario tra ricerca e bene...

Certo. Anche se bisogna sempre distinguere tra la ricerca fondamentale, la scienza come conoscenza, e le sue applicazioni. Sono due cose diverse. Uno può approfondire la conoscenza, arrivare a dire: si può fare questo, e poi fermarsi. La bomba atomica non è dovuta alle scoperte di Fermi: è stata una scelta politica. Anche il dibattito sulle staminali, o sulle manipolazioni genetiche, è di questo tipo: uno capisce e approfondisce certe cose. Applicarle, è una decisione di tipo politico. Non lo dico per togliere responsabilità a noi scienziati, ma per sottolineare un aspetto: quando si dice che una certa applicazione non va seguita non si sta limitando la conoscenza, ma, appunto, l’applicazione pratica. Usando un criterio etico che non rientra in una logica puramente scientifica, è vero. Ma soltanto perché anche l’applicazione non rientra più in quella logica.

Ma perdendo di vista la prospettiva del vero anche l’applicabilità, ovvero il potere della tecnica, diventa assoluto. Il gusto del “poter fare” prende il sopravvento su tutto. Tentazione notevole, per voi scienziati…

Alla base del comportamento dello scienziato ci deve essere comunque un’etica. Senza etica si distrugge la scienza. Non a caso, c’è un altro punto che mi ha colpito molto: la citazione di Habermas e il richiamo a quella «sensibilità per la verità» che spesso viene «sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi». Dietro queste applicazioni ci sono un sacco di interessi. Il loro peso, alla fine, si sente.

In quel passo c’è anche un altro aspetto notevole. In fondo, è come se il Papa paragonasse il suo compito di pastore a quello di chi fa ricerca in università: un richiamo continuo a tendere al vero, appunto, a tenere desta questa «sensibilità». Non crede che alla radice di un certo atteggiamento ostile, emerso alla Sapienza ma latente anche altrove, ci sia proprio lo smarrimento di questa sensibilità al vero? Sembra che manchi il desiderio di verità, il gusto che ti dà la scoperta…

C’è anche un altro fatto: soprattutto qui in Italia, tutto viene subito tradotto in opposizione politica e si formano degli schieramenti. Mentre il richiamo al vero è fortemente congiunto con la libertà. Che non è solo libertà di parola e discussione, ma anche libertà dai pregiudizi. Uno scienziato che ha pregiudizi non è un buono scienziato.

Veniamo all’affermazione centrale sulla natura dell’università. Il Papa dice che nasce dalla «brama di conoscenza propria dell’uomo». È ancora pensiero comune tra chi lavora nel suo ambiente?

Difficile da dire. C’è il gusto della ricerca, questo sì. Se non ci fosse, soprattutto i più giovani non resterebbero in università, tra precariato, gavetta e stipendi bassi. Che poi questo gusto si traduca in un reale gusto per la verità, mi è difficile dirlo. Il fatto che la scienza diventi sempre più specializzata rende lo scienziato un uomo di cultura dimezzato. Io ho lavorato alla scuola di Giuseppe Occhialini. Persona di grande cultura: con lui si parlava di arte, musica, libri… Uno scienziato umanista, insomma. Oggi è molto più difficile trovarli. E l’idea di ambiti comuni in università, in cui ci si incontri con colleghi di discipline diverse per discutere, è molto ridotta.

Il Papa rimarca molto la ragionevolezza della fede. Ma un certo punto, quasi sottotraccia, sembra dire che certe dimensioni proprie della conoscenza per fede sono la trama anche di aspetti propri della ricerca scientifica. La critica di una «ragione a-storica» e la valorizzazione della tradizione, per esempio, mi sembrano importanti tanto per la fede che per la conoscenza scientifica. Che ne pensa?

In un certo senso è vero. Quando inizio a fare ricerca, non lo faccio partendo da zero. Devo per forza prendere in considerazione quello che mi precede e fidarmi. Però c’è una distinzione. La scienza è in un continuo divenire: la rappresentazione della realtà continua a cambiare, perché la ricerca va avanti. Non so se la stessa cosa si possa dire nel campo religioso. Lì credo che non cambi l’interpretazione, ma la sensibilità con cui la percepiamo. Non so se la coscienza della rivelazione vada avanti nel tempo o no…

In don Giussani c’era l’idea della tradizione come ipotesi di lavoro con cui affrontare la realtà. Il contenuto non cambia, lui stesso diceva «io non ho inventato niente»: ma quella tradizione diventa un’ipotesi sull’affronto dell’oggi.

È una prospettiva interessante. Come l’altra cosa che dice il Papa: la libertà. Verità e libertà vanno di pari passo. Abbiamo visto ideologie totalitarie che hanno cercato di conculcare la scienza, spingendo teorie che sembravano più vicine al materialismo piuttosto che all’idealismo. La scienza vive di libertà.

Nel discorso della Sapienza c’è una continuità totale con Regensburg, con l’invito a usare la ragione nella maniera più ampia possibile. Per me, che non sono uno scienziato, è un invito entusiasmante. Ma credo che per chi fa della ricerca la sua vocazione lo sia ancora di più…

Questo richiamo è fondamentale. Senza, la scienza non esiste. La ricerca scientifica applica una logica razionale, basata ancora sulla logica aristotelica. Ma ci sono cose che la scienza non potrà mai misurare. Non posso lavorare sulla bellezza o sul coraggio, perché non posso misurarli. Però questo metodo di criticismo costruttivo potrebbe essere applicato ad altri campi con modalità diverse. È quello che ho trovato anche in don Giussani, ne Il rischio educativo, quando si parla del vaglio: mi sembra che questa idea possa sposarsi benissimo con l’idea di una ragione amplificata che ha questo Pontefice. E vale anche per i giovani. Bombardati da pubblicità, tv, eccetera, devono vagliare quello che viene proposto. Ed è un’idea che si sposa benissimo con il criticismo scientifico. Tenendo chiare le distinzioni, ovvio. La scienza studia il come, non il perché.

Per usare l’immagine di don Giussani, è il famoso zaino sulle spalle nel quale a un certo punto ci si sente spinti a rovistare: la crisi. Molto scientifica come metodo, assolutamente umana come esigenza…

Esatto. Su questo anche il Papa precedente aveva detto molto. Non a caso Ratzinger era tra i suoi collaboratori principali.

Ma con i suoi colleghi si discute di questi aspetti? Il caso Sapienza dovrebbe almeno aver risvegliato una certa voglia di dibattito...

Non mi pare ci sia una grande sensibilità. Ne parlo con alcuni colleghi, ma non so quanti si pongano il problema.

Lei, come scienziato, si sente aiutato da un richiamo del genere?

Assolutamente. Ed è anche un riconoscimento che mi conforta. A volte può venirti il dubbio: io ho dedicato tutta la vita alla scienza, ma ho fatto qualcosa di buono per l’umanità? Ogni tanto me lo pongo, questo problema. Ora questa presa di posizione del Papa mi conforta. Anche un grande umanista come lui riconosce la funzione dello scienziato. Senza contare un altro tema: lo scienziato deve essere umile. Se non lo sono, se penso che la mia testa vada oltre la realtà, non posso affrontare la ricerca. In questa vicenda ho trovato in alcuni un atteggiamento troppo arrogante.

Umile viene da humus, ha un legame con la terra. Altro aspetto molto materialistico, scientifico, e al tempo stesso umano... Ma quello che è successo servirà almeno a discutere sulla situazione dell’università?

Spero di sì, ma temo di no. A meno che ci siano delle persone che continuino ad alimentare il dibattito.

© Copyright Tracce n. 2/2008

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