4 marzo 2008
La pillola che ancora non c’è negli ospedali fa già male (Morresi per "Avvenire")
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LE RISCHIOSE SPERIMENTAZIONI REGIONALI DELLA RU486
La pillola che ancora non c’è negli ospedali fa già male
ASSUNTINA MORRESI
Da tempo questo giornale ha lanciato la proposta di 'fare un tagliando' alla legge 194, cioè di rivedere le modalità con cui quella normativa è applicata nel nostro Paese. L’idea è stata raccolta in modo bipartisan dalla classe politica, sia con la mozione presentata da Sandro Bondi, nel centrodestra, sia nel recente documento del centrosinistra, firmato da donne di diverso orientamento politico e culturale come Paola Binetti e Anna Finocchiaro. Un buon inizio, si direbbe: un’iniziativa concreta e condivisa in modo trasversale all’interno dei partiti, su un problema tanto importante, grave e sentito come quello delle maternità rifiutate. Peccato però che, a volte, sul territorio le cose vadano diversamente rispetto a quanto auspicato, per esempio per quanto riguarda l’aborto praticato con la pillola Ru486. In Italia finora non c’è stato alcun divieto della pillola abortiva, che non era in commercio semplicemente perché l’azienda che la produce, la francese Exelgyn, fino allo scorso novembre non ne ha fatto richiesta. In diversi ospedali italiani, comunque, negli ultimi due anni l’aborto chimico è stato offerto alle donne, e il farmaco è stato importato direttamente dalla Francia, a volte con l’avallo di entusiasti consigli regionali, improvvisamente interessati ai protocolli abortivi. La Ru486, che uccide l’embrione in pancia, è il primo dei due farmaci che si assumono per abortire. Il secondo è una prostaglandina, il misoprostol, che induce le contrazioni e provoca l’espulsione dell’embrione. In Italia è commercializzato come Cytotec, ed è registrato come antiulcera. La casa farmaceutica che lo produce non l’ha mai registrato come abortivo in nessun Paese al mondo, e non solo non ha alcuna intenzione di farlo in futuro, ma ha ufficialmente diffidato da questo uso, viste alcune gravi complicanze che potrebbero causare contenziosi legali. Sarebbe interessante sapere se le donne che l’hanno utilizzato per questa procedura abortiva sono state regolarmente informate di tutto questo. Inoltre, per abortire con la Ru486 nell’80 per cento dei casi si impiegano mediamente tre giorni, ed è impossibile conoscere, alla sua assunzione, il momento dell’espulsione dell’embrione. Nel rispetto della legge 194, che prevede che l’aborto avvenga entro strutture sanitarie pubbliche, le donne dovrebbero quindi essere ricoverate almeno per tre giorni, e comunque fino alla fase espulsiva, che nel 12-15% dei casi avviene successivamente.
Sappiamo che Silvio Viale, il ginecologo radicale responsabile della sperimentazione torinese della Ru486, potrebbe essere rinviato a giudizio per violazione della legge 194, proprio perché 38 donne coinvolte nella sperimentazione hanno abortito al di fuori dell’ospedale. Ma nel frattempo cosa è successo e cosa sta succedendo nei vari ospedali in cui si abortisce con questo metodo? Quante donne hanno abortito nel rispetto della legge? Per quante l’espulsione è avvenuta al di fuori delle strutture ospedaliere? Due anni fa, ad esempio, i lettori di Avvenire
sono stati informati di una donna che, dopo aver assunto la Ru486 in un ospedale della Toscana, si è ricoverata con urgenza per emorragia al Policlinico Gemelli a Roma, ed è stata sottoposta ad un intervento chirurgico.
Nonostante un’interrogazione parlamentare, non c’è stato alcun chiarimento a proposito. È inutile quindi parlare di piena applicazione della legge 194, quando in molte regioni italiane la si viola sistematicamente ormai da tempo: praticamente dove si somministra la Ru486, spesso con l’appoggio di politici, un gran numero di aborti avviene a domicilio, in palese contrasto con la legge. Non è questo il tagliando che volevamo.
© Copyright Avvenire, 4 marzo 2008
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