22 maggio 2008

Anche la liturgia ha il suo «look»: un saggio studia lo sviluppo dell’abbigliamento adottato durante le varie funzioni religiose (Dolz)


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(Agostino in un affresco del Botticelli)

Su segnalazione del nostro Marco, leggiamo questo importante articolo di Michele Dolz.
R.

IL CASO. Dalle origini ai nostri giorni: un saggio studia lo sviluppo dell’abbigliamento adottato durante le varie funzioni religiose

Anche la liturgia ha il suo «look»

Alle origini il vestiario previsto nelle funzioni sacre era di tipo ordinario, ma non erano ammessi gli abiti da lavoro e militari

DI MICHELE DOLZ

Tutti, credo, andando a messa, ci saremo domandati qualche volta perché il sacerdote indossa quelle singolari vesti. Ma temo che ben pochi nei decenni postconciliari avranno trovato risposte chiare. È un tema che è mancato nella catechesi, forse anche perché ha abbondato la confusione, la sperimentazione, la sciatteria.

E allora è logica la domanda comune: ' Ma perché il sacerdote non può celebrare in giacca e cravatta? O forse con una bella polo, se fa caldo?'.
Curiosamente questa domanda contiene la risposta. Sì, perché in ogni caso s’immagina il celebrante abbigliato in modo acconcio all’azione altissima che sta compiendo.
Una risposta esauriente viene dal libro di Sara Piccolo Paci, esperta di storia del costume, uscito in questi giorni col titolo Storia delle vesti liturgiche (Ancora, 440 pagine, 68 euro).

Ci mancava proprio uno strumento del genere, coltissima disamina storica, antropologica e culturale della questione, ma lettura alla portata di tutti. In queste pagine si ricorda, o si apprende, che nei primi secoli, in effetti, le vesti liturgiche erano indumenti ordinari, in linea con quella visione tutta interiore e trasformante e tutta ecclesiale della nuova fede, e parallelamente alla forte preoccupazione di non assimilare la liturgia pasquale a quella pagana tradizione né ai culti misterici. Eppure, si escludevano decisamente gli abiti di lavoro e quelli militari e si voleva che gli abiti fossero puliti, ben confezionati, possibilmente migliori di altri.
In alcuni casi si preferirono stoffe preziose e ornate.
Importante mi sembra, più che la ricchezza o la povertà, il fatto che la Chiesa non ' inventò' un particolare abbigliamento sacerdotale e celebrativo.
Sant’Agostino, com’è noto, fu strenuo difensore della semplicità delle vesti, così come il contemporaneo papa Celestino I.
Ma tra il V e il VII secolo, a seguito delle invasioni barbariche, cambia il costume e nella liturgia si produce la prima reazione conservatrice o, meglio, si applica alla celebrazione il portante concetto di traditio. È curioso e interessante che nel Concilio di Nicea II (787), tutto incentrato sulla difesa delle immagini proprio come traditio, si respingano gli usi orientali di lusso e profumi invalsi tra il clero. E da allora in avanti si andrà verso una progressiva codificazione delle vesti liturgiche: dal XII secolo si perfeziona il canone dei colori, e tra i concili di Trento e Vaticano II fioriscono le Torniamo alla nostra messa. La casula, oggi di forme ampie e leggere, che il celebrante indossa, era indumento comune nel mondo greco­romano come sopraveste per i viaggi e per proteggersi dal freddo e dalla pioggia. Come veste liturgica è già citata da Sulpicio Severo ( IV- V secolo) e la troviamo nei mosaici ravennati indosso a santi sacerdoti e vescovi.

Col tempo ha modificato la propria forma, soprattutto a partire dal XVI secolo quando si ridusse a quella forma rattrappita a violino o chitarra, spesso molto ricamata nella parte posteriore esposta ai fedeli. Le varie istanze di recupero della dignità liturgica, nate con XX secolo all’insegna della sobrietà e l’austerità, sfociarono dopo l’ultimo concilio nella forma oggi comune.

Sotto la casula il celebrante indossa il camice o alba, sottoveste assolutamente comune nell’antichità: il chitone senza maniche o il colobium manicato, generalmente di lino. Benché indossata da sempre, perché sarebbe come dire ' la camicia', ne troviamo un uso propriamente liturgico a partire dall’VIII secolo. I dipinti antichi sono testimonianze più che chiare dell’evoluzione sartoriale di tale indumento. Chi non ricorda le piegoline fittissime del camice in certi dipinti rinascimentali? Anche l’alba vide una sua trasformazione quando l’arrivo di filature pregiate e di pizzi sostituì le più sobrie applicazioni di tessuto o di ricami.
Più oscura la storia dell’amitto, portato sotto o sopra il camice a
Sant’Agostino difese la semplicità del vestire. Fu dopo leninvasioni barbariche che cambiò il costume liturgico seconda dei riti. Per qualcuno deriva dall’ephod ebraico, per altri dall’amictus romano che copriva il capo dei sacerdoti nei sacrifici, per altri ancora dal sudarium per la detersione del sudore. Tuttavia non va dimenticato che, spesso dai tempi patristici, ognuno di questi capi ha acquisito un valore simbolico, e per l’amitto ( che per qualche tempo si poneva sulla testa) è prevalsa quella della galeam salutis contro gli assalti delle tentazioni. Così come l’alba richiama la purezza e la novità di vita, e la casula la carità e l’innocenza.
E il libro va avanti di questo passo nello studio di ogni capo: il cingolo, la dalmatica, la tunicella, il piviale, la mitria, i calzari, l’anello, ecc.
L’approfondimento è poliedrico, dalla comunicazione attraverso il corpo alla legislazione vigente.

Una serietà che credo giovi in questo momento, quando Benedetto XVI invoca nuovo rigore nella celebrazione liturgica.

© Copyright Avvenire, 21 maggio 2008

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ricordo l'omelia del Santo Padre, quando spiegava il significato dei vestiti litugici :

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070405_messa-crismale_it.html

saluti di Ruedi

Raffaella ha detto...

Grazie, Ruedi :-)