10 giugno 2008

La pedagogia di san Paolo: una scuola nata sulla via di Damasco (Osservatore Romano)


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La pedagogia di san Paolo

Una scuola nata sulla via di Damasco

di Carlo Ghidelli
Arcivescovo di Lanciano-Ortona

Una delle espressioni più pregnanti dell'intero corpo epistolare di Paolo è certamente quella che ricorre in Efesini, 4, 20: "Ma voi non così avete imparato Cristo". Talmente pregnante che la Bibbia della Conferenza episcopale italiana, per esempio, si è sentita in dovere di tradurre: "Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo". Certo, si tratta anche di "conoscere", ma forse questa traduzione non rende, anzi stempera, la pregnanza del termine scelto da Paolo. Considerando il contesto immediato nelle sue principali articolazioni mi pare di capire che Paolo sviluppa il suo pensiero in tre momenti.
"Non così" rimanda ai versetti precedenti nei quali Paolo stigmatizza un certo comportamento che non esita a qualificare come "pagano" (4, 17-19) cioè assolutamente incompatibile con la novità portata da Cristo nella storia degli uomini e quindi nella vita dei credenti. Probabilmente qui si allude all'idea classica delle due vie, che troviamo anche nel Salmo 1, ma certamente Paolo opera una trasposizione ed enuncia il contrasto tra l'antica esistenza e la nuova. Si intravedono già le grandi linee del suo metodo educativo.
Tale atteggiamento, detto appunto pagano, si qualifica per le seguenti note: leggerezza nel modo di valutare le situazioni della vita, cecità nei pensieri, estraneità alla vita di Dio come conseguenza dell'ignoranza nelle cose di Dio, la "cardioporosi" (che corrisponde alla "sclerocaerdia" di Matteo, 19, 8) ovvero una durezza del cuore tale da diventare impermeabili a qualunque sentimento di compassione e di misericordia. Ancora: insensibilità spirituale che implica noncuranza di ciò che attiene alla sfera dello spirito e quindi cedimento a ogni forma di dissolutezza, di impurità e di empietà, oltre che resa a quella bestia insaziabile che è l'avarizia.
Di fronte a tutto ciò Paolo si pone a occhi aperti e prende atto della situazione quasi disperata di una umanità che vive senza Dio e perciò senza speranza in questo mondo (vedi Efesini, 2, 12). Anche per loro vale il grave interrogativo che un tempo Paolo poneva a se stesso: "Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?" (Romani, 7, 24). Le due dimensioni, individuale e collettiva, si intrecciano nell'animo di Paolo e ambedue interpellano il suo metodo pedagogico.
Tornando alla condotta morale degli efesini, sembra di rileggere quella pagina della lettera dello stesso apostolo ai cristiani di Roma nella quale si elencano vizi altrettanto gravi e detestabili: empietà che spegne la pietas, ingiustizia che soffoca la verità, impurità che ottenebra la mente e appesantisce il cuore, stoltezza che si oppone alla sapienza, menzogna, idolatria, passionalità, depravazione, malvagità, cupidigia, malizia, invidia, rivalità, frodi, malignità, diffamazione, insensatezza, slealtà, spietatezza, incapacità di ogni giudizio etico (1, 18-32). Vizi che rendono l'uomo, ogni uomo inescusabile dinanzi a Dio così che Dio stesso non può non abbandonarli al loro destino. Nella sua veste di educatore, Paolo deve farsi carico di questa precisa situazione: non può né vuole eluderla. È a questa umanità che egli si sente inviato.
Il quadro che ne deriva è certamente triste e desolante, nero sotto ogni profilo. Qui per Paolo si rivela l'ira di Dio (Romani, 1, 18): non che Dio voglia sfogare la sua collera verso un mondo ingolfato nel peccato, anzi i due temi dell'ira e della giustizia salvifica sono associati da Paolo e forse vanno considerati come un riassunto della predicazione del vangelo ai pagani, che troviamo per esempio nella Prima lettera ai Tessalonicesi: "Come visiete convertiti a Dio allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero, e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù che ci libera dall'ira ventura" (1 Tessalonicesi, 1, 9-10). È dunque in Gesù che Paolo riconosce il liberatore, l'unico salvatore dell'intera umanità; Gesù pertanto personifica anche il valore sommo della pedagogia paolina.
Se è vero quello che si sente dire e che si avverte in molte maniere: che oggi, sotto diversi profili, siamo di fronte a un paganesimo di ritorno non si può non rilevare l'attualità dell'insegnamento e della esortazione di Paolo. Anche noi siamo i destinatari delle sue lettere: le indicazioni del suo progetto educativo valgono anche per noi.
In un secondo momento Paolo chiarisce ciò che intende con l'espressione "imparare Cristo". Infatti aggiunge: "Se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù" (4, 20-21). Analizziamo con grande attenzione i passaggi interni a questa frase. Anzitutto Paolo lascia intendere chiaramente che non c'è, né ci può essere, alcun apprendimento di Cristo e di ciò che comporta l'adesione di fede al suo vangelo senza un vero e proprio ascolto di lui, cioè della sua parola e del suo insegnamento. Non potendo più ascoltare la viva voce di Gesù di Nazaret è sempre possibile prestare ascolto al vangelo della salvezza accogliendo i suoi testimoni, apostoli e discepoli, che con la loro predicazione e con la loro testimonianza personale vanno diffondendo la bella notizia di Gesù morto e risorto (1 Corinzi, 1, 18-30). Dall'ascolto viene la fede e la fede porta con sé il dono della salvezza. La pedagogia di Paolo trova qui il suo primo e in sostituibile fondamento. Dobbiamo solo ricordare che per Paolo l'ascolto equivale a obbedienza, come risulta anche da Romani, 1, 5: "Abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza della fede" (vedi anche Romani, 15, 18; 16, 26).
Non solo, ma per poter dire di aver imparato Cristo occorre anche sottomettersi a ogni forma di istruzione (didachè), la quale è completa solo se abbraccia tutto il mistero di Gesù, senza decurtazioni e senza aggiunte. Considerando il fatto che solo qui Paolo usa l'espressione "in Gesù" si potrebbe pensare che egli si scaglia contro certi oppositori, forse esponenti della tendenza gnostica, per i quali il salvatore degli uomini non si identificava con la persona di Gesù. Siamo così invitati ad accogliere il mistero dell'incarnazione e a entrare nel suo profondo dinamismo salvifico. Anche se non parla spesso di questo mistero, Paolo in tutte le sue lettere dimostra di averne assimilato lo spessore storico e su di esso fonda il suo metodo pedagogico.
Certo, il mistero di Gesù va accettato nella sua interezza: non è lecito perciò fare a pezzi ciò che di sua natura è indivisibile. Da un lato non si può sottovalutare la redenzione dal peccato, che Gesù ha operato mediante la sua passione morte e risurrezione, qualificandola come "teologia negativa"; dall'altro lato non è consentito esaltare l'incarnazione di Dio come se essa bastasse per la salvezza dell'umanità, qualificandola come "teologia positiva". Le due tappe dell'unico mistero esigono di essere armonizzate in un unico atto di fede e quindi anche in un unico progetto educativo.
Di questa didaché Paolo è certamente maestro esemplare e ineguagliabile. Tale magistero egli ha esercitato in tutte le comunità che ha fondato e nutrito con la sua predicazione, a tutti insegnando che è necessario "imparare Cristo" e che, nello stesso tempo, non può apprendere la scienza di Cristo chi non si sottomette umilmente e gioiosamente al dolce giogo della parola di Dio.
Ogni autentico pedagogo deve fare i conti con questa verità: Paolo ne è pienamente consapevole e lo dimostra elaborando un metodo pedagogico che affonda le sue radici nel grande evento della sua conversione sulla via di Damasco.
Infine, a chi desidera seriamente "imparare Cristo" Paolo indica il dovere di assumere un comportamento diametralmente opposto al precedente. Infatti esorta a "deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici" (4, 22-29) La stessa esortazione Paolo la rivolge anche ai cristiani di Colossi, là dove li invita a "spogliarsi dell'uomo vecchio con le sue azioni" per "rivestire l'uomo nuovo" (3, 9). In ambedue i contesti Paolo indica la trasformazione radicale dell'esistenza, espressa dal battesimo. Attraverso una nuova creazione, realizzata in Cristo, l'uomo viene condotto alla sua vera umanità e, attraverso l'obbedienza, si incammina verso la vera e piena conoscenza: è così che si arriva a "imparare Cristo"! Paolo lo ha imparato per primo e spesso nelle sue lettere ne rende testimonianza, dicendo anche quanto gli è costato rimanere fedele a questo standard di vita. La validità del suo metodo pedagogico Paolo l'ha sperimentata anzitutto su se stesso.
Con una espressione felice e toccante Paolo invita a "non rattristare lo Spirito Santo di Dio" (4, 30), concetto già noto al profeta Isaia (63, 10) e certamente degno di qualche approfondimento. Sembra di poter dire che lo Spirito di Dio dato all'uomo è in qualche modo condizionato dal comportamento dell'uomo stesso, sia nel bene sia nel male: "Il santo spirito, che ammaestra - si legge nel libro della Sapienza - rifugge dalla finzione, se ne sta lontano dai discorsi insensati, è cacciato al sopraggiungere dell'ingiustizia" (1, 5). È possibile perciò rendere vana la grazia ricevuta e ridurre all'insignificanza il metodo pedagogico insito nel vangelo di Cristo. Tremenda possibilità che Paolo non può non considerare e segnalare ai destinatari del suo magistero.
Al contrario coloro che sono veramente disposti a imparare Cristo devono "rinnovarsi nello spirito della loro mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera", cioè la santità che viene dalla verità (e non quella che in modo illusorio potremmo pensare venire dalla nostra azione o buona volontà): si tratta cioè della rivelazione che è centrata su Gesù e stimola il pieno consenso dell'uomo all'azione di Dio. In questo Paolo sembra avvicinarsi alla teologia giovannea.
Ora siamo in grado di cogliere tutta la pregnanza dell'espressione paolina "imparare Cristo": non si tratta certo solo di una conoscenza astratta o acquisita solo per sentito dire. Al contrario questo "imparare" implica esperienza di Lui, sia pure mediata dalla sua parola e dai suoi testimoni; esige una libera e totale sottomissione a Lui mediante la fede; comporta volontà di vivere in modo conforme alla fede che professiamo; richiede fedeltà alla parola data; apre un cammino di continua assimilazione a Colui che vogliamo conoscere; promette un bene che solo Dio può dare; anticipa una esperienza che sa di paradiso.
Tutto questo fa parte di quel metodo pedagogico che Paolo ha imparato da Cristo fin dall'inizio del suo cammino di conversione. È lui perciò il primo a poter dire di avere imparato Cristo; questo è l'unico titolo per il quale Paolo può rivolgere anche a noi la stessa esortazione.

(©L'Osservatore Romano - 9-10 giugno 2008)

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