25 ottobre 2007

I teologi e la comunicazione: un editoriale di Jesus


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di Vincenzo Marras

Un paracadutista portato dal vento atterrò su un albero sotto il quale due persone discutevano animatamente. Domandò loro: «Signori, per favore, potete dirmi dove sono?». «Su un albero», risposero. E il paracadutista: «Siete certamente teologi!». E i due, guardandosi l’un l’altro: «Come sa che siamo teologi?». «Perché dite grandi verità che non servono a niente». La storiella, che descrive sarcasticamente quanto si diceva dei teologi nel passato – persone che rispondono a domande che nessuno pone o a questioni poste al vento, irrilevanti –, stride con le riflessioni cui abbiamo assistito durante i lavori del XX congresso nazionale dell’Associazione teologica italiana (vedi a pagina 30 di questo numero).
A contraddire l’aneddoto era lo stesso tema – "L’identità e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano" – posto al centro dei lavori, cui hanno partecipato oltre cento teologi, che hanno voluto visitare i luoghi determinati e concreti del vissuto degli uomini e delle donne di oggi.
Il congresso è stato una consapevole ricognizione, preoccupata e affidata alle tradizioni teologiche, dello status di questa antica questione: quella di un pensare che cerca la sua dicibilità nella tradizione e nelle parole degli uomini e delle donne di un dato tempo storico. Una teologia, quindi, che si fa interrogare e che interroga, richiamando la necessità di ridefinire il modello teorico che tende a separare pensiero sull’uomo e pensiero su Dio, evitando da una parte il rischio di una deduzione, per così dire, dall’alto, ma anche quello opposto di subordinare la comprensione dell’esperienza cristiana alla ragione. Senza nascondersi nodi conflittuali come quello posto da libertà e identità, né l’urgenza di una ritematizzazione del concetto di natura e di legge naturale, intorno a cui si concentrano molti pronunciamenti magisteriali, i teologi italiani – sacerdoti, in gran parte, e laici, uomini e donne (poche, ma ci sono) – intendono mettersi alla ricerca di grammatiche e sintassi che offrano alla Chiesa e alle culture lo spazio critico dei pensieri e delle parole.

Durante i giorni del congresso, i teologi italiani hanno potuto visitare, nella vicina penisola del Sinis, oltre le rovine dell’antica Tharros e la chiesa di San Giovanni del IV-V secolo, l’ipogeo di San Salvatore, un pozzo sacro che risale all’età neolitica (6000-4500 a.C.). Il luogo, dove si svolgevano le cerimonie legate al culto delle acque e della fecondità, fu successivamente dedicato in epoca cristiana a Cristo Salvatore: attorno a esso si sviluppò un villaggio con le cosiddette "cumbessias", alloggi per i pellegrini che continuano a recarsi ogni anno per compiere il proprio percorso devozionale. Tutte le tracce di questo santuario – il pozzo sacro prenuragico, l’altare paleocristiano e, sulla vicina parete, una scritta araba con i primi versetti del Corano – paiono identificare e suggerire ai teologi temi e luoghi dove continuare a compiere il loro servizio e la loro vocazione profetica, segnati da un’unica, grande passione: proseguire e incarnare la spinta innovatrice del Concilio Vaticano II, quale forma pertinente e incisiva di dire il Vangelo di Gesù Cristo nella nostra storia.

© Copyright Jesus, ottobre 2007

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