9 gennaio 2008

Scoprendo Benedetto XVI...un articolo del Professor Lucio Coco per "Rivista di Vita Spirituale"


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Con grande piacere pubblichiamo il seguente articolo del Professor Lucio Coco per "Rivista di Vita Spirituale" del dicembre 2007.
Ringrazio di cuore il Prof. Coco per averci messo a disposizione questo suo grande lavoro, che diventa per tutti uno strumento prezioso di approfondimento del Magistero di Benedetto XVI anche in virtu' del richiamo costante alle fonti.
Grazie di cuore, quindi, al Professore
:-)
Raffaella

Scoprendo Benedetto XVI

Lucio Coco

Tutte le risposte che non giungono fino a Dio sono troppo corte.
Benedetto XVI

Premessa

Più volte papa Benedetto XVI ha insistito sulla necessità di una nuova evangelizzazione che, vista la distanza dalla fede tipica del modo di vivere e della mentalità occidentali, in molti casi si traduce in una vera e propria prima evangelizzazione (Discorso, 21.8.05).
Per corrispondere a questa esigenza di formazione, compresa e spesso disattesa nella nostra modernità, papa Benedetto ha riproposto a più riprese nei suoi interventi, come se parlasse ad orecchi che lo intendono per la prima volta, la questione di Dio, della sua rivelazione in Gesù, riflettendo sulla natura della relazione che intercorre tra Dio e l’uomo, tra Gesù e l’uomo. I nuclei tematici a cui danno luogo queste sue considerazioni trovano sistemazione nelle tre sezioni del lavoro che presento - Dio, Gesù, Uomo - in cui concretamente si sviluppano, seguendo la prospettiva offerta dai pensieri del Santo Padre, gli interrogativi più incalzanti e pressanti della fede nel nostro tempo: il primato di Dio, il rapporto fede-ragione, la rivelazione e le questioni “pratiche” che nelle parole del papa sui grandi temi della verità, della libertà e della felicità dell’uomo danno un importante quadro di riferimento per avvicinarci alla profondità e alla attualità delle risposte che il cristianesimo riesce a dare all’uomo di oggi.

Dio

Dopo la figura gigantesca di Giovanni Paolo II, tutti hanno avvertito il peso di quella successione a pontefice. Ciò che colpiva del nuovo papa Benedetto XVI era la fragilità subito confessata e ammessa davanti al mondo intero dalla loggia centrale della Basilica Apostolica. Egli comunicava, mentre le campane di piazza san Pietro suonavano a distesa senza tuttavia riuscire a incutere timore, che la propria forza da sola non era sufficiente. Che da sé non ci sarebbe riuscito. Ma l’emozione di quel momento non gli impediva di esprimere la certezza che il Signore sa lavorare e agire anche con strumenti insufficienti… (Primo saluto del 19.4.05), cioè sa manifestare la sua forza proprio nella debolezza degli uomini, e su questa possibilità che Dio ha di trasformare gli uomini egli faceva affidamento: Così fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell’obbedienza il mio “sì” a questa scelta (Discorso, 22.12.05).

Il primato di Dio

Dobbiamo rendere nuovamente presente Dio nelle nostre società. Mi sembra questa la prima necessità: che Dio sia di nuovo presente nella nostra vita (Risposte, 6.4.06).

Quali sono state le prime mosse di papa Benedetto da quando gli è stata affidata in quel 19 aprile 2005 la guida della Chiesa universale? Mi sembra che a distanza di più di due anni dall’elezione questa strada sia già ben tracciata ed evidente. A rileggerle oggi alcune parole pronunciate nell’omelia per l’inizio del suo pontificato (24.4.05) contengono già il germe degli sviluppi futuri. In quel discorso inaugurale aveva detto che noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo cosa è la vita… (Omelia, 24.4.05). La presenza di Dio e l’incontro con Gesù: sono questi fondamentali della nostra fede che riecheggiano nelle parole pronunciate all’inizio. Da allora egli spesso è tornato e ha insistito sul tema di Dio e su quello della rivelazione. In tal senso nel nuovo cominciamento di cui egli si faceva carico e si assumeva l’onere, papa Benedetto è diventato per me, ma credo per tanti, come un grande maestro di catechismo: uno che ricomincia da capo, per non dire da zero e ti vuole accompagnare a sillabare di nuovo la parola Dio, a imparare di nuovo Gesù. È stato (ed è) il suo un continuo tentativo di recuperare l’uomo a Dio, di ricondurre a Lui l’uomo del nostro tempo, l’uomo del secolarismo che ha rimosso la domanda su Dio ed è diventato «tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza» (M. Heidegger). Perciò in questa epoca di povertà e di smarrimento, dove la voce di Dio è rara (cfr 1Sam 3,1-10) e i tempi difficili (cfr Ef 5,16) per l’annuncio di Cristo, mi hanno stupito le parole pronunciate nella chiesa parrocchiale di Introd e rivolte al clero della diocesi di Aosta il 25 luglio 2005.
La nostra fede è semplice e ricca: - ha detto in quell’occasione, in una pausa dalla vacanza in Val d’Aosta - noi crediamo che Dio c’è, che Dio c’entra. Ma quale Dio? Un Dio con un Volto, un Volto umano, un Dio che riconcilia, un Dio che vince l’odio e dà la forza della pace che nessun altro può dare. Così si esprimeva e prendeva forma il nuovo cominciamento del nuovo pontefice Benedetto XVI.

Dopo il lungo pontificato e la complessità storica del suo predecessore egli voleva far risentire e riscoprire la semplicità e la ricchezza del cristianesimo, tornava a ripetere sinceramente e candidamente, come candido è in quell’abito bianco, che Dio c’è e questo Dio ha il volto di Cristo.

Quasi Deus daretur

Mi sembra che la grande sfida del nostro tempo sia il secolarismo: cioè un modo di vivere e di presentare il mondo come "si Deus non daretur", cioè come se Dio non esistesse (Risposte, 6.4.06).

Più tardi, e stavolta non al clero della Valle d’Aosta, ma ai vescovi della CEI a Roma, avrebbe ripetuto le stesse cose, sottolineando l’urgenza di ritornare sull’inizio, sul cominciamento, non solo di un’azione pastorale ma della fede e dell’essere: Il bisogno fondamentale dell’uomo… è bisogno di Dio, non di un Dio lontano e generico ma del Dio che in Gesù Cristo si è manifestato come l’amore che salva… (Discorso, 18.5.06). Innanzitutto quindi la priorità di Dio, Dio come fondamento, perché oggi c’è chi vive… come se Dio non esistesse (Catechesi, 16.8.06).
E se non è possibile vivere questo Dio come certezza, almeno bisogna assumerlo come ipotesi. E qui mi sembra di sentire ancora meglio la voce del pontefice del terzo millennio. Il pontefice che parla a un secolo, suo malgrado, incredulo e triste. Anche se non abbiamo la forza di credere - dice infatti al clero valdostano - dobbiamo vivere quasi Deus daretur, dobbiamo vivere su questa ipotesi - come se Dio ci fosse - altrimenti il mondo non funziona. Occorre ripensare il mondo sulla scorta dell’ipotesi dell’esistenza di Dio altrimenti la realtà si scompagina sia dal punto di vista ontologico, riducendosi a pura casualità (cfr Catechesi del 9.11.05), sia dal punto di vista etico degradandosi in varie forme di relativismo. C’è in questo suo presentare Dio come ipotesi forse anche un tratto della sua timidezza, un modo per “far passare” Dio senza un grande impatto in un’epoca che ha scelto di vivere «come se Dio non ci fosse»; che ne ha fatto quasi un dogma a cui anche chi crede deve necessariamente adeguarsi. Benedetto XVI parla a quest’epoca dell’agnosticismo, del secolarismo e del relativismo (cfr Discorso, 5.6.06) e propone di provare a crederci. Il suo modo non è l’imperativo ma il condizionale, egli consiglia di fare “come se”: E sarebbe questo, mi sembra, un primo passo per avvicinarsi alla fede (Discorso, 25.7.06).

La ricerca di Dio

Dio parla in diversissimi modi con noi. Parla per mezzo di altre persone, attraverso amici, i genitori, il parroco, i sacerdoti… Parla per mezzo degli avvenimenti della nostra vita, nei quali possiamo discernere un gesto di Dio (Risposte, 17.2.07).

Questo papa tratta di Dio non con i filosofi e con i teologi, anzi agli specialisti di Dio non si stanca mai di ricordare l’umiltà di chi sa che il Dio vero e vivo… oltrepassa infinitamente le capacità umane (Discorso, 1.12.05), ma preferisce parlare di Dio con i semplici e con i piccoli.
E ad essi, attingendo alla propria esperienza di uomo, egli vuole dare delle dritte per riconoscerne i segni nella vita e vuole trasmettere la sua pace che è quella di chi ha riconosciuto Dio nella sua esistenza; egli vuole indicare come trovare Dio, come conoscere Dio. In greco, aggiungo io, conoscere Dio è sempre epígnosis, cioè un riconoscere, un vedere attraverso (epí) qualcos’altro, questo qualcos’altro sono dei segni, ma è anche la nostra attenzione, il nostro farci caso; ed è anche interessante osservare, sempre etimologicamente parlando, che in greco disperare e disperazione, sentimenti peculiari della modernità in cui siamo compresi, è apógnosis, cioè un separarsi da questa attività di conoscenza, un rinunciare a Dio e alla sua intelligenza. Perciò, in questo che è un passaggio importante per imparare a credere, con i giovani papa Benedetto non vuole fermarsi solo all’enunciazione teorica ma pratica di Dio. Credere è diventato più difficile - afferma in una intervista - perché gli uomini si sono ricostruiti il mondo loro stessi, e trovare Lui dietro a questo mondo è diventato più difficile (Intervista, 5.8.06). Allora parla della sua vita e riferisce la sua esperienza personale in questa ricerca. Si tratta di riconoscere la presenza di Dio nella nostra vita, di riconoscere per non disperare. Il passaggio è molto delicato, ed egli lo affronta accennandolo soltanto, mostrandocelo, come è giusto che sia, solo in trasparenza. Perciò quasi sottovoce può dire: Tornando alla domanda penso sia importante essere attenti ai gesti del Signore nel nostro cammino. Egli ci parla tramite avvenimenti, tramite persone, tramite incontri: occorre essere attenti a tutto questo (Risposte, 6.4.06). In questo momento egli sta descrivendo un’esperienza comune e frequente nella nostra esistenza quando scopriamo, troviamo tracce di Dio nella nostra vita e, per far ricorso al suo linguaggio figurato, della sua invisibile presenza. Lo strumento che egli ci indica è lo stare attenti, l’attenzione, quell’epí greco, che è un vedere attraverso, che è un riconoscere, che è anche uno scorgere, un intus-legere, un leggere dentro la propria storia, e perciò anche un intelligere, cioè un capire.

Credere

Nelle difficoltà della vita è soprattutto la qualità della fede di ciascuno ad essere saggiata e verificata: la sua solidità, la sua purezza, la sua coerenza con la vita (Omelia, 3.4.06).

La fede, insegna papa Benedetto, è sentire questa vicinanza di Dio, questa prossimità di Dio. La fede è scoprire Dio giorno per giorno e scorgerne le tracce negli accadimenti della propria vita.

D’altro canto la fede non è assolutamente evidenza, certezza. A un suo estremo, credere significa anche confrontarsi con la mancanza di fede, egli dice ai giovani di Cracovia durante il viaggio in Polonia (27.5.06), sollecitando così il confronto col limite oggettivo di ogni creatura che non può capire tutto e non può spiegarsi tutto. Quando era ancora un professore aveva scritto che «il credente ha netta consapevolezza di essere continuamente minacciato dall’incredulità» (Introduzione al cristianesimo), perciò alla gente di piazza san Pietro riunita per la preghiera dell’Angelus così descrive la situazione dell’uomo che si deve confrontare con l’incertezza e col dubbio: L’esistenza umana è un cammino di fede e, come tale, procede più nella penombra che in piena luce, non senza momenti di oscurità e anche di buio fitto. Finché siamo quaggiù, il nostro rapporto con Dio avviene più nell’ascolto che nella visione; e la stessa contemplazione si attua, per così dire, ad occhi chiusi, grazie alla luce interiore accesa in noi dalla Parola di Dio (Angelus, 12.3.06). Egli non vuole proporre un modello di fede ideale rispetto al quale l’uomo dovrebbe scontare inevitabilmente ogni volta la sua inadeguatezza, ma realisticamente afferma che la fede è un cammino e, come tale, deve attraversare delle prove. Però proprio nel farsi della vita, nella lotta contro se stessi, nel costruire la propria esistenza, nell’interrogarsi e nel chiedersi, la fede può sempre riportarci a Dio. Mediante la fede infatti, dice questo papa, noi possiamo aprirci un varco… e possiamo “toccare” il Dio vivente. E Dio, una volta toccato, ci trasmette immediatamente la sua forza (Discorso, 26.5.06). Ribaltando le parole famose dell’apostolo Tommaso che dice «se non vedo, non credo» (cfr Gv 20,25), papa Benedetto dice che occorre «credere per vedere» (cfr Catechesi, 19.4.06). Questa fede vissuta fa sì che la nostra vita sia pervasa dalla potenza di Dio stesso (Discorso, 26.5.06) e così noi possiamo fare l’esperienza che ci permette di andare oltre la nostra limitatezza, di superare le nostre incertezze e di accogliere la potenza e il mistero di Dio.

Notti oscure

Il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore… (Risposte, 6.4.06).

Perché il dolore? Perché il male? Papa Benedetto sente e sa che proprio questo è il discrimine più netto quando si deve decidere per Dio. Il problema egli dice non è se Dio c’è o non c’è, il vero problema è il male nel mondo (cfr Risposte, 6.4.06). «Quaerebam unde malum et non erat exitus» si domandava sant’Agostino e anche papa Benedetto di fronte all’assurdo di Auschwitz e di tutti gli Auschwitz della storia, interrogandosi sul silenzio di Dio, sul mistero indecifrabile e incomprensibile della storia (Catechesi, 23.8.06), si chiede: Dov’era Dio in quei giorni? Perché ha taciuto? (Discorso, 28.5.06). Cosa dire di fronte al dolore incomprensibile e innocente? Questa sembra che sia la contraddizione essenziale della fede, l’aporia che minaccia il fondamento di ogni credo. E Benedetto XVI è talmente convinto che questa può essere la contestazione capitale che la sua risposta egli se l’è impressa addirittura nello stemma ed è ben visibile sui suoi paramenti di papa che mostra a tutti noi in ogni funzione religiosa: una conchiglia, simbolo di viaggio, signum peregrinationis, ma anche simbolo di ciò che è limitato, finito, signum finiti. Essa infatti rinvia alla leggenda del ragazzo che con una conchiglia voleva mettere tutta l’acqua del mare in una buca e che fa capire a sant’Agostino il suo inutile tentativo di far entrare l’infinità di Dio nella limitata mente umana. Non solo il simbolo, il sigillo; la sua risposta egli ha voluto anche scriverla nella sua prima enciclica Deus caritas est, riprendendo ancora come modello e maestro sant’Agostino, il quale di fronte al male nella storia dell’uomo e della storia dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: «Si comprehendis, non est Deus» - Se tu lo comprendi allora non è Dio (n.38).

Fides et ratio

Il dialogo tra fede e ragione, se condotto con sincerità e rigore, offre la possibilità di percepire, in modo più efficace e convincente, la ragionevolezza della fede in Dio (Discorso, 5.6.06).

Dio non è solo tutto quello che si può dire e pensare di Dio. Dio si nasconde nel mistero. E la fede giunta a questo limite, a questo estremo, a questo finis terrae significa rispettare il mistero, significa riconoscerci noi stessi parte del mistero. Credere significa non sollecitare risposte ma vibrare insieme con le domande anche serrate e stringenti che ad essa e a noi il mistero della vita, il mistero della morte, il mistero di Dio continuamente pongono. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità ciò che la nostra mente non comprende fino in fondo (Omelia, 28.5.06), ma che proprio per questo ha il potere di dilatare la nostra conoscenza e ci permette di giungere al Mistero in cui siamo immersi e di ritrovare in Dio il senso definitivo della nostra esistenza (Discorso, 5.6.06). Certo non è facile ammettere una tale limitazione della ragione; ammettere una soglia, un differenziale, uno scarto sul quale l’umana conoscenza non riesce a pronunciarsi o che la ragione non riesce a colonizzare. Si ripropone nella nostra epoca lo scenario prospettato da Kant: anima, mondo e Dio appartengono alla metafisica. I problemi degli uomini sono altri, quelli della matematica, della fisica, delle scienze e così Dio viene esiliato da questo mondo. Così l’uomo che cerca deve/può trovare solo mondo e ancora mondo; come criterio di razionalità è venuto affermandosi in modo sempre più esclusivo quello della dimostrabilità mediante l’esperimento e il calcolo. La fede ci permette di risalire da questo scacco, di tornare a pensare la nostra essenza integralmente perché nella fede noi accettiamo come verità ciò che la nostra mente non può comprendere fino in fondo e non può possedere (cfr Discorso, 5.6.06). Si tratta di prendere un’altra direzione, dice papa Benedetto, e di elaborare una razionalità diversa da quella puramente scientifica e funzionale, una razionalità liberata dai limiti troppo angusti dei calcoli e dell’esattezza, una razionalità aperta al trascendente e a Dio, fondata sulla sua infinità e sul suo mistero. Proprio questo indica il binomio «fides et ratio»: una ragione che incontri la fede e che si apra alla fede proprio nella relazione che questa stabilisce con ciò che è invisibile, ineffabile, inimmaginabile… e che ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza (Discorso, 28.5.06).

Gesù

Il mondo occidentale, nel quale si respira un clima di razionalismo, chiuso in se stesso e che considera il modello delle scienze l’unico modello di conoscenza possibile, è un mondo stanco della sua propria cultura, nel quale non c’è più evidenza della necessità di Dio (cfr Discorso, 25.7.05). Di questo bisogno di trascendenza, di questa “nostalgia di Dio” papa Benedetto si fa interprete e nunzio. Ma di quale Dio si tratta? In più occasioni papa Benedetto XVI ha voluto mettere in evidenza il fatto che non si riferisce e non sta parlando di un Dio astratto, del «Dio dei filosofi», ma il Dio del Nuovo Testamento, che non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di Cristo, che dà carne e sangue ai concetti (Deus caritas est, 12), un Dio dal realismo inaudito che ha mostrato il suo volto in Gesù.

Il volto di Dio

Il tema fondamentale è che noi dobbiamo riscoprire Dio e non un Dio qualsiasi, ma il Dio con un volto umano, poiché quando vediamo Gesù Cristo vediamo Dio (Intervista, 5.8.06).
«Chi ha visto me ha visto il Padre» dice Gesù a Filippo (Gv 14,9). In Gesù Cristo è comparso il vero volto di Dio. È questo un passaggio cruciale del discorso che papa Benedetto va svolgendo dal momento della sua elezione. Dio si mostra in Gesù, Dio ha il volto di Gesù, ma qual è il volto di Gesù che a papa Benedetto preme di mostrarci? L’esperienza dei Magi è significativa. Essi erano partiti per incontrare un Re (cfr Mt 2,2) e la loro ricerca di questo Re neonato finisce davanti a un bimbo di povera gente. Possiamo immaginare - commenta il papa - lo stupore dei Magi davanti al Bambino in fasce! Solo la fede permise loro di riconoscere nei tratti di quel bambino il Re che cercavano. Il Dio verso il quale la stella li aveva orientati (Discorso, 18.8.05). Il Dio che si mostra ai Magi è un Dio differente da come se lo erano immaginato, un Dio che manifesta la sua potenza nella debolezza, un Dio che sceglie di donarsi piuttosto che di farsi servire, un Dio che trasforma radicalmente anche l’idea che essi hanno dell’uomo e di se stessi, un Dio che fa capire loro che devono essere e sentire diversamente se vogliono davvero adorare questo Dio: I Magi - egli osserva - dovevano cambiare la loro idea sul potere, su Dio e sull’uomo (Discorso, 20.8.05).

Dio Bambino

Dio è così: non si impone, non entra mai con la forza ma, come un bambino, chiede di essere accolto (Discorso, 30.12.05).

È così che papa Benedetto percorre un altro tratto sulla strada di quella evangelizzazione, che è riscoperta di Dio nel mondo, che si è ripromesso di fare, il tratto più vertiginoso e sicuramente più avvincente: mostrare chi è Gesù e mostrare che Egli è un Dio diverso, un Dio che contrappone al potere rumoroso e prepotente di questo mondo il potere inerme dell’amore, che sulla Croce - e poi sempre di nuovo nel corso della storia – soccombe e tuttavia costituisce la cosa nuova, divina che poi si oppone all’ingiustizia e instaura il Regno di Dio (Discorso, 20.8.05). Finalmente il Dio che i Magi “vedono steso sulla paglia” insegna che dobbiamo cambiare non solo l’idea che abbiamo di Dio e della sua potenza ma anche l’idea che abbiamo di noi stessi, anche noi dobbiamo diventare diversi e cercare Dio non in un altrove lontano e vago ma nella sua incarnazione. È Il cambiamento più radicale, la trasformazione più potente che la “rivoluzione” pacifica del Dio-fatto-Uomo comporta. Il Dio della mangiatoia insegna che dobbiamo imparare a servire piuttosto che a farci servire, a fare dono di noi stessi - un dono minore non basta per questo re -, che dobbiamo imparare che il potere si esercita non con la forza - a Gesù nell’Orto degli ulivi, Dio non manda dodici legioni di angeli per aiutarlo - ma nella verità, nella bontà, nel perdono, nella misericordia; questo Dio ci insegna che dobbiamo imparare a perdere noi stessi e così a trovare noi stessi (cfr Discorso, 20.8.05). Sono questi paradossi che costituiscono l’essenza del cristiano, che ne fanno uno che è disposto a ricominciare, a perdonare, a fare dono di sé, a rinunciare oppure ad intraprendere sull’esempio di Gesù che annuncia la croce e con la croce… il suo modo assolutamente nuovo di essere re, un modo totalmente contrario alle aspettative della gente (Catechesi, 24.5.06).

Deus Caritas est

Dobbiamo prendere atto di essere creature, costatare che c’è un Dio che ci ha creati e che stare nella sua volontà non è dipendenza ma un dono d’amore che ci fa vivere (Risposte, 6.4.06).

Il Bimbo del Presepe è un altro segno, dolce e delicato, di quella vicinanza di Dio che dobbiamo amare e alla quale dobbiamo sottometterci (Omelia, 24.12.05). Egli è capace di suscitare amore attorno a sé ed è prova «dell’amore di Dio per noi» (1Gv 4,9). L’amore, ecco il sentimento che il Bambino della mangiatoia sollecita e rivela. Nel suo Natale Egli viene a dirci che l’amore di Dio è apparso in mezzo a noi, si è fatto visibile in quanto Egli «ha mandato il suo Figlio unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (1Gv 4,9; Deus caritas est, 17).
Il Bambino della mangiatoia è il protagonista sublime di questa storia d’amore tra Dio e l’uomo (cfr Deus caritas est, 17). Perciò dopo aver stabilito la priorità di Dio e aver insistito sul fatto che Gesù è il Volto di questo Dio e rappresenta la visibilità stessa di Dio, papa Benedetto nel catechismo vivente col quale ha improntato gli inizi del suo pontificato, dedica la sua prima enciclica alla ragione per cui c’è l’essere piuttosto che il nulla, come direbbero i filosofi, e questa ragione è l’amore di Dio: L'amore di Dio per noi - egli scrive - è questione fondamentale per la vita e pone domande decisive su chi è Dio e chi siamo noi (Deus caritas est, 2).
All’inizio dell’essere e all’inizio dell’essere cristiano c’è il riconoscere e il credere all’amore che Dio ha per noi (cfr 1Gv 4,16). Per un cristiano questa rappresenta la scelta fondamentale della sua vita (Deus caritas est, 1).
A Introd papa Benedetto aveva insistito sul fatto che Dio c’è, che Dio c’entra. Pian piano leggendo e entrando nei testi del suo magistero noi torniamo ad apprendere, perché quasi lo avevamo disimparato e dimenticato, che questo Dio non è un Dio qualsiasi, indifferente. Ma è un Dio che crea per amore: All’origine l’uomo uscì dalle mani del Creatore come frutto di un’iniziativa d’amore (Messaggio, 2.6.06) e che ci ha amati per primo fino all’offerta totale di se stesso: Nella sua morte in croce - infatti - si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo - amore, questo, nella sua forma più radicale (Deus caritas est, 12).

Amore e conoscenza

L’uomo non vuole contare sull'amore che non gli sembra affidabile; egli conta unicamente sulla conoscenza, in quanto essa gli conferisce il potere (Omelia, 8.12.05).

L’amore di Dio può essere anche non accettato e rifiutato. È questo il territorio negativo in cui si sviluppa lo scetticismo del pensiero contemporaneo. L’uomo moderno si rifiuta di credere all’amore di Dio, egli conta unicamente sulla conoscenza, in quanto essa gli conferisce il potere (Omelia, 8.12.05). L’amore non la conoscenza è il messaggio di Dio Bambino all’uomo. Ma questo appello nell’epoca delle tecnoscienze sembra obsoleto e inattuale: L’uomo vuole attingere egli stesso dall'albero della conoscenza il potere di plasmare il mondo, di farsi dio elevandosi al livello di Lui, e di vincere con le proprie forze la morte e le tenebre (Omelia, 8.12.05). Nel Bambino di Betlemme noi rivediamo ogni volta un Dio che si rivela nella debolezza, nell’umiltà. Un Dio che si fa simile all’uomo, perché noi possiamo essere simili a Lui (Omelia, 24.12.05), che ne assume i limiti, che si mette nei nostri panni, per esaltare la condizione dell’uomo, non per deprimerla, per rivelarci la grandezza dell’uomo in questa finitezza resa grande e sublime perché visitata da Lui e dal suo amore non nella volontà di potere e di potenza. Un Dio la cui tenerezza gli fa continuamente “amare in noi ciò che ha amato nel Figlio” (cfr Prefazio VII delle domeniche del t.o.), ma l’uomo continuamente disconosce questa dignità, la rifiuta. Ostinatamente non accetta questa conversione del cuore, la respinge e davanti a lui si spalancano gli scenari disperati di chi punta sull’equivalenza di «sapere è potere», di chi rinuncia a «vedere con il cuore» (cfr Deus caritas est, 31b) e con ciò sprofonda con la sua vita nel vuoto, nella morte (Omelia, 8.12.05). Ancora una volta l’uomo della modernità si pone al di fuori del fondamento che è Dio e anche dell’essenza di questo fondamento che è l’amore, perciò per questo uomo della scienza e della tecnica l’amore che rinuncia a conoscere, che si prende cura e trova il tempo per l’altro, come il buon Samaritano che si ferma a soccorrere il malcapitato sulla via di Gerico (cfr Lc 10, 30-37), per un tale uomo educato al calcolo esatto delle ascisse e delle ordinate questo amore sembra la cosa più difficile. Più facile è sapere, costruire, progettare, - al limite anche una guerra o programmare uno sterminio - difficile, difficilissimo è amare, perché è necessario rinunciare a se stessi, perché occorre farsi incontro all’altro, cioè ospitarne i bisogni e farsi ospitare dall’altro, cioè rivelargli le nostre ombre, le nostre fragilità, le nostre solitudini e in questo modo farci prossimi a noi stessi alla nostra umanità bisognosa di cure, di sollievo, di amore.

Deficit d’amore

Solo colui che sa di essere amato è a sua volta sollecitato ad amare (Discorso, 5.6.06).
Che cosa è che rende l'uomo immondo [cfr Gv 13,10]? - si chiede papa Benedetto, sviluppando il tema dell’umana supponenza. È il rifiuto dell'amore, il non voler essere amato, il non amare. È la superbia che crede di non aver bisogno di alcuna purificazione, che si chiude alla bontà salvatrice di Dio (Omelia, 13.4.06). Il peccato è sempre lo stesso, quello dell’orgoglio dell’uomo che pensa di poter fare a meno di Dio e con ciò rifiuta anche il suo amore che ci ha creato e rende vane anche tutte le conoscenze che egli riesce ad accumulare e a produrre, perché esse diventano tutte problematiche, a volte pericolose, se manca la conoscenza fondamentale che dà senso e orientamento a tutto: la conoscenza di Dio Creatore (Catechesi, 11.1.06). Quanto oggi l’assenza di Dio - mi viene da pensare - è dettata, almeno inconsapevolmente dalla non accettazione di questa relazione con Dio Creatore e dal rifiuto della nostra condizione di creature! In quest’epoca della hybris egli consiglia di fare un passo indietro e di pensarsi come creature e per ciò stesso limitate e bisognose d’amore e questo può accadere senza snaturare la natura dell’uomo, senza soffocarla, anzi addirittura esaltandola perché quest’uomo che si riconosce di Dio, che si sa amato da Dio, nella misura in cui percepisce questo affetto è a sua volta sollecitato ad amare. Noi - dice papa Benedetto - non possiamo amare se non ci sentiamo amati, se non abbiamo dentro di noi questa sicurezza, se non gorgoglia in noi questa fonte che a sua volta deve riversarsi nel mondo come capacità di amare. Il pensiero di papa Benedetto in modo mirabilmente sintetico fornisce una chiave importante per leggere e interpretare molti segni del nostro povero presente incapace d’amore e contiene forse la ragione per cui oggi si sente così poco amore attorno a noi, poiché manca questa esperienza fondante della vita di essere ed essere stati amati, di sentirsi amati. L’esistenza come dono e come parte del progetto d’amore di Dio, è questo che la nostra epoca ha cancellato e rimosso insieme con Dio: Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario (Omelia, 24.4.05). Noi invece crediamo di essere il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione, perciò è così difficile trovare e dare amore su questa terra, perciò questo sentimento è così raro e spesso viene contrabbandato da altre forme e sostituito da surrogati che piuttosto che rendere piena l’esperienza dell’amore la svuotano di ogni significato, perciò papa Benedetto vuole ritornare a insegnarci a guardare il mondo con un’altra consapevolezza, a guardare l’uomo con occhi diversi, con lo sguardo di Gesù attraverso il quale posso dare all'altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno (Deus caritas est, 18).

L’uomo del mio tempo

Essere capaci di guardare questo nostro tempo con lo sguardo della fede significa essere in grado di guardare l'uomo, il mondo e la storia alla luce del Cristo crocefisso e risorto, l'unica stella capace di orientare "l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica" (Fides et ratio, 15) (Discorso, 22.5.06).

Nessuno più ci educa a vedere nell’uomo l’immagine del Creatore e in ogni cosa del creato il segno di Dio: per l'intelligenza umana sembra sia diventato troppo arduo rendersi conto che, guardando il creato, ci si incontra con l'impronta del Creatore (Discorso, 27.2.06). Anche noi abbiamo dimenticato questo sguardo, a cui il Santo Padre ci vuole riabituare, lo sguardo della fede che ci impone di leggere tutto sotto la luce trasfigurante di Cristo (cfr Discorso, 22.5.06). L’uomo oggi è ridotto sempre più a merce e l’umanità, se va bene, a mercato, per costruire magazzini sempre più grandi (cfr Lc 12,18). Prevale una pseudocultura che si manifesta nella fuga verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro… (Omelia, 8.1.06), «un’anticultura» che esprime l’idea di una «cosificazione» dell’uomo che lo riduce ad un mero oggetto (cfr Omelia, 8.1.06) e che gli preclude qualsiasi orizzonte trascendente e ogni possibilità di vita nello spirito. L’uomo, anche oggi mentre scrivo, viene inutilmente ucciso dalle bombe e la sua anima viene offesa e annichilita perché non se ne conosce più la dignità e l’altissima vocazione e destinazione. La volontà di potenza, di dominare sull’altro, il nichilismo di chi riduce tutto a calcolo e a proprio tornaconto, di chi trasforma l’uomo in mezzo e ne ignora volutamente il fine si è impossessato di noi e noi a stento riusciamo a riconoscerlo nelle nostre giornate che sono diventate perciò sempre più nervose e ansiose. La nostra umanità si è sclerotizzata e inaridita. Illusa dai progressi della scienza e della tecnica essa non riesce ad attingere a nessun contenuto autentico dal momento che non è più capace di pensare a Dio e di accettare il suo limite di creatura: vero progresso è solo quello che salvaguarda la dignità dell’essere umano nella sua interezza (Discorso, 24.11.05). E in questo suo ostinato rifiuto non si dimostra più grande ma più limitata, non riesce ad accettarsi come tale. A incarnarsi nell’idea giusta di uomo, una creatura fatta per vivere e per morire, per amare e per essere amata, per comunicare e condividere con gli altri quella verità immensa di cui partecipa e che riconosce in Dio. Non riesce ad accettare l’idea che può perdere, che non deve solo vincere, non riesce più ad abbandonarsi all’etica del dono, a ciò che può ricevere per amore e che non può essere comandato - non c’è più nessuno che glielo insegna, solo questo papa, fin dal tempo della sua Introduzione al cristianesimo, quando scriveva che «Credere… significa dare il proprio assenso a quel “senso” che non siamo in grado di fabbricarci da noi, ma solo di riceverlo come un dono, sicché ci basta accoglierlo e abbandonarci ad esso».

Uomo

Papa Benedetto non perde mai l’occasione di mettere l’uomo al centro di ogni discorso su Dio e su Gesù, di fletterlo e di innalzarlo al loro sublime livello. L’uomo di papa Benedetto infatti non è mai preso astrattamente e separatamente ma sempre in rapporto col Padre e col Figlio che diventano così i termini di paragone e di confronto per segnalare le derive che l’uomo ha preso e anche per indicare le mete grandi e altissime per cui è fatto e a cui è destinato. Come Dio non è solitudine perenne, ma, un circolo d'amore nel reciproco darsi e ridonarsi, Egli è Padre, Figlio e Spirito Santo (Omelia, 24.12.05), così anche l’uomo non esiste da solo ma deve vivere di questo movimento, di questo dinamismo spirituale che lo lega a Dio e lo fa partecipe di Cristo in un vincolo in cui è racchiuso il segreto della santità (Omelia, 19.8.05).

Dinamica di una relazione

Lasciare che l’"io" di Cristo prenda il posto del nostro "io" (Angelus, 25.6.06).

Grande è lo spazio di approfondimento e di riflessione che il Santo Padre dedica alla natura del legame tra Dio e l’uomo, tra Gesù e l’uomo. Certo scegliere Dio non sempre è facile. Dio ci vuole vedere crescere. Spesso dobbiamo rinunciare a qualcosa, sicuramente di non essenziale, per esempio alla vuota chiacchiera, allo spreco di tempo e di denaro per cose che sono inutili. Dio vuole delle persone consapevoli, forma delle persone coscienziose. Egli fa maturare gli uomini, ne sviluppa la verità e l’autenticità. La stessa regola di san Benedetto che il papa cita nella sua prima udienza generale, quando spiega le ragioni del suo nome, di nulla anteporre al Signore (cfr Catechesi, 27.4.05), non ha solo il valore estrinseco di pura obbedienza e osservanza di una norma, ma soprattutto ha un valore intrinseco che rivela questo Dio esigente che ci vuol vedere crescere come uomini, superare i nostri vizi e maturare umanamente (cfr Discorso, 15.10.05). «Più Dio meno io»: questa potrebbe essere la formula pratica che papa Benedetto ci vuole suggerire. In un’epoca che privilegia l’individualismo, il narcisismo, l’egoismo nell’illusione che l’uomo coltiva di farsi più grande, di diventare adulto, egli ripete che la grandezza dell’uomo sta in questo riconoscersi di Dio, di appartenere a Dio: è questa la sua autentica dignità capace di esaltarne le doti e le potenzialità non quella che ne enfatizza l’autosufficienza e ne denuncia invece la sufficienza che non lo rende più grande e più puro, ma lo danneggia e lo fa diventare più piccolo (Omelia, 8.12.05). «Mio Dio e mio tutto», diceva san Francesco e il papa ha parole simili quando afferma che Dio solo basta per donare pienezza all’esistenza umana (Discorso, 11.5.06). Con Dio si tratta di fare un passo indietro: «Egli deve crescere e io invece diminuire», dice Giovanni Battista (Gv 3,30), fornendoci una testimonianza netta di quella che deve essere la giusta relazione col Signore. E proprio dalle parole del precursore il papa ricava un’istruzione formidabile per noi: si tratta - così spiega - di lasciare che l’"io" di Cristo prenda il posto del nostro "io" (Angelus, 25.6.06).

Dono e perdono

Discepolo di Cristo è chi, nell’esperienza dell’umana debolezza, ha avuto l’umiltà di chiedergli aiuto, è stato da Lui guarito e si è messo a seguirLo da vicino, diventando testimone della potenza del suo amore misericordioso, più forte del peccato e della morte. (Angelus, 23.7.06).

Egli continuamente propone all’uomo di fare posto a Dio, di spostare il centro fuori da se stesso e di trasferirlo in Dio, attraverso gli strumenti umani della modestia, dell’umiltà, del riconoscersi bisognosi d’aiuto e di essere guariti. In questo sta il primato di Dio, non solo nel riconoscimento, che può sembrare puramente teorico e astratto, della sua esistenza. Il primato di Dio deve cambiare necessariamente l’uomo e il suo essere nel mondo. L’uomo che accetta il primato di Dio deve riconoscere che la propria forza da sola non è sufficiente…, che nessuno ce la fa soltanto da sé (Omelia, 29.6.06); deve imparare a essere debole e bisognoso di perdono (Catechesi, 24.5.06); deve sapere che Gesù si adegua a questa nostra debolezza (Catechesi, 24.5.06). Solo a queste condizioni possiamo tornare ad apprendere quella logica misteriosa e gratuita che fa della salvezza, della santificazione, della fede e di tutto un dono (Omelia, 3.6.06). La prima condizione è lasciarsi donare qualcosa, non essere autosufficienti, non fare tutto da noi, perché non lo possiamo, ma aprirci nella consapevolezza che il Signore dona realmente (Discorso, 2.3.06). È tutto un lavoro che l’uomo deve fare dentro di sé per togliere, un lavoro di sottrazione, più che di addizione per fare spazio a Dio e per accogliere Gesù. Si tratta più di un levare che di un mettere per lasciarsi trovare dal Signore e dalla sua grazia. In un epoca di psicologismi, di attenzione esasperata all’io e alla psiche, Gesù diventa il vero pedagogo, capace di prendere l’anima, capace di ridarle e restituirle la sua dimensione e la sua giustificazione. È proprio qui, in questo venirci incontro del Signore, in questo adeguamento divino, nel suo perdono che è possibile ritrovare le ragioni della fiducia e della speranza dell’uomo che continuamente deve misurarsi con la propria limitatezza e inadeguatezza, con le proprie cadute e debolezze, senza presumere di pianificare la vita in maniera autonoma e interessata, ma facendo spazio all’imperscrutabile volontà di Dio, che conosce il vero bene per noi (Catechesi, 28.6.06).


Uno sguardo d’amore

Lo sguardo di Gesù opera la trasformazione e diventa la salvezza (Omelia, 29.6.06).

Papa Benedetto parla con sicurezza. Senza sfumature esprime la certezza della sua adesione a Cristo e a Dio. Una voce forte e al tempo stesso disarmata in un secolo incredulo; una voce solitaria per la semplicità dell’annuncio. I Padri della Chiesa chiamavano parresía questa facoltà di nominare l’essenziale della vita e della fede, di parlare direttamente all’uomo e di arrivare a curarlo mostrandogli ciò che è invisibile agli occhi ma si scorge soltanto con il cuore. La sua fede è semplice, esige e vuole il cuore, non le chiacchiere, le discussioni, le teologie e tanto meno il pregiudizio.

Una fede attenta all’uomo, che ne sa i limiti, li comprende, non li giustifica ma neppure li stigmatizza, perché riconosce che nella grazia può tornare a splendere come per la prima volta la luce del Dio che è amore. Egli tratta questa dinamica senza nessun moralismo, senza mai dirgli ciò che egli deve essere, senza mai obbligarlo con un imperativo, sforzandosi sempre di vedere l’umana debolezza con lo stesso sguardo di Gesù creduto e amato con la nostra debole ma sincera fede, nonostante la nostra fragilità (Catechesi, 24.5.06). In ciò egli rivela una grande comprensione della natura umana. Del resto è lui stesso che ci svela questo tratto della sua anima amorevole quando dice che non c'è un vero conoscere senza amore, senza un rapporto interiore, senza una profonda accettazione dell'altro… Conoscere deve essere sempre anche un conoscere con il cuore (Omelia, 7.5.06). Tutta la fenomenologia del dono e del perdono è fondata sull’uomo e per l’uomo. Perciò dove è più forte il rischio per l’uomo, dove è possibile e più probabile la caduta, proprio qui si riscopre la prossimità di Dio, la vicinanza stessa del Gesù Bambino, si sente la prossimità della salvezza. Papa Benedetto continua a mostrarci la grande tenerezza che c’è tra Dio e l’uomo e il grande rapporto che può nascere tra Dio e l’uomo se l’uomo decide di fidarsi di lui.

Ecco l’uomo!

Se l’uomo si lascia abbracciare da Cristo, non mortifica la ricchezza della sua umanità; se a Lui aderisce con tutto il cuore, non gli viene a mancare qualcosa (Discorso, 2.4.06).

È sempre un atto di Dio che può trasformarmi. È Dio stesso infatti che dice: i tuoi peccati ti sono perdonati. E che si tratti di una cosa non da poco, che questo gesto valga più di un miracolo è proprio Gesù a confermarcelo per esempio nella circostanza della guarigione del paralitico che al confronto risulta più facile della remissione dei peccati (cfr Mc 2,1-12). Così Egli ci toglie un carico che altrimenti rischia di schiacciarci, come rischia di schiacciare Pietro che l’aveva rinnegato come dimostra il suo pianto amaro (cfr Lc 22,62). Non siamo solo noi gli artefici di noi stessi, i soggetti della storia, c’è anche Lui. Lui che fa da sempre insieme a noi quel tratto di strada che separa Gerusalemme da Emmaus. Lui che ama la sua creatura nel suo peccato e non la abbandona a se stessa (Omelia, 13.4.06), che gli trasmette uno sguardo d’amore col quale guardare con più amore se stessa. Solo se ne siamo intimamente trasformati anche noi possiamo riuscire tra di noi ad avere uno sguardo comprensivo, una decisione che assolve nel nostro modesto e spesso feroce quotidiano, il perdono - scrive infatti il papa - libera innanzitutto colui che ha il coraggio di concederlo (Discorso, 6.7.06). Gesù porta a compimento questo percorso di maturazione e di crescita dell’uomo: «Cristo… svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Guadium et spes, 22). Egli diventa, per usare le parole del pontefice, la misura del vero umanesimo (Discorso, 13.5.05). Tutto ciò che ci avvicina a Cristo ci avvicina all’umanità più autentica (cfr Catechesi, 4.1.06). Ecco l’uomo! In un’epoca in cui l’immagine dell’uomo è scomposta e frantumata sotto l’urto di modelli economici, psicologici e biologici che le negano unità e verità, Gesù si pone di fronte all’uomo nella sua interezza, per guarirlo completamente, nel corpo, nella psiche e nello spirito (Discorso, 11.2.06). Gesù è la garanzia dell’integrità dell’uomo e della sua integralità, del suo essere un tutt’uno (Discorso, 11.2.06). Gesù restituisce all’uomo un volto e una dignità, che l’attuale situazione storica e culturale vorrebbero negargli e togliergli, un nucleo di verità essenziale che dice a noi confusi e smarriti di questo terzo millennio che l’uomo non vale per la sua efficienza, per il suo apparire, ma per se stesso, perché creato e amato da Dio (Discorso, 2.4.06). Ecce homo! Dobbiamo imparare sempre più a riconoscere dietro l’immagine del Gesù flagellato, con la corona di spine e il mantello di porpora che Pilato presenta ai giudei (cfr Gv 19, 1-7) il «vero uomo», - del resto Egli ci ha abituati a questi rovesciamenti, a questi paradossi, fin dal suo mostrarsi ai Magi in una mangiatoia - a saper leggere dietro quella maschera di sofferenza e di dolore l’uomo nuovo (cfr Col 3,9), quello delle beatitudini, l’uomo che ha raggiunto la consapevolezza che se non c’è una verità da seguire la felicità diventa miraggio inafferrabile e la libertà degenera in istintività (Messaggio, 31.5.06).

Verità e libertà

Senza la conoscenza della verità la libertà si snatura, si isola e si riduce a sterile arbitrio (Discorso, 10.2.06).
Solo all’interno di un umanesimo autentico che riconosce nell’uomo l’immagine di Dio e vuole aiutarlo a realizzare una vita conforme a questa dignità (Deus caritas est, 30b) secondo il modello di umanità vera che ci dischiude il Volto di Gesù si possono costruire le basi di una morale in cui la libertà e la felicità dell’uomo siano garantite e corrispondano e realizzino pienamente la dignità e i valori della persona. Per ciò che riguarda la libertà papa Benedetto parla molto chiaramente, con franchezza come può fare un padre: Libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni (Omelia, 21.8.06). E noi viviamo secondo la verità del nostro essere solo se viviamo secondo la volontà di Dio, solo intrattenendo un rapporto profondamente personale con il Signore che opera dentro di noi (Discorso, 5.6.06). La verità è sempre in questo sforzo di adeguazione con la volontà di Dio, con l’ascolto della sua Parola. A differenza dei greci che consideravano la verità come svelamento (alétheia) di qualcosa che già c’è ed è quasi presupposto, la verità del cristiano è pratica nella misura in cui prevede questo sforzo che dobbiamo esercitare su noi stessi per arrivare alla chiarezza, per arrivare alla trasparenza, liberandoci di tutto ciò che è ombra e falsificazione ed entrare in contatto, in una relazione sempre più profonda, con Dio e con la sua volontà. Si tratta - egli dice - di ascoltare la parola di verità, vivere, parlare e fare la verità, rifiutare la menzogna che avvelena l'umanità ed è la porta di tutti i mali (Catechesi, 1.3.06). Perciò per sottolineare questo elemento creativo, poietico della verità papa Benedetto preferisce l’espressione “fare la verità” che possiamo incontrare nel Vangelo (cfr Gv 3,21, testo greco). Solo l’uomo che è impegnato nel “lavoro” della verità può arrivare a uno sguardo puro su se stesso, che si scopre in sintonia con la volontà di Dio, solo l’uomo che si affida totalmente a Dio - egli dice a proposito del sì di Maria all’angelo - trova la vera libertà, la vastità grande e creativa del bene (Omelia, 8.12.05).

La ricerca della felicità

Felice l’uomo che dona; felice l’uomo che non utilizza la vita per se stesso, ma dona (Catechesi, 2.11.05).

Nella consapevolezza che la volontà di Dio è il vero bene la libertà si riconosce fatta per il bene e ci guida alla vera felicità (cfr Omelia, 18.12.05). L’uomo di oggi non ha forse più coscienza di questa ricerca, ignaro di questo sforzo, sempre più spesso si mostra incapace di aspettare e di desiderare autenticamente. È smanioso, vuole tutto e subito e in ciò dimostra che non è libero da se stesso e dalle sue passioni (cfr Omelia, 7.5.06). È una povera creatura decaduta, non c’è più uno sguardo capace di restituirgli la sua centralità e la sua importanza, uno sguardo che sappia cogliere l’essenziale di cui abbiamo veramente bisogno ben più che le cose esternamente necessarie (cfr Deus Caritas est, 18). Così questo uomo non riconosce più il significato della felicità. Gli idoli di felicità che ci vengono proposti ci lasciano infatti ancora più vuoti e insoddisfatti. Nella nostra società dei consumi essi sono veicolati dalle cose e dai beni e la stessa felicità assume l’aspetto decisamente materialistico di un benessere garantito e soddisfatto dalle merci in base alla rigorosa equivalenza, sottintesa in qualsiasi messaggio pubblicitario, di avere ed essere. Non si riesce a pensare alla felicità “per sottrazione” di noi e dei nostri bisogni, alla felicità come un togliersi per dare, come un privarsi per restituire. Ai giovani il papa ricorda proprio questo: I beati e i santi sono state persone che non hanno cercato ostinatamente la propria felicità, ma semplicemente hanno voluto donarsi (Discorso, 20.8.05). La felicità contrabbandata oggi è una felicità assetata di “addizione”, una felicità sempre col segno più. Perciò mi è sempre sembrato significativo il fatto che nei Vangeli la parola «felicità» non ci sia; di volta in volta essa è sostituita da dei sinonimi che però non la traducono perfettamente. Essa infatti potrebbe essere l’equivalente del termine «beatitudine». Ma se si guardano le beatitudini del discorso della montagna (cfr Mt 5,3-12), queste hanno poco in comune con l’idea di felicità dei nostri giorni. Quelle beatitudini indicano un modello che poco conviene con l’istinto di potenza che veicola la nostra idea di felicità: beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, beati quelli che piangono… Sembra anzi che la felicità dei nostri tempi voglia tenere lontano queste condizioni e l’eventualità che possiamo trovarci in situazioni simili. Un altro termine con cui la parola «felicità» potrebbe intersecarsi e stabilire tangenze è «gioia». Ma la gioia che si propone deve essere interpretata; essa non coincide con il grido del vincitore o con l’esultanza di chi è riuscito in un’impresa magari anche a scapito degli altri. Sul tema della gioia fa notare papa Benedetto che il cristianesimo ci dà gioia, come l’amore dà gioia. Ma l’amore è anche sempre rinuncia a se stesso. Il Signore stesso ci ha dato la formula di che cosa è amore: chi perde se stesso si trova; chi guadagna e conserva se stesso si perde (Discorso, 25.7.05). La gioia che egli annuncia non corrisponde alla nostra immagine di felicità, così troppo spesso egoistica e chiusa in se stessa; questa gioia vuol dire farsi da parte, privarsi di qualcosa e darla piuttosto che volerla, contiene in sé una radice di rinuncia. Scriveva Isidoro di Siviglia che «felice è colui che fa essere felice un altro» ed è con questo desiderio di felicità donata che mi sembra interpretare meglio i suoi sentimenti che vorrei terminare, pensandolo come suggello non solo di questo lavoro su papa Benedetto ma delle nostre vite.

© Copyright Rivista di Vita Spirituale, dicembre 2007

2 commenti:

gemma ha detto...

un grazie al professor Coco anche da parte mia

euge ha detto...

Grazie Prof. Coco per questo bellissimo ed interessante articolo
Eugenia