9 gennaio 2008
Un debito contratto con lo Spirito Santo: il Concilio visto dal cardinale Karol Wojtyla (Osservatore Romano)
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Il Concilio Vaticano II e la sua attuazione
Un'ermeneutica della riforma radicata in Cristo
Nel 1972 l'arcivescovo di Cracovia, il cardinale Karol Wojtyla, decise di illustrare ai fedeli della sua diocesi i frutti dell'insegnamento conciliare in un volume appena ripubblicato (Alle fonti del rinnovamento. Studio sull'attuazione del Concilio Vaticano Secondo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, pagine 437, euro 19). In questa pagina riproduciamo la prefazione scritta dal cardinale Camillo Ruini, vicario di Roma, la premessa di Adam Kubis e di Stanislaw Nagy e l'introduzione del cardinale Wojtyla.
Camillo Ruini
Nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 Benedetto XVI ha offerto un'analisi penetrante della recezione del Concilio Vaticano II, indicando la via maestra del superamento della contrapposizione di "due ermeneutiche contrarie" che "si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro". "L'una - affermava il Papa - ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino".
Già poco tempo dopo la conclusione del Vaticano II, e certamente a far data dal 1968, l'interpretazione dei testi - e dello "spirito" - del concilio diventa oggetto di dibattito acuto, con l'affermarsi di linee divergenti anche all'interno del mondo cattolico. Al rifiuto di alcuni, che vedevano nel concilio una sostanziale rottura con la tradizione, si contrapponevano quanti consideravano la novità del concilio tale da condurre a un'apertura radicale nei confronti della cultura del nostro tempo, con modalità senz'altro variegate e per molti versi divaricate, ma in questo decisamente convergenti. Si trattava di un'interpretazione disinvolta, in realtà spesso riduttiva ed elusiva, la cui eco non è del tutto spenta, come mostrano posizioni anche recenti di storici e teologi. L'appello generico allo "spirito del concilio" espone al rischio di interpretazioni soggettive, che fraintendono l'autentica natura dell'evento conciliare e aprono lo spazio a sviluppi difficilmente compatibili con la sostanza del cattolicesimo.
"All'ermeneutica della discontinuità - proseguiva Benedetto XVI nel suo magistrale discorso - si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965". Ermeneutica in cui la tradizione vive nell'intreccio fecondo e fedele di continuità (che non è ripetizione) e novità (che non è cambiamento della sostanza). Un impegno che scaturisce anzitutto da un rapporto vitale e spirituale con la parola della fede e da una vissuta ecclesialità: via "estremamente esigente - è ancora Benedetto XVI che parla - come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l'orientamento che ha guidato la recezione del concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant'anni dopo il concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell'agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l'opera svolta dal Concilio".
L'opera di Karol Wojtyla che presentiamo in questa nuova veste editoriale costituisce il primo e forse a tutt'oggi il più approfondito studio nell'ottica di tale ermeneutica della riforma.
In essa non si contrappone il Vangelo alla modernità, ma neppure lo si stempera dentro una adesione acritica di sapore immanentistico. Al contrario, emerge l'esigenza - e insieme la sfida - dell'incentramento antropologico, dove l'equilibrio è colto in quella reciprocità che non è declinata come mediazione riduttiva e rinunciataria, ma come intuizione feconda e originaria della legge dell'incarnazione. Nella luce della realtà e del mistero di Gesù Cristo trovano infatti unità - senza mai assorbirsi l'uno nell'altro - i due poli essenziali del discorso teologico: Dio e l'uomo.
Sarà questo, del resto, l'asse portante della prima e programmatica enciclica di Giovanni Paolo II Redemptor hominis, dove l'uomo "è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell'Incarnazione e della Redenzione" (14); ma lo è fondamentalmente perché "Gesù Cristo è la via principale della Chiesa" (13), perché "Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando - come insegna il Concilio - "con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo" (Gaudium et spes, 221)" (13).
Nell'enciclica immediatamente successiva Dives in misericordia Giovanni Paolo II sviluppa per così dire questo principio, contestando e superando in radice la contrapposizione tra antropocentrismo e teocentrismo: "Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull'uomo, quanto più è, per così dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell'ultimo Concilio" (1).
Nel 1972, a dieci anni dall'apertura del Concilio Vaticano II, l'allora Cardinale di Cracovia sente il bisogno di riprenderne organicamente l'insegnamento, quale fermento e pietra fondamentale del rinnovamento della Chiesa. Egli intende offrire un vero e proprio, articolato e organico, vademecum del concilio.
L'interpretazione wojtyliana del Vaticano II quanto più si radica in Cristo, tanto più invita a una grande e coraggiosa uscita dai discorsi autoreferenziali, dal proprio orto e recinto. Non per adattamento che insegue lo spirito del tempo - non aveva torto il teologo anglicano William Ralph Inge quando scrisse: "Colui che desidera sposare lo spirito del tempo si ritrova presto vedovo" (citato in Peter Ludwig Berger, Una gloria remota, Avere fede nell'epoca del pluralismo, il Mulino, Bologna, 1994, pagine 16 e seguenti) - ma per esigenza e coerenza interna allo stesso messaggio cristiano e alla grande tradizione cattolica. La frequenza con cui nel suo studio Wojtyla fa riferimento alla Gaudium et spes lo conferma chiaramente.
I fermenti teologici e spirituali della prima metà del Novecento - non esclusa la forte ripresa del filone tomista, che ha registrato debolezze e rigidità, ma anche forti intuizioni e illuminazioni - hanno costituito così quel grande moto di rinnovamento che sfocia nell'aggiornamento del Vaticano II. L'ampia riflessione wojtyliana è imperniata sul riferimento trinitario, che non solo la apre tematicamente ma la compenetra tutta come suo orizzonte, ed è concentrata sullo sviluppo organico di quella antropologia cristologica che consente di fare unità tra l'approfondimento speculativo e l'orientamento dell'azione ecclesiale.
Wojtyla aveva ben presente l'amara constatazione di Max Scheler, da lui studiato approfonditamente, che già nella sua opera del 1928 Die Stellung des Menschen im Kosmos (La posizione dell'uomo nel cosmo) notava: "Abbiamo una antropologia scientifica, una antropologia filosofica e una antropologia teologica che si ignorano a vicenda. Così non possediamo una qualche idea concreta di quel che l'uomo è. Nella loro sempre più grande molteplicità le discipline particolari applicatesi allo studio dell'uomo, più che chiarirne il concetto lo hanno oscurato e reso oscuro". Una questione, questa, che rimane aperta e scottante e che diviene sempre più complessa: basti pensare al campo delle neuroscienze, al dibattito sulle origini dell'universo, al prevalere di un diffuso scetticismo conoscitivo, nei quali l'uomo, invece di riconoscere la propria finitezza e la grandezza che lo apre all'infinito, rischia di perdere la sua specificità di soggetto e di ridursi ad un oggetto tra gli altri. Su questo terreno si scopre la vera attualità del Vaticano II e l'urgenza di proseguirne il cammino.
"Desideriamo quindi ardentemente attuare il Concilio" scriveva l'allora arcivescovo di Cracovia, avviandosi a concludere - dopo aver trattato le dinamiche salienti della responsabilità pastorale e del vissuto ecclesiale - il suo ampio studio. È questo anche oggi il nostro desiderio, illuminato dalla parola dell'attuale Pontefice e largamente sentito dal popolo di Dio, per quel senso della fede che gli è donato. Ed è campo di lavoro e di responsabilità di teologi e pastori, per la missione che è loro propria. La lettura di questo saggio nutre e sostanzia tale intento, con la fecondità della verità e dell'amore che vengono dall'intelligenza e dal cuore di Wojtyla, testimone della fede e protagonista della storia.
(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2008)
Un debito contratto con lo Spirito Santo
Karol Wojtyla
Un vescovo che ha partecipato al Concilio Vaticano II si sente debitore verso di esso. Il Concilio infatti, oltre a quei pregi che già gli furono attribuiti e a quelli che gli verranno attribuiti in futuro, ha un valore e un significato unico e irripetibile per tutti coloro che vi hanno preso parte e lo hanno portato a compimento, anzitutto quindi per i vescovi, padri conciliari. Partecipando attivamente, per quattro anni, al Vaticano II ed elaborandone i testi, essi sono venuti in pari tempo ad arricchirsi spiritualmente in virtù del concilio che vivevano. La stessa esperienza di una comunità universale era per ognuno di loro un grande bene, di portata storica. La storia del concilio che solo in avvenire potrà essere scritta in modo esauriente, era già presente come avvenimento straordinario negli animi di tutti i vescovi che vi partecipavano, durante il periodo che va dal 1962 al 1965; assorbiva completamente i loro pensieri, stimolava la loro responsabilità, era esperienza eccezionale e realtà profondamente vissuta.
Da tale esperienza, storicamente già chiusa ma spiritualmente sempre in atto, sorge per l'appunto l'esigenza di pagare il debito contratto. Quando ci domandiamo con chi sia stato contratto, allora siamo condotti - pur attraverso tutte le persone, le enunciazioni, le menti, gli atteggiamenti, le prospettive, attraverso tutta la visibile realtà dell'assemblea conciliare - a colui che è l'invisibile, a colui che incessantemente adempie la promessa fatta un tempo agli apostoli nel cenacolo: "Egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto" (Giovanni, 14, 26).
Tramite la complessa esperienza del concilio abbiamo contratto un debito verso lo Spirito Santo, verso lo Spirito di Cristo. Questo infatti è lo Spirito che parla alla Chiesa (cfr Atti degi Apostoli, 2, 7): durante il concilio e per suo mezzo, la sua parola è divenuta particolarmente espressiva e decisiva per la Chiesa. I vescovi, membri del collegio, che hanno ereditato dagli apostoli la promessa fatta da Cristo nel cenacolo, sono tenuti in modo particolare a essere consapevoli del debito contratto "con la parola dello Spirito Santo", perché furono essi a tradurre in linguaggio umano la parola di Dio.
Questa espressione, in quanto umana, può essere imperfetta e rimanere aperta a formulazioni sempre più precise, però nello stesso tempo è autentica, perché contiene proprio ciò che lo Spirito "disse alla Chiesa" in un determinato momento storico. Così la consapevolezza del debito deriva dalla fede e dal Vangelo, che ci permettono di esprimere la parola di Dio nel linguaggio umano dei nostri tempi, connettendolo all'autorità del supremo magistero della Chiesa.
Cristo disse: "Io sono con voi tutti sino alla fine del mondo" (Matteo, 28, 20). Queste parole hanno acquistato una freschezza nuova durante il concilio.
La consapevolezza del debito verso il concilio è unita al bisogno di dare una ulteriore risposta. È la fede a esigerla. Questa infatti, per sua essenza, è una risposta alla parola di Dio, a ciò che lo Spirito dice alla Chiesa. Quando dunque si parla dell'attuazione del concilio, in ultima analisi si tratta proprio e soltanto di questa risposta.
La giusta prospettiva per valutare il problema è quella della fede, cioè della sua struttura vitale in ogni cristiano. Da tale prospettiva nasce del resto anche la consapevolezza del debito da pagare. E se questa consapevolezza è viva in ogni cristiano, deve esserlo in modo particolare nel vescovo: si tratta appunto della risposta alla parola dello Spirito, alla espressione umana della quale egli stesso ha partecipato. Come membro del concilio, egli è un testimone particolare e insieme un debitore di questa parola. Perciò deve sentire un'autentica responsabilità nei riguardi della risposta integrale della fede, che alla parola del Signore, alla parola dello Spirito, daranno la Chiesa e il mondo. In ciò consiste la continuità della testimonianza uscita dal cenacolo.
Sarebbe un errore il non considerare l'attuazione del Vaticano II come risposta della fede alla parola del Signore trasmessa da questo concilio.
Ed è auspicabile che l'idea che guida l'attuazione del Vaticano II sia quella che intende il rinnovamento intrapreso dal concilio come una tappa storica dell'autorealizzazione della Chiesa. La Chiesa infatti, attraverso il concilio, ha precisato non soltanto che cosa pensa di se stessa, ma anche il modo in cui vuole realizzare se stessa. La dottrina del Vaticano II si rivela come immagine, adeguata ai nostri tempi, di tale autorealizzazione della Chiesa, immagine che in vari modi deve permeare le anime di tutti i membri del popolo di Dio. Se talvolta adoperiamo il termine "iniziazione conciliare" lo facciamo appunto in questo senso. "Iniziazione" significa sia "introduzione" sia addirittura "partecipazione al mistero". Il vescovo, come autentico testimone del Concilio, è colui che ne conosce il "mistero" e perciò grava su di lui principalmente la responsabilità della introduzione e della iniziazione alla realtà del concilio stesso. Essendo egli maestro di fede, spetta soprattutto a lui sollecitare questa risposta della fede, che dovrebbe costituire il frutto del concilio e la base della sua attuazione.
Questo libro è ideato come un saggio di "iniziazione". Non vuole essere un commento ai documenti del Vaticano cosa questa che riguarda i teologi, e che essi - anche in Polonia - stanno instancabilmente offrendo. Questo libro potrebbe essere considerato piuttosto un vademecum che introduce ai relativi documenti del Vaticano II, ma sempre dal punto di vista della loro attuazione nella vita e nella fede della Chiesa. Infine, questo libro va considerato non come uno studio scientifico, bensì come un ampio studio "di lavoro" nell'ambito dell'attività della Chiesa nel mondo, e in particolare di quella polacca. Infatti, la Chiesa cerca in se stessa e nel mondo un'adeguata forma corrispondente alla verità del concilio, a quel soffio dello Spirito che l'ha pervaso.
Offro e dedico il presente libro soprattutto a coloro che nella Chiesa di Cracovia mi aiutano generosamente e collaborano con me, come vescovo, ad attuare il Vaticano II.
(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2008)
Protagonista è la figura del credente
Adam Kubis e Stanislaw Nagy
Quando il Concilio Vaticano II ebbe inizio, ci si attendeva da esso un "aggiornamento" della Chiesa, che aprisse anche una via verso l'unione dei cristiani. Durante le sessioni conciliari queste finalità hanno cominciato a delinearsi più chiaramente. L'episcopato del mondo intero ha riflettuto sulle implicazioni pastorali di molti elementi essenziali della fede cristiana e, in particolare, sulla realtà e sulla missione della Chiesa. Proprio al centro di questa problematica si inserisce il libro del cardinale Wojtyla.
Il titolo stesso - Alle fonti del rinnovamento. Studio sull'attuazione del Concilio Vaticano II - consente di cogliere le premesse fondamentali dell'opera e indica chiaramente che l'autore considera il Vaticano II come la pietra miliare del rinnovamento della Chiesa. È sua convinzione che il concilio sia per la Chiesa un segno dei tempi poiché illumina il mondo con la luce che Cristo ha portato. Secondo l'autore l'autentico rinnovamento ecclesiale si deve identificare soprattutto con l'attuazione del concilio. Questo non significa che il cardinale Wojtyla consideri il Vaticano II come l'unico ed esclusivo punto di partenza per l'autorealizzazione della Chiesa contemporanea. Da sempre, infatti, esistono gli eterni problemi dell'uomo e sempre permane valido il messaggio immutabile del Vangelo. Nell'ambito di tali problemi e di tale messaggio si inserisce sia l'insegnamento del concilio sia l'orientamento pastorale in esso contenuto.
Occorre sottolineare che, nel suo studio, Wojtyla non ha affrontato i problemi riguardanti i metodi pratici di attuazione del Vaticano II. (...) L'autore ha incentrato la sua attenzione quasi esclusivamente su ciò che deve venire attuato. E lo ha fatto con piena consapevolezza, partendo dal principio che le riflessioni che si riferiscono al modo in cui va realizzato il concilio debbono essere precedute da quelle che riguardano ciò che si deve attuare.
Lo studio sull'attuazione del Vaticano II - oltre all'introduzione e alla conclusione - comprende tre parti: la prima, che spiega il significato fondamentale dell'iniziazione conciliare, costituisce un'ampia introduzione all'analisi, che viene proposta nelle due parti successive, le quali trattano rispettivamente della formazione della coscienza e degli atteggiamenti. L'opera nel suo insieme si presenta come una sorta di sintesi degli aspetti principali della dottrina conciliare. In primo luogo, l'autore ha posto in luce la problematica dei documenti ecclesiologici, ossia della Costituzione dogmatica sulla Chiesa e della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Agli altri documenti ha invece attribuito il ruolo proporzionato alla funzione che essi hanno nel complesso dell'insegnamento conciliare.
Ma qual è la natura delle sintesi che l'autore ci propone e che cosa ci insegna circa il Vaticano II?
Senza alcun dubbio a volte il libro dà l'impressione di riordinare in un certo senso i prescelti testi conciliari. Del resto lo afferma l'autore stesso definendo il suo libro come "uno studio di lavoro", o un vademecum del concilio, che si propone lo scopo di sistematizzare in qualche modo la grande ricchezza dell'insegnamento conciliare. Questo, tuttavia, non è l'aspetto più importante. L'essenziale è la chiave secondo cui il cardinale Wojtyla ha operato tale sistematizzazione e il fine che ha in tale modo raggiunto.
Alle fonti del rinnovamento nelle sue più profonde premesse è, secondo l'autore, una ricerca e, nello stesso tempo, una risposta alle domande legate alla fede e a tutta l'esistenza dell'uomo credente: che cosa significa essere cristiano e vivere nella Chiesa e nel mondo contemporaneo? Queste sono domande di carattere esistenziale, perché non riguardano solo la verità della fede, e cioè della pura dottrina, ma la collocano anche nella coscienza e nell'esistenza concreta dell'uomo, esigendo una determinazione di quegli atteggiamenti in cui si deve configurare la vita di chi è cattolico credente. In altre parole, esse riguardano la fede non soltanto dal punto di vista del puro contenuto delle verità rivelate, ma dal punto di vista della sua pienezza nella dimensione dell'esistenza cristiana. La risposta a queste domande ha condotto Wojtyla a rileggere e a riorganizzare l'insegnamento del concilio nella prospettiva esistenziale e, nello stesso tempo, a mettere in luce il suo orientamento pastorale, servendosi delle proprie riflessioni che egli fa scaturire dall'antropologia cristiana.
Grazie a questo la dottrina del concilio, radicata nella Scrittura e nella Tradizione, presenta nel libro anche una conoscenza più approfondita dell'uomo. Di qui il linguaggio tipico dell'autore, il modo originale di formulare la dottrina e la particolare insistenza su alcune verità. Nuove infatti sono le prospettive e le finalità. L'accento viene posto sulla persona del credente, non sul contenuto della fede. L'opera del cardinale Wojtyla tende dunque a creare una approfondita consapevolezza cristiana e maturi atteggiamenti verso il mondo contemporaneo.
Inoltre, occorre rilevare che questo libro è stato scritto da Wojtyla con il pensiero rivolto al sinodo pastorale dell'arcidiocesi di Cracovia, che allora inaugurava i suoi lavori. Il sinodo si era prefisso come scopo l'arricchimento della consapevolezza della vita nella fede. Esso voleva raggiungere questo scopo, tra l'altro, tramite lo studio dell'insegnamento del Vaticano II e una riflessione sulla più integrale attuazione delle sue direttive. Le commissioni sinodali e i gruppi di studio - questi ultimi senza possedere una veste ufficiale, erano stati convocati dal sinodo - si giovarono dell'opera del loro vescovo, ricevendone un aiuto per programmare la loro attività. Lo Studio di Karol Wojtyla ha loro mostrato, fin dalle sue premesse, che cosa si deve fare quando ci si impegna nell'attuazione del concilio.
È noto che il Concilio di Trento e il Concilio Vaticano I, per esempio, hanno avuto prevalentemente un carattere dottrinale, in quanto si sono posti soprattutto degli scopi apologetici. Difendendo la Chiesa da ogni deformazione della fede cattolica, definirono la verità in pericolo e condannarono le dottrine erronee. Invece, l'orientamento del Vaticano II - come abbiamo accennato - è stato in primo luogo pastorale. Rinunciando consapevolmente alle definizioni dogmatiche questo concilio voleva presentare la dottrina cattolica soprattutto nel suo rapporto verso l'uomo e il mondo contemporaneo, e in tale maniera promuovere la disponibilità al dialogo, alla collaborazione e alla solidarietà verso tutti gli uomini di buona volontà.
L'opera del cardinale Wojtyla sull'attuazione del Vaticano II rimane fedele a tale orientamento del concilio. Non vi si trovano accenti polemici, sebbene sia stato scritto in una situazione piena di tensioni e a volte di tendenze contraddittorie all'interno della Chiesa stessa. Interpretando serenamente la lettera e lo spirito del Vaticano II ricorda che il concilio non ha perduto la sua attualità, ne dà segni di invecchiamento. L'autore dello studio vuole aprire a tutti il tesoro "delle cose nuove e vecchie" (Matteo, 13, 51).
(©L'Osservatore Romano - 9 gennaio 2008)
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