8 gennaio 2008

Universale, non intollerante. La fede secondo Joseph Ratzinger-Benedetto XVI (da «Perché siamo ancora nella Chiesa», Rizzoli)


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Il Pontefice

IL LIBRO

Universale, non intollerante La fede secondo Ratzinger

La missione universale della fede cristiana non porta con sé né intolleranza né alcuna forma di «assolutismo»: lo afferma Benedetto XVI in una raccolta di scritti teologici da domani in libreria.

Anteprima «Perché siamo ancora nella Chiesa»: una raccolta di scritti teologici di Benedetto XVI sulla missione cristiana e i rapporti con le ideologie moderne

di JOSEPH RATZINGER PAPA BENEDETTO XVI

L'«assolutismo» cristiano — osservato nei suoi contenuti — è un universalismo, che si basa su quello di Israele il quale, superando i suoi confini nazionali, adora solo e unicamente il Dio dell'universo, il «Dio del cielo», e così completa per primo l'evasione dalle sbarre della dimensione nazionale e smaschera come demoni gli dei che vi confinano gli uomini.
Ma, bisogna ora chiedersi subito con uno sguardo alla storia, in pratica questo universalismo non si ripercuote proprio in modo contrario come un particolarismo estremamente esagerato e posto in maniera assoluta?
La religione ebraica e in seguito quella cristiana furono le uniche incompatibili con l'impero romano, mentre gli dei erano dappertutto intercambiabili e potevano integrarsi in pace in un grande pantheon. Non è stato proprio l'universalismo dell'ebraismo e del cristianesimo a portare all'inizio il principio dell'intolleranza nella storia religiosa, e questo principio non è la conseguenza necessaria della forma dell'universalismo cristiano-ebraico?
Chi ha posto con attenzione queste domande deve aver sentito il bisogno di apportare qui una precisazione, così da evidenziare le differenze tra la posizione di Israele e quella cristiana nella storia della religione. Entrambe hanno di certo in comune il fatto di non essersi lasciate inserire nel pantheon di Roma: questo deriva necessariamente dalla forma fondamentale del loro rapporto con Dio. Ma solo la religione cristiana ha sfidato in grande stile la Roma politeista a una presa di posizione combattiva, poiché essa si sentì minacciata nel proprio politeismo, che rappresentava il principio fondamentale dell'antico Stato in quanto tale, solo dalla religione cristiana. Da parte sua, la religione di Israele non si inserì certo nell'antico pantheon, ma non lo minacciò neppure veramente e poté perciò essere tollerata. (...) Nel Nuovo Testamento si delinea un altro quadro. In Cristo, secondo la fede cristiana, Dio stesso è entrato nella storia, in lui sono cominciati già gli ultimi eventi, la fine dei tempi è già qui e dal pellegrinaggio dei popoli al monte Sion viene ora il pellegrinaggio di Dio verso i popoli. L'universalismo non rimane più mera visione di ciò che verrà, ma deve essere trasformato in dato di fatto concreto con la fede nel presente della fine dei tempi — il che è proprio il senso della missione.
I Padri della Chiesa — seguendo il ductus del Nuovo Testamento — intendono l'avvento di Cristo come un mistero dell'unificazione: il peccato era separazione nell'egoismo di ogni singolo; era «Babilonia», ovvero demolizione dei ponti della comprensione, assolutizzazione del particolare nell'egoismo individuale e collettivo della nazione e persino nell'idolatria — come assolutizzazione falsa e che porta gli uni contro gli altri.

La fede al contrario preannuncia il messaggio dell'unità che supera ogni confine e che attraverso ogni confine crea la comprensione in un unico spirito (...)

Ma guardando alla storia del cristianesimo non ci potremo sottrarre all'impressione di una certa discordanza tra l'idea del messaggio e i tentativi della sua messa in pratica. Certo, l'annuncio dell'unità degli uomini e lo sforzo di renderla valida nel mondo furono e sono qualcosa di grande — la storia ha ricevuto con ciò una nuova direzione, contro la quale noi non siamo quasi più realmente in grado di andare col pensiero. Ma chi professa questo non potrà neanche negare il pericolo e le conseguenze che ne derivano.

La tentazione dell'intolleranza, dell'istituzione di un'assolutezza interna al mondo e senza salvezza, che mette in questione l'altro per l'eternità, diventa enorme — sotto i presupposti intellettuali di determinate epoche essa appare persino invincibile.

Ciò che una volta era promessa diventa ora — così sembra — un precetto: la salvezza dell'altro non sembra più dipendere dalla misericordia divina, bensì dal successo degli sforzi dell'istituzione ecclesiastica. Se fosse così, allora bisognerebbe certamente definire l'idea missionaria un regresso spaventoso rispetto alla semplice e pura speranza di Israele. (...) In effetti bisognerà dire che a questo punto si deve imparare a comprendere la missione meglio di quanto non si sia fatto sinora — e ciò significa certamente partire dalle radici della sua interpretazione: questo è un compito primario della moderna teologia missionaria.
A tale proposito vorrei cercare di abbozzare solo brevemente due riflessioni.

1) Se in un certo senso si può dire che nella questione dell'universalismo il cammino dall'Antico verso il Nuovo Testamento (o in modo più corretto: da Israele verso la Chiesa) è un cammino dalla promessa al comandamento (il compito missionario è un comandamento che Israele non conosceva in questo modo), allora questa prospettiva parziale va necessariamente inquadrata nella prospettiva fondamentale secondo la quale, proprio al contrario, il cammino dall'Antico al Nuovo Testamento è un cammino dal comandamento alla promessa. È proprio questo il contenuto della teologia abramitica che Paolo espone nel capitolo quarto della Lettera ai Romani, il pensiero centrale della predica paolina in genere. Allora la prospettiva del comandamento è in ogni caso inquadrata e subordinata a quella della promessa: il comandamento può esistere solo come espressione della promessa.

2) Se si entra un poco più in profondità nel messaggio di Gesù, nel contesto del comandamento missionario e in genere del pensiero missionario protocristiano, si vedrà molto presto che quello che è appena stato detto non solo rappresenta un postulato fondamentale in base alla struttura del messaggio cristiano, bensì trova spiegazione e chiarimento nella volontà di Gesù. La predicazione di Gesù non fu innanzitutto predicazione della Chiesa ai popoli, bensì annuncio del Regno di Dio, e quindi nel messaggio dell'universalismo proprio di Gesù rimase anche la pura promessa, come ha già mostrato Joachim Jeremias. Il fatto che suscita scandalo e che per molto tempo non è stato sufficientemente indagato, è però quello che descrivono gli Atti degli Apostoli e che costituisce la loro vera affermazione teologica: che il messaggio del Regno di Gesù — che aveva trovato il suo primo rifiuto già con la crocifissione e che però dopo la resurrezione era stato offerto ancora una volta — è stato definitivamente rifiutato da Israele e da lì in avanti il messaggio può esistere solo nel modo dell'essere in cammino verso i popoli. Noi chiamiamo Chiesa questo essere in cammino dell'annuncio ai popoli. Da quel rifiuto del messaggio, che li rese senza patria e li costrinse all'essere in viaggio, nacque la missione (che così coincide con la Chiesa stessa, in un senso molto profondo); essa nacque come la nuova forma della promessa... Missione come forma dell'universalismo Regno (cioè nella situazione di un'umanità non escatologicamente compiuta, bensì peccaminosa, che si indica per tutti nel no di Israele), non ha altra dimora che l'essere in cammino. (...) Penso che una missione, che comprenderà se stessa sempre di più in base a queste impostazioni, non può rappresentare alcuna opposizione all'universalismo, ma, fedele al proprio senso, sarà proprio l'espressione di esso. E non può significare neppure un'opposizione alla tolleranza: la teologia della missione si è liberata della copertura di tipo religioso e sociale, copertura che per lungo tempo è stata ritenuta ovvia, e così è nata l'idea della libertà della confessione di fede religiosa nel sangue dei martiri, che è qualcosa di diverso rispetto alla relatività e sostituibilità dei simboli con la quale essa viene oggi spesso confusa. Però, quali capovolgimenti ha portato la storia, quante colpe! E tuttavia, grazie a Dio, il suo senso non si è mai estinto. Alla missione non sono mai venute a mancare figure come quella di Las Casas, che hanno interceduto coraggiosamente per la non violenza della Parola. E così essa è rimasta, con tutte le debolezze e gli errori, certamente la coscienza dei colonizzatori, l'unico freno del «colonialismo», il rifugio dell'umano all'interno di esso.

(1 — Continua)

© Copyright Corriere della sera, 8 gennaio 2008, consultabile online anche qui


Il brano

Dio, ragione, Europa: lezioni del futuro Papa

Il testo

Pubblichiamo un ampio brano tratto del libro di Joseph Ratzinger «Perché siamo ancora nella Chiesa», 306 pagine, 19 euro, in uscita domani da Rizzoli.
Il titolo richiama quello di una conferenza svolta da Ratzinger nel 1970, allora cattedratico di dogmatica e storia del dogma all'università di Ratisbona — Perché sono ancora nella Chiesa —: una risposta allo «scandalo» che rappresenta l'appartenenza alla Chiesa di Cristo

Le idee

Il volume raccoglie per la prima volta gli interventi che il futuro Pontefice — teologo, poi vescovo, infine Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede — ha svolto frequentando per oltre quarant'anni l'Accademia cattolica di Baviera. Si tratta di lezioni, conferenze, dibattiti dai quali emergono con forza i temi (più volte affrontati poi nel magistero papale) della missione (il brano qui pubblicato), delle radici dell'Europa, del dialogo con il pensiero razionalista.

© Copyright Corriere della sera, 8 gennaio 2008

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