8 maggio 2008

Esegesi biblica e diritto romano del matrimonio: quando i Cristiani non si sposavano in chiesa (Osservatore Romano)


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Esegesi biblica e diritto romano del matrimonio al XXXVII Incontro di studiosi dell'antichità cristiana

Quando i cristiani non si sposavano in chiesa

di Giuliano Crifò
Università di Roma La Sapienza

Un discorso su matrimonio e diritto romano potrebbe svilupparsi su due piani. Il primo attento alla materialità di vite matrimoniali variamente vissute, cristiane e non cristiane, nel quadro dell'appartenenza a Roma quando non ci sposava in chiesa ma vigeva in certo senso il "moglie e buoi dei paesi tuoi". Vi sarebbe rilevante il problema, per la parte cristiana, della preferenza assoluta di un matrimonio tra fedeli, nonché quello di nozze "secondo il Signore" e sotto la guida del vescovo.
L'altro piano sarebbe quello in cui cogliere la novità cristiana del matrimonio e il fatto della sua presenza o meno nelle modificazioni normative. Queste riconducono da un lato ad attività proprie del potere politico, in sostanza alla legislazione imperiale, e da un altro lato alla specifica attività giustinianea di recupero, attualizzazione, riforma del diritto precedente, dunque, tecnicamente, in primo luogo alle possibili interpolazioni dei testi normativi. Qui conta la specifica esegesi. (...)
Su un piano invece generale, sostanzialmente storiografico, si tratterebbe di ripercorrere le ragioni che hanno portato a parlare di diritto romano cristiano e fanno ricondurre a impulsi della cosiddetta lex christiana trasformazioni e novità avutesi nel diritto tardoantico, e sempre con attenzione alla possibilità che vi si debba vedere una influenza diretta o indiretta e comunque differenziata sotto tanti punti di vista. (...)
Comunque, non è una questione di poco conto (e considerarla permette un giudizio meno radicale circa la sostanza delle cose) osservare che è lo stesso propugnatore ed espositore della formula del "diritto" romano cristiano, B. Biondi, a parlare piuttosto di "legislazione" romano-cristiana. Quest'ultima è effettivamente una espressione in sé corretta e valida rispetto a una quantità di testimonianze di vario tipo. Qui, però, c'è stato un salto. E anzitutto, è saltato in via generale un passo necessario, vale a dire, come ormai siamo tutti convinti, che queste testimonianze, raccolte sulla base di determinate direttive con criteri ufficiali nel Teodosiano, richiedono una lettura da farsi anzitutto ex sese, nel contesto della loro propria storicità, dunque prima e fuori del Teodosiano e come provvedimenti che hanno una origine e una ragione normativa non ancora astratta da quel contesto e non ancora dipendente da una interpretazione sistematica di tipo codicistico né tanto meno alla luce di organiche rielaborazioni della disciplina.
Ciò che è particolarmente evidente per quanto riguarda il diritto di famiglia, ad esempio in tema di tutela e curatela o in altri campi, ma in modo ancor più incisivo per la disciplina matrimoniale quale si trova nelle Novelle giustinianee, in specie 22, 74, 117, 134. Qui è certo indiscutibile il sigillo cristiano, ad esempio nel sanzionare grazie al giuramento sul vangelo (...) il carattere di moglie legittima della concubina, restando fermo comunque che anche per il diritto delle Novelle è la constatazione della presenza o dell'assenza dell'affectio maritalis a distinguere il matrimonio legittimo dal concubinato, per se stesso certamente lecito senza le antiche discriminazioni (cfr Novelle, 18, 4, 2; 22.18; 74, 4 pr., 89, 1.1, 12).
Rispetto a tutto questo, andrà dunque considerato con attenzione quanto è stato autorevolmente affermato, da un lato nel senso che le novità cristiane avrebbero rappresentato una "nuova impostazione" (e le leggi postclassiche un tentativo "di adeguare l'antico ordinamento" a essa), da un altro lato, che "Giustiniano non solo nel codice ha dato largo posto alle leggi postclassiche (...) ma ha voluto disciplinare organicamente l'istituto su basi cristiane con la Novella 22 del 535, la più lunga delle sue leggi, la quale con i suoi 48 capitoli costituisce, come dice il Bonfante, un vero codice matrimoniale cristiano, che lo stesso legislatore dichiara suggerito Dei clementia e si contrappone alla legislazione pagana che con grande enfasi viene abrogata" (Biondi). Ma in realtà Bonfante si era limitato a dire che "si era così svolto sulla base precipua dei beni nuziali un regime delle seconde nozze, che venne poi riordinato e rifuso più volte, nonché ampliato dall'imperatore Giustiniano, segnatamente in quella specie di codice coniugale cristiano, che è la Novella 22".
Del resto, non è corretto parlare genericamente di abrogazione della legislazione pagana. Come ha insegnato Jean Gaudemet, "la legislazione civile rimane distinta da quella elaborata" del resto, modesta e tardivamente "dalla Chiesa". Si aggiunge, certo, che essa "gradualmente cerca di venire incontro ai suoi desideri". Se questo si fa, sarà pur sempre il diritto "romano-romano" a entrare in conto, nel campo matrimoniale come vedremo ancor più che in altri campi o meglio, così come in campi apparentemente più impregnati da un'impronta cristiana, del tutto certamente in quello matrimoniale. Si è anche parlato di un dualismo secolare tra matrimonio civile (che è quello che la Chiesa recepisce) e matrimonio religioso (basato sul carattere di sacramento), un dualismo in cui scomparirebbe quella presenza egualmente religiosa (etico-religiosa) che lo stesso Biondi pur brevemente illustra per il matrimonio, come egli dice, di età pagana. Il che non sembra accettabile, di fronte alla sostanziale continuità del matrimonio pagano nella cosiddetta epoca cristiana e al fatto riconosciuto che la Chiesa dei primi tempi non ne ha messo in discussione la nozione giuridica. Riconosciutane comunque la prevalenza determinante, lo stesso autore precisava di non occuparsi "del modo con cui nella prassi si conciliasse il dualismo, sebbene si possa supporre che nella coscienza dei fedeli il precetto religioso si presentasse con una intensità vincolante maggiore di quello puramente civile". In verità, proprio della prassi ci si dovrebbe invece interessare ed è per questo che appare giustificato quel titolo da ritrovare di "quando i cristiani non si sposavano in chiesa". Ovvero, "i cristiani si sposano come gli altri". (...)
Ma veniamo al matrimonio. Qui vale, senza essere peraltro una semplificazione, che si distingua tra fatto e diritto. Comincio dunque con l'insistere su cose notissime, prendendo le mosse dalla Genesi (2, 24): "L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne". Si tratta, si dice, dell'istituzione biblica del matrimonio e questo, ad esempio in Clemente Alessandrino, è apparso come "primo convenire (cioè, coito) dell'uomo e della donna secondo la legge per la seminagione di figli legittimi" o anche come in Tertulliano, per il quale il matrimonio è prevalentemente ridotto a un congiungimento fisico fra uomo e donna. (...)
Le fonti romane, siano esse di ordine strettamente retorico o propriamente giuridiche, parlano sì, a proposito di nuptiae, di coniunctio maris et feminae, ma aggiungono et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio e ancora non enim coitus matrimonium facit, nuptiae enim non concubitus sed consensus facit. Sembra evidente, a parte un persistente atteggiamento fondamentalistico, che l'intervento della qualificazione giuridica si pone in contrapposizione sostanziale con il dato fattuale. Da qui taluni problemi sempre sollevati in dottrina (convivenza, consenso, forme, e così via) legati a differenti valutazioni esegetiche dei nostri testi.
Per cui, ben sapendo che le cose cambiano nel corso dei tempi - dalle leges regiae (Romolo) alla rogatio Canuleia, dalla memoria del primo caso di divorzio alle leggi matrimoniali augustee, da Diocleziano a Giustiniano - andrà fissato qualche momento dell'evoluzione dell'istituto senza pretendere che talune espressioni ricoprano l'intera sfera della storia giuridica del fatto "matrimonio" o, se si preferisce, che la/le definizioni rispecchino la struttura e la funzione dell'istituto nell'integrale porsi della loro storicità. E così, cominciando dalle definizioni che troviamo nelle nostre fonti, occorre distinguerne il carattere assertivo e regolativo da quel che sinteticamente sta a indicarne la formazione storica. (...)
Si dovrebbe procedere nella linea di passaggio dal fatto naturalistico alle connotazioni che, intervenendo sul piano degli effetti, danno corpo all'istituto giuridico. Nella stessa esperienza romana un ulteriore elemento sembrerebbe ricavabile dallo stesso termine matrimonium, a conferma del rilievo essenziale del conseguimento di figli. L'espressione, insieme a patrimonium, mercimonium, testimonium, parsimonia, caerimonia, avrebbe a che fare con l'attività domestica materna, indicherebbe la posizione di madre e più propriamente, dal punto di vista linguistico, si riferirebbe a ciò che riguarda appunto in via prioritaria la madre, in rapporto a figli, famiglia, fatti di culto im Rahmen - si è detto - der Faktizität römischer Hausgemeinschaft e che, conformemente ai mores, riguarda più la mater che il pater. Se è così, non si supera però ancora il richiamo all'Hausgemeinschaft, ma certamente si resta fermi alla mancata costruzione del matrimonio come rapporto giuridico e alla sua realtà come soziale Tatsache, sviluppatasi in comunanza di vita caratterizzata dall'affectio maritalis e proiettata alla procreazione di figli, ciò che, nel processo di giuridicizzazione, si concentra sulla sottoposizione alla patria potestas come conseguenza della nascita da iustae nuptiae.
Gioverà segnalare qui la possibile discussione circa la portata di una distinzione tra il "sociale" e il "giuridico" ma soprattutto una meno persuasiva caratterizzazione del matrimonio romano come "istituto per sua natura più sociale che giuridico", per l'uso qui del termine "istituto". Dopo di che però è invece molto opportuna l'osservazione che "ciò che si qualifica genericamente matrimonium o nuptiae è un concetto che è visto da un punto diverso, seppure non divergente, da iustae nuptiae, termine che designa (...) il fatto matrimoniale considerato nei suoi presupposti giuridici attinenti soprattutto alla capacità, stabilita dal diritto, di contrarre nozze (conubium) da cui nascano figli legittimi". In effetti, nel processo di giuridicizzazione, ci si concentra anzitutto sulla sottoposizione alla patria potestas come conseguenza della nascita da iustae nuptiae. Sulla successione ereditaria per i figli e per il coniuge, sulla costituzione e la restituzione della dote, sulla criminalizzazione dell'adulterio, sul divorzio, sulla legittimazione dei liberi naturales ma, in primissimo luogo, sulla stessa evenienza linguistica che fa parlare di volta in volta di matrimonium iustum, matrimonium iniustum, matrimonium incestum. (...)
Insisterò anzitutto sul conubium, cioè "la capacità di contrarre matrimonio legittimo (iustum matrimonium, iustae nuptiae) con una persona di cittadinanza romana". E qui importa la chiarificazione bettiana: "non è da credere che "matrimonio legittimo" significhi "matrimonio romano"". (...) Ma la condizione del padre latino - il suo status civitatis - non muta per effetto del matrimonio. Essa resta quella che era prima. E il conubium non può valere a conferirgli diritti inseparabili dallo status di cittadino romano. Da qui - e dalla diversa situazione avviata in qualche modo fin dalla constitutio Antoniniana - può anche seguire una attenuazione del presupposto del conubium rispetto a unioni legittime liberamente contratte in assenza di altri determinati impedimenti. Già si hanno però unioni coniugali di stranieri, matrimoni vietati ma validi ai fini di certe conseguenze giuridiche - così la legittimità di figli nati da matrimonio vietato dalle leggi matrimoniali augustee - i profili della cognatio e della adfinitas servili nel contubernio, la destinatio animi come elemento decisivo per individuare l'unione concubinaria, essa stessa legitima coniunctio, situazioni e problemi su cui non posso però trattenermi.
In un recentissimo lavoro sul diritto tardoantico si parla della "profonda trasformazione" che circa il matrimonio appare verificarsi nel corso del IV secolo, quando, rispetto al principio consolidato del consenso continuato della comune vita coniugale, il matrimonio "si andò configurando come vero e proprio negozio giuridico, per il sorgere del quale bastava il consenso iniziale dei nubendi che, pure se in seguito fosse venuto meno, non avrebbe inficiato la validità dell'istituto. Questa nuova concezione, se da un lato dette luogo alla ricerca di un'adeguata forma di obiettivazione del consenso matrimoniale, dall'altro spinse il legislatore a rendere più stabile il vincolo coniugale limitando la possibilità dei divorzio a pochi casi" (De Giovanni). Giova però ricordare che questa distinzione - consenso continuo secondo il diritto romano classico, consenso iniziale nella dottrina cristiana, ragion per cui la "trasformazione" dipenderebbe da quest'ultima, retta dall'idea dell'indissolubilità sacramentale - "è seducente. Spiega le differenze tra i due regimi. Ma nessun testo prova che sia stata proposta dai giuristi o dagli autori cristiani" (Gaudemet). Comunque, nel 535 provvede Giustiniano nel modo più chiaro a confermare il principio tradizionale: Nuptias... affectus alternus facit dotalium non egens augmento. Cum enim semel convenerit seu puro nuptiali affectu sive etiam oblatione dotis et propter nuptias donationis, oportet causam omnino sequi etiam solutionem aut innoxiam aut cum poena, quoniam horum quae in hominibus subsequuntur, quidquid ligatur, solubile est (...). "Parole - diceva Bonfante - caratteristiche, che riaffermano per l'ultima volta con singolar chiarezza di energia la realtà umana e il diritto dello Stato di fronte alle pretese insorgenti della Chiesa e alla stessa parola di Cristo (...). Giustiniano, il più cattolico degli imperatori bizantini, assume di parafrasare la parola divina, per inculcare che il diritto dello Stato non va confuso con gli ideali della Chiesa. Il quod Deus coniunxit equivale per lo Stato al neque nubent". Valutazione pacata che trova conclusione in una pagina che meriterebbe di esser riferita integralmente, anche per l'interna tensione che la anima - un voluto ossimoro - e che non deve esser dimenticata.

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Nessuna divisione nello spirito e nella carne

di Marilena Amerise

Durante la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, nel Regina Caeli del 13 aprile 2008 Benedetto XVI ha pregato per "numerose e sante vocazioni al sacerdozio, alla vita consacrata e missionaria e al matrimonio cristiano". Il Papa ha ricordato che "anche quella al matrimonio cristiano è una vocazione missionaria: gli sposi, infatti, sono chiamati a vivere il Vangelo nelle famiglie, negli ambienti di lavoro, nelle comunità parrocchiali e civili. In certi casi, inoltre, offrono la loro preziosa collaborazione nella missione ad gentes".
Se da un lato, la concezione cristiana del matrimonio si pone nel solco della tradizione romana, dall'altro vi era una diversa sensibilità nei confronti dell'unione coniugale. Il matrimonio cristiano si differenziava da quello contemplato dalla tradizione giuridica romana per il principio dell'indissolubilità e la condanna dell'adulterio e del concubinato. Le raccomandazioni disciplinari degli scrittori cristiani erano rivolte inoltre sia agli uomini sia alle donne. Il matrimonio era visto infatti anche come comunione di sentimenti e ideali, un rapporto nel quale marito e moglie erano su un piano di parità e di collaborazione morale e spirituale, e ciò naturalmente diventava ancora più realizzabile nel momento in cui condividessero le stesse opinioni e fossero quindi entrambi cristiani. È indicativa a questo proposito una pagina di Tertulliano, che nel trattato dedicato alla moglie scrive: "Che coppia quella di due cristiani uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola norma di vita, un solo servizio! Ambedue fratelli, ambedue compagni di servizio; nessuna divisione né nello spirito, né nella carne, ma davvero due in una sola carne". Questo aspetto di comunione religiosa rappresenta una delle novità del matrimonio cristiano rispetto a quello classico.
Il matrimonio cristiano fu oggetto anche di denigrazione, non solo da parte delle sette ereticali, come ad esempio gli encratiti (i continenti), che condannavano le nozze, ma a volte anche dagli stessi cristiani. Girolamo rischiò di essere accusato di eresia a causa delle sue posizioni estreme espresse a riguardo del matrimonio, in particolare nel suo trattato Contro Gioviniano del 393, nel quale attaccò Gioviniano, condannato a Roma nel 390 per aver negato la verginità di Maria. Girolamo utilizza i classici tòpoi della letteratura sulle molestiae nuptiarum per distogliere dal matrimonio, sebbene, bisogna sottolinearlo, mantenga sempre una atteggiamento di prudenza: non si pone, infatti, mai in aperto contrasto con le istituzioni del mondo romano e si rivolge sempre a donne sui iuris. Per Girolamo alla verginità e al matrimonio sono riservati posti diversi in quanto "matrimonio, e verginità stanno tra loro come non peccare e fare del bene". Il matrimonio se non è condannato, è comunque posto in una posizione subordinata. Le esortazioni di Girolamo contro le nozze vanno a inserirsi nel contesto storico della diffusione dell'ascetismo nei ceti aristocratici della società romana della fine del IV secolo, fenomeno che è stato considerato da alcuni storici una delle cause della decadenza e della caduta dell'impero romano. Ma se è ormai dimostrato che non fu la diffusione dell'ascetismo a provocare la caduta dell'impero, essa certo indica una crisi non solo della società romana, ma rivela anche dei mutamenti della concezione cristiana che vanno studiati e collocati nel loro contesto storico.
La posizione di sant'Agostino si rivela molto più attenta al valore del matrimonio: egli dedica espressamente un'opera alla dignità delle nozze, il De bono coniugali nel quale mostra che non c'è diversità tra le varie condizioni e che il matrimonio è un bene.
Agostino si pronuncia decisamente a favore del matrimonio, come dimostra nella lettera a Ecdicia, nella quale rimprovera la donna per aver scelto di vivere in castità e aver donato i suoi beni senza consultare il marito: questa, secondo Agostino, si era colpevolmente astenuta dai rapporti coniugali prima che il marito desse il proprio assenso. In tal modo era venuta meno ai doveri nei confronti del marito e nel donare le sue ricchezze aveva defraudato una parte di eredità. Ecdicia avrebbe dovuto prima discutere con il marito.
Nel De bono coniugali Agostino esplicitamente afferma che l'amore fra i coniugi deve essere tale che nessuno dei due promuova il proprio miglioramento a prezzo della dannazione dell'altro.
La posizione del Concilio Vaticano II (Gaudium et spes, 49) e le parole del Regina Caeli di Benedetto XVI sono paragonabili a quelle di Agostino. Risulta fondamentale riconoscere al matrimonio cristiano una "vocazione missionaria" e una pari dignità, pur nella sua specificità, con le altre vocazioni, come aveva già indicato Agostino, in una società nella quale prevale "una concezione privatistica dell'amore", che suggerisce una denigrazione dell'unione coniugale.
"Solo la roccia dell'amore totale e irrevocabile tra uomo e donna è capace di fondare la costruzione di una società che diventi una casa per tutti gli uomini", come ha ricordato il Papa nel discorso per il XXV anniversario dalla fondazione del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia.

(©L'Osservatore Romano - 8 maggio 2008)

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