29 agosto 2007
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Cari amici, pubblichiamo questo editoriale di Korazym su segnalazione della nostra Mariateresa...bentornata :-)
Seguo un bellissimo commento di Marina Corradi per Avvenire.
Raffaella
Una vita e un aborto. L’impresa disperata di cambiare il mondo
di Redazione
Dopo la vicenda di Milano un vuoto palpabile di argomenti e di umanità, fra malattie, imperfezioni e l’aborto come una routine. La nostra umanità corre su altri binari, e la più grande sconfitta è che a ricordarcelo debbano essere i preti.
Sconsolante. E’ l’impressione che si trae dall’intera vicenda dell’aborto selettivo praticato per errore all’ospedale San Paolo di Milano, dove ad una signora incinta di due gemelli, uno dei quali affetto da una alterazione cromosomica, è stata praticata l’interruzione della gravidanza sul bambino sano e non su quello malato. Un errore eccezionale, è stato detto, motivato dal semplice fatto che nei giorni intercorsi fra l’analisi effettuata sui due feti e il momento dell’intervento i due bambini all’interno dell’utero materno si erano scambiati le posizioni. Un evento che ha causato la soppressione del gemello sano, senza peraltro impedire, una volta scoperto l’errore, che anche per il gemello affetto da sindrome di down venisse deciso il medesimo, triste, destino.
Il fatto reca sconforto anzitutto per la mancata volontà, da parte dei più, di confrontarsi liberamente con il problema aborto, abbandonando quel punto di vista che descrive a priori, sempre e comunque, senza se e senza ma, l’interruzione di gravidanza come un diritto da riconoscere e garantire. Una certezza che sembra ormai aver permeato di sé una grandissima parte della società e che rende sordi a qualsiasi considerazione intesa a far riflettere, anche semplicemente da un punto di vista tecnico, sul significato e sulle conseguenze di un aborto. Quello di Milano è stato un errore “materiale”, ma non sono affatto infrequenti gli errori diagnostici, cioè i casi di feti ai quali viene erroneamente segnalato un difetto genetico o una malattia. Nonostante la previsione di malformazioni, cioè, accade che un bambino nasca perfettamente sano, o che un bambino abortito in virtù di quella previsione infausta si riveli poi – purtroppo troppo tardi – perfettamente sano. Da tempo una proposta ragionevole come quella avanzata dal Movimento per la vita, che sostiene la semplice necessità di rendere obbligatoria la “controprova” su ogni feto vittima di aborto cosiddetto terapeutico in seguito alla diagnosi di una malattia, viene regolarmente rispedita al mittente, bollandola - ideologicamente - come “ideologica”. Conoscere la verità dovrebbe trovar d’accordo tutti, ma alcune verità potrebbero far male, e allora si preferisce non sapere quante volte succede che un bambino – etichettato come malato e invece sano - venga abortito per un semplice errore diagnostico.
Ma naturalmente, tutto questo è solo una goccia nel grande abisso. Perché davvero ci si chiede come mai un bambino malato dovrebbe avere nient’altra sorte che la morte ancor prima della nascita; perché davvero fa ancora più male la soverchiante supponenza con la quale si passa sopra ad esistenze umane mai nate proprio perché malate, imperfette, sbagliate. Malattie o alterazioni che non comportano ormai neppure più la morte del bambino, ma che segnalano semplicemente una sua “diversità”, evidentemente comunque troppo grande per poter essere accettata e amata. E ancora una volta, si badi, non sono le madri che decidono per una interruzione di gravidanza le principali responsabili di questo, ma anzitutto quanti stanno loro accanto, genitori e mariti, parenti e amici: tutti equiparati nella convinzione che un figlio con qualche problema non deve essere fatto nascere, anche se potrebbe essere felice e spensierato come e più di un qualsiasi sanissimo pargoletto nato nel migliore ospedale pediatrico italiano.
“Selezione” ed “eugenetica” sono termini che certamente disturbano, ma che hanno un significato chiaro e non possono essere messi fra parentesi con argomentazioni blande e inconcludenti: sopprimere un bambino non ancora nato (e solamente perché malato) dovrebbe rappresentare per tutti un calcio nello stomaco, qualcosa da allontanare, da respingere, da assegnare alle epoche lontane in cui il senso della civiltà e della grandezza di ogni persona umana non erano ancora stati riconosciuti. Ma nel nostro tempo storico, così colmo di parole sulla difesa dei diritti umani inviolabili, la soppressione di un bambino non ancora nato è avvertita come di routine, è un normale processo ospedaliero, una eventualità talmente diffusa che a fare notizia sono quegli “eroi” un po’ folli e un po’ pazzi che vanno controcorrente e scelgono diversamente, e un figlio – per quanto “imperfetto” – lo trattano da figlio.
Dov’è quell’amore per la vita di cui tanto sbandierano tutti? Dov’è, se la spinta sociale dominante non ti fa vedere alcuna altra soluzione che quella di un aborto? Dov’è, se ci si accanisce con i malati piuttosto che con le malattie, se basta anche solo il sospetto (neppure la certezza) di “qualcosa che non va” per decidere di rinunciare al proprio bambino? Dov’è l’amore per la vita e per i figli - tanto sbandierato in questo paese a crescita zero, dove un bambino concepito su quattro non vedrà mai la luce – dov’è quell’amore se le donne alle prese con una gravidanza difficile e complessa trovano spianata, facile e socialmente incoraggiata la strada dell’aborto e caricata da pesi insormontabili la strada della nascita del proprio figlio?
C’è poca fede, qui, signori. C’è poco da intortare a furia di clericalismo, Vaticano, otto per mille e preti pedofili. C’entra proprio nulla, qui, l’essere cattolici, il voler imporre la propria fede o morale, lo stato laico e tutto il suo vociare. Tutto l’armamentario da disputa politico-religiosa crolla miseramente, quando di fronte abbiamo le nascite e le morti, quando ci sono figli che potevano giocare, ridere e correre e invece non hanno mai neppure visto la luce. In tutto questo c’entra la dignità di noi tutti, esseri umani, la nostra uguaglianza e i nostri principi, il nostro riconoscerci nel più piccolo fra i nostri simili, in quel cucciolo d’uomo che sta crescendo e si prepara a nascere. C’entra poco la fede, qui, signori.
E infatti la nostra più grande sconfitta, oggi, cari amici, è che a ricordarci la nostra umanità debbano essere i preti. Che a farlo - spesso anche troppo rudemente - siano rimasti quasi solo loro, come se ci volesse la patente da sacerdote per rendersi conto del grande miracolo che è, ogni volta, la nascita di una nuova vita. Quasi non ci si crede. Ma questo è il nostro mondo. E cambiarlo oggi appare – purtroppo - davvero un’impresa disperata.
© Copyright Korazym
Riflessione sulle gemelline abortite
Il diritto a non soffrire. Del figlio o degli adulti?
Marina Corradi
Il dramma del duplice aborto delle gemelle di Milano ha sollevato brutalmente la questione della ammissibilità di sopprimere un figlio malato. Il sacrificio della gemella perfetta - e non dell'altra, che non avrebbe interessato nessuno - ha posto la domanda su quale limite segni e scandisca il diritto a nascere di una creatura malformata.
Sulla Stampa, Michele Ainis rilegge la 194 e ammette che non è vi è garantito un diritto a avere figli sani; è garantito, invece, afferma, un «diritto a non soffrire». E non solo alla madre, cui la 194 consente di tirarsi indietro nell'evenienza di una grave minaccia fisica o psichica alla sua salute derivanti da «rilevanti anomalie» del bambino. Secondo Ainis, questo diritto verrebbe assicurato «in qualche modo anche al nascituro». Cioè, abortire un Down dovrebbe essere ammesso per un diritto dello stesso figlio in grembo a «non soffrire». E viene citato il caso Perruche, il bambino cui i giudici francesi hanno assegnato un risarcimento - a lui, non ai suoi genitori - per essere nato malformato. Diritto a non soffrire assicurato "in qualche modo" anche al figlio, si teorizza. In qualche modo, appunto: cioè, a spanne, perché la legge italiana di questo presunto diritto non parla affatto, e le sentenze della Cassazione lo hanno negato.
Il diritto non cambia nell'eco di una sentenza straniera. Il sentire comune sì, però, ed è proprio questo il senso della affermazione, sul piano giuridico fantasiosa, del corsivo della Stampa.
Se altrove il diritto del nascituro a "non soffrire" è già operante, perché non da noi? E uno sguardo superficiale, manipolato dal sentimentalismo mediatico, facilmente potrebbe consentire. Senonché, questo immaginario diritto di fatto coincide con la soppressione del nascituro malformato. In effetti, non nascere è il modo più sicuro per non soffrire. Tuttavia, non fare nascere un uomo è la negazione più totale del suo diritto fondamentale, che è vivere. Che il nulla, l'annichilimento siano preferibili, nella c ultura corrente, al nascere malati, è comprensibile. Che però ci si chini sul ventre di una donna, e diagnosticando una malattia si pratichi l'aborto affermando di difendere il figlio, è una notevole manipolazione della realtà. Quel figlio nel buio non può esprimere una volontà, ma tutto il suo essere, il crescere, il formarsi del cuore e dei polmoni e delle mani, tende alla vita: questa è un'evidenza.
Meglio per te se non nasci, bambino, gli si vorrebbe dire, difettoso come sei. Ti eliminiamo, per liberarti dal tuo male. E il bisturi lacera, strappa, sradicando caritatevolmente ogni possibilità di un futuro dolore. Futuro dolore, però, di quel figlio, o invece di chi lo pretendeva sano, e si ritrova con un handicappato tra le braccia?
Nella sentenza sulla vicenda della coppia portatrice di talassemia che chiedeva la selezione degli embrioni sani, e quindi un aborto eugenetico, il giudice negando il suo consenso scrisse: «Non si difende in realtà alcun figlio, ma la propria volontà di averne uno conforme ai propri desideri». Parole nette, che non ne chiedono altre. Solo, un dubbio: a noi più o meno sani, a noi "normali", chi garantirà il diritto a non soffrire? Chi tutelerà questo diritto all'uomo nato perfetto, ma colpito poi da un'irrimediabile malattia? Se esiste un diritto a non soffrire, non dovremmo averlo tutti, e quale è il limite della sofferenza tollerabile, e a chi far causa, chi citare per danni, quando la sofferenza illegalmente ci tocca? Cosa teorizzare allora, l'eutanasia per chiunque la chieda, o il suicidio come clausola cui appellarsi quando il certificato «diritto a non soffrire» sia violato? L'unica certezza, è che un mondo che teorizza un diritto a non soffrire fino a giustificare di non far nascere, è tacitamente avviato al suo declino.
© Copyright Avvenire, 29 agosto 2007
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