24 agosto 2007

I frutti di Ratisbona: Benedetto XVI ha un atteggiamento schietto e non si cura del politically correct


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Il vero nemico della pace è la menzogna, non le religioni

Un islamico, un ebreo e un palestinese difendono il discorso di «Ratisbona» Il vero messaggio del Papa è l'altolà ai fanatismi religiosi e ideologici

Carlo Dignola

RIMINI Provate a pensare a un ebreo che fa l'esegesi, quasi riga per riga, delle omelie del Papa a Ratisbona. E a un musulmano convinto che, parlando in arabo, dice che quel discorso, bruciato dai fanatici nelle piazze, «rappresenta l'occasione di un vero dialogo fra le religioni, perché un dialogo autentico ha bisogno di sincerità». È quanto si è sentito mercoledì sera al Meeting, durante la presentazione del libro Dio salvi la ragione (Cantagalli, pp. 192, euro 17.50). Oltre ai contributi dei filosofi Spaemann e Glucksmann, il volume ospita le riflessioni dei tre professori universitari chiamati al tavolo, in un Auditorium come al solito stracolmo.
Quel fantomatico «islam moderato» di cui parlano spesso i giornali, magari poi inseguendo qualche apologeta del kamikazing per un'intervista o una comparsata in qualche festival, eccolo in carne e ossa. Non è un «islam debole» però, che beve birra e mangia carne di maiale perché dopo un soggiorno in Europa non si sente più così sicuro dei precetti del Corano: è un islam osservante, intellettualmente molto dotato, che si confronta lealmente con le parole di un Papa e trova anche molto interessante, per la propria religione, quello che Benedetto XVI va dicendo.
Wael Farouq, 34 anni, insegna Scienze islamiche presso la Facoltà copto-cattolica del Cairo. Il discorso di Ratisbona – dice – è stato profondamente frainteso. E non per caso, fa capire raccontando una storiella divertente: «Ai tempi della guerra fredda ci fu una gara automobilistica fra due automobili: una americana, l'altra sovietica. Vinse la prima. Il giorno dopo la stampa sovietica riportò i fatti nel modo seguente: “In una gara internazionale di automobili la macchina sovietica è arrivata seconda; quella americana penultima”. È esattamente quello che è successo con il discorso del Papa».
Il vero nemico della pace – dice Farouq, citando proprio le parole di Benedetto XVI – non sono le religioni ma «è la menzogna». Sia il nichilismo occidentale, sia il fondamentalismo fanatico «si rapportano in modo sbagliato alla verità»: il primo la nega, il secondo «accampa la pretesa di poterla imporre con la forza». C'è qualcosa che li lega, aldilà dell'apparente opposizione: un comune, «pericoloso disprezzo per l'uomo e per la sua vita, e in ultima analisi per Dio stesso». Il professor Farouq cita persino l'enciclica Deus caritas est , che si è letto e sottolineato. Essa insegna che un rapporto con Dio «corretto, ma senza amore» inaridisce la stessa fede, che la carità verso l'uomo è ciò che apre gli occhi verso Dio. Tutte queste cose, anche un musulmano lo può sottoscrivere.
Farouq ha ben presente la lotta in corso tra i fautori dell'identità e quelli della modernità all'interno dell'islam, e dice che il modernismo può essere a sua volta una forma di fondamentalismo. Lui ha studiato il razionalismo arabo. Per parlarne risale al medioevo, ad Averroè, grande commentatore di Aristotele, letto, studiato e stimato anche da Dante Alighieri. Il filosofo andaluso – dice Farouq, raccontando la storia della traslazione delle sue spoglie dal Marocco a Cordova, la sua città natale – è rimasto per l'islam un «corpo morto», inquietante. Se il suo razionalismo non ha attecchito nel mondo arabo è anche perché Averroè, a suo modo, accettò la separazione tra religione e ragione. Non fu solo una vittima del fanatismo religioso: «Perché i suoi libri non ebbero un influsso sulla vita reale? Perché oggi non vediamo gli effetti del suo pensiero nel mondo arabo-musulmano, come accade invece, ad esempio, con al-Gazzhali?». La risposta è proprio in quella tragica separazione tra ragione fede che il Papa ha denunciato a Ratisbona.
Sari Nusseibeh è uno dei più noti intellettuali palestinesi, rettore dell'Università di Al Quds a Gerusalemme Est. Secondo lui la domanda che il discorso di Ratisbona ha posto è «se la religione islamica, o più in generale la tradizione islamica, siano sostanzialmente irrazionali, e per questa ragione più disposte all'uso della violenza rispetto ad esempio alla cultura giudeo-cristiana o alla cosiddetta “tradizione occidentale”». La sua risposta è un no molto deciso: «La tradizione musulmana è imbevuta dello spirito razionale tanto quanto il cristianesimo». L'islam ha al suo interno «visioni conflittuali di concetti come verità, conoscenza, ragione», la cui gamma procede «dall'estremo razionalismo al misticismo più completo». Eppure «non avrebbe potuto toccare gli altissimi livelli di civiltà che ha raggiunto se non fosse stato capace di interiorizzare il cosiddetto spirito razionalista dell'ellenismo», cosa evidente se si osservano discipline come l'architettura o la medicina araba. L'islam, è vero, «ha dovuto affrontare una continua tensione tra fede e ragione, come se si trattasse di due percorsi verso la verità in competizione fra loro». Il dilemma non è una prerogativa musulmana però: «È un questione che dev'essere affrontata e gestita da qualsiasi religione».
Ma – dice Nusseibeh – il Papa a Ratisbona si è chiesto anche un'altra cosa: se una tradizione non-razionalistica (e lui nega appunto che l'islam sia tale) sia più esposta all'uso della violenza. Risponde anche qui di no: «Non c'è alcun rapporto di esclusione reciproca fra ragione e violenza. Informati dalla sola ragione, e agendo razionalmente, gli uomini sono in grado di commettere i crimini più odiosi». Le bombe «intelligenti» insegnano. Più che la ragione, per il professore palestinese è la «ragionevolezza», la moderazione la vera virtù, il vero antidoto contro i fanatismi. Le credenze altrui vanno rispettate. Possono essere sfidate a livello intellettuale e morale ma mai con la forza.

Il vero messaggio di Ratisbona – dice Nusseibeh – è un altolà del Papa «ai fanatismi religiosi e ideologici».

Joseph Weiler, ebreo, costituzionalista della New York University, ricorda che il Papa, oltre al discorso in Università agli scienziati, a Ratisbona tenne anche due omelie, e concentra la sua attenzione su quelle, di solito ignorate dai commentatori. Si dice francamente contrario alla lettura che il Papa fece delle parole di Isaia presenti nella liturgia di quella domenica: «Come ebreo mi ribello a una simile interpretazione. Annuncia una comprensione di Dio che i fedeli come me hanno sempre rifiutato: non ci appartiene, né ci potrà mai appartenere».

Ma dice anche che l'atteggiamento schietto di Benedetto XVI, che non si cura del politically correct , non è affatto offensivo per un ebreo come lui, anzi: «Il rispetto non si dimostra e non si guadagna con i compromessi sul nucleo essenziale della propria fede. La disonestà non può mai essere la base di un vero dialogo».

La schiettezza di Joseph Ratzinger, anzi, rende «maggiormente credibile la rinuncia alla coercizione in materia di fede» che i Papi stanno esprimendo in maniera molto chiara, a partire da quel Giovanni Paolo II che Weiler non esita a definire più volte «magnus», «grandissimo». Anche Benedetto XVI gli piace perché «i suoi messaggi ai fedeli in Chiesa non sono diversi da quelli che rivolge urbi et orbi». «In duemila anni di rapporti complessi, e a volte anche molto dolorosi – sostiene – non è mai esistito un dialogo giudeo-cristiano migliore e più ampio di quello iniziato da Giovani Paolo II e continuato dal suo fedele successore».
Nella sua «memorabile visita al Muro del pianto – ricorda Weiler –, depositando la sua preghiera di riconciliazione e pace nel luogo più sacro a noi ebrei, Papa Wojtyla si fece il segno della croce. Con quel gesto non ci arrecò nessuna offesa. Con la stessa mano che aveva infilato la preghiera fra le pietre del Muro del pianto si fece il segno della croce. La sua invocazione a Dio per la pace si sarebbe rivelata falsa se lui si fosse comportato in modo falso», cercando in qualche modo di nascondere la propria identità di cristiano per un malinteso senso di «rispetto».
I discorsi di Benedetto XVI a Ratisbona – fa notare – dicono qualcosa di importante non solo sull'islam, ma anche sull'Europa. Qui Weiler torna nei panni del giurista puro, e fa le pulci al Preambolo della «oramai defunta» proposta di Costituzione europea, mostrando che era impostata in base a uno schema secondo cui i «valori dell'umanesimo» e il «rispetto della ragione» sono qualcosa di opposto alla religione, che viene non solo «posizionata nella sfera privata» ma «bandita dalla sfera pubblica». «Dopo tutto la gente crede in un sacco di sciocchezze irrazionali»: può tranquillamente continuare a farlo, basta che non dia noia a chi governa. Questo era «il progetto» della Costituzione a cui Benedetto XVI si è opposto, del tutto a ragione secondo Weiler.
Ma il Papa non attacca solo la visione laicista, che vorrebbe imitare la ragione al discorso della scienza: «Senza timore, afferma, adoperando la medesima logica, che il semplice uso della parola “religione” non le conferisce di per sé un imprimatur di legittimità. Non basta dire “religione” perché tutto sia permesso: anche la religione resta sottomessa alla disciplina della ragione». È questo il vero messaggio di Ratisbona – dice lo studioso americano –, che il Papa, con un atteggiamento «coraggioso, impressionante», rivolge soprattutto ai suoi fedeli. La sfida di non separare ragione e fede investe in primo luogo i cattolici. Anche tanti cristiani – dice Weiler – le concepiscono ormai come due sfere disgiunte: «Quasi sono imbarazzati ad ammettere in pubblico di essere persone di fede». Il discorso di Papa Benedetto è cioè il suo modo di dire, come Giovanni Paolo II, ai cristiani: «Non abbiate paura».

© Copyright L'Eco di Bergamo, 24 agosto 2007

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