15 ottobre 2007
Mons. Ravasi: auspico un dialogo alto tra fede e cultura
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Mons. Ravasi si insedia al Pontificio Consiglio della Cultura: "auspico un dialogo alto tra fede e cultura"
Mons. Gianfranco Ravasi ha oggi iniziato il suo lavoro in Vaticano come nuovo presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra. Nato a Merate, in provincia di Lecco 65 anni fa, già prefetto della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, è stato chiamato dal Papa lo scorso 3 settembre a succedere al cardinale Paul Poupard, per quasi 20 anni alla guida del dicastero della Cultura. Giovanni Peduto ha incontrato mons. Ravasi questa mattina subito dopo il suo insediamento e gli ha chiesto con quali sentimenti si appresti a svolgere questo importante incarico:
R. – Certamente il primo sentimento è quello dell’emozione, trattandosi di una attività che si apre davanti ai miei occhi in maniera del tutto inattesa, perché il mio lavoro si è finora sviluppato nel mondo della cultura, ma in un orizzonte più ristretto come era quello che riguardava la cultura italiana, il dialogo fra la comunità ecclesiale italiana e quindi l’orizzonte culturale dell’Italia. Davanti a me, quindi, si apre ora questo orizzonte molto più complesso, più vasto, più esteso ed è per questo che l’emozione diventa forte. C’è poi un’altra sensazione, che è quella di raccogliere l’eredità del cardinale Poupard, che è una figura certamente nota ormai non soltanto in Italia e in Francia, ma in tutto il mondo e la cui presenza è stata decisiva in 25 anni per la costituzione del volto di questo dicastero vaticano.
D. – Eccellenza, in questo lasso di tempo – dalla nomina ad oggi – ha pensato ad una progettualità del suo lavoro?
R. – Anzitutto direi che il primo grande capitolo paradossalmente è il capitolo forse meno legato ad una manifestazione esteriore di progetti. Dovrò infatti per un lungo periodo, almeno per un anno credo, conoscere tutto quanto è collegato al dicastero della cultura, al dicastero dei beni culturali e a quello dell’archeologia sacra. Una conoscenza, questa, che è necessario proprio perché io vengo dall’esterno e devo, quindi, conoscere i meccanismi, i percorsi che sono proprio di una istituzione così complessa. Questo è un atto anche di umiltà nei confronti di tutti coloro che hanno lavorato e che hanno creato un profilo, una struttura e dei progetti. Certamente, ognuno porta la sua impronta, ognuno ha la sua propria identità, ognuno ha un volto con il quale entra nel mondo. Per questo motivo io penso che sicuramente sui percorsi che sono già stati indicati, che sono tradizionali – per esempio il percorso del dialogo con i non credenti, il percorso sul dialogo fra fede e scienza, il percorso sul rapporto con le nuove istanze della cultura contemporanea, soprattutto in una società secolarizzata e qualche volta perfino del tutto allergica ai temi religiosi o se si vuole anche il percorso per la tutela dei beni della Chiesa, perché i beni culturali della Chiesa – anche quelli nuovi – possono essere espressivi di valori e di significato: su tutto questo dovrò indubbiamente dare, anche io, la mia impronta e dare anche io il risultato delle mie riflessioni e di quelle dei miei collaboratori.
D. – Soprattutto il rapporto fede-cultura è tra gli aspetti fondanti del suo nuovo compito. Come lei vede oggi questo rapporto?
R. – Dobbiamo dire che prima di tutto il rapporto tradizionale tra fede e cultura ha avuto dei momenti grandiosi in passato. La storia della cristianità lo attesta, ma ha avuto dei momenti anche di grande scontro. Pensiamo ad esempio, a quello che è accaduto nell’Ottocento e nel Novecento, quando grandi sistemi culturali si sono posti in alternativa e persino in tensione con il mondo della Chiesa e il mondo della cultura cristiana. Pensiamo, ad esempio, a due modelli celebri come quelli del marxismo, da una parte, o dell’idealismo, dall’altra, nell’Ottocento, che in maniera molto alta si sono confrontati e scontrati. Ora, purtroppo, c’è un nuovo aspetto che lascia veramente imbarazzati e che rende difficile il lavoro del dialogo interculturale con la cultura contemporanea, al di là del fatto che essa prosegue. C’è, infatti, in molti ambiti una sorta di reazione ai valori cristiani, ai valori della grande cultura spirituale in genere, una reazione che è fatta soprattutto di sberleffi, che è fatta di ironia, che è fatta di sarcasmo, che è fatta di pubblicazioni che sono molto simili ai pamphlet di certi periodi, che però non vogliono fare quel confronto alto a cui prima facevo riferimento. Per questo il dialogo diventerà, sicuramente, più complesso, più delicato e dovrà avere anche dei momenti tali da riportare ancora al grande confronto del passato.
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