3 ottobre 2007

Mons. Ravasi: fare cultura vuol dire comunicare ma non si comunica se non si conosce la propria storia


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Cultura in “rito ambrosiano”

Il celebre biblista, giornalista, commentatore è ora ministro della cultura di Benedetto XVI. Metterà in dialogo il pensiero cattolico con l’uomo di oggi

ALDO MARIA VALLI

Vederlo con l’abito vescovile fa un certo effetto, lui che in genere gira in clergyman.
E lui stesso non nasconde l’emozione, subito dopo essere stato ordinato nella basilica vaticana da Benedetto XVI.
Ma l’emozione non gli impedisce di essere, come al solito, molto chiaro. La cultura cattolica, all’interno della curia romana, ha bisogno di ricevere una scossa. Deve scendere dall’empireo e farsi comunicazione, iniziativa, confronto, senza per forza rincorrere sempre l’agenda proposta da altri ma partendo dal proprio immenso patrimonio.
Monsignor Gianfranco Ravasi, classe 1942, lombardo di Merate in provincia di Lecco, lasciata la sua amata Biblioteca Ambrosiana approda a Roma come nuovo presidente del pontificio consiglio per la cultura, al posto del dimissionario cardinale francese Paul Poupard, e lancia subito un messaggio: oggi fare cultura vuol dire comunicare, ma non si comunica se non si è consapevoli della ricchezza della propria storia, della propria fede e di ciò che questa storia e questa fede hanno costituito per la nostra civiltà.

In pratica il celebre biblista, giornalista e commentatore televisivo diventa il “ministro della cultura” di Benedetto XVI, anzi un “superministro”, dal momento che avrà anche la delega per i beni culturali della Chiesa e l’archeologia sacra. Un responsabilità enorme.

«Certamente per la mia vita è una grande svolta», spiega a Europa. «Cambia il mio orizzonte, e di molto».

In che senso, monsignor Ravasi?

«Nel senso che dall’orizzonte della cultura in cui ero immerso a Milano, pur nobile e fecondo, ora sono dirottato su ambiti molto più complessi, molto più mutevoli e multiformi, come sono le grandi culture di tutto il mondo in cui la Chiesa ha una sua presenza. Si tratta quindi di un itinerario nuovo che incomincio con un po’ di preoccupazione ma anche con fiducia e serenità perché ho attorno tanti amici».

Ma che cosa significa oggi, secondo lei, fare cultura al servizio della Chiesa?

«Probabilmente vuol dire due cose: da un lato riscoprire la molteplicità che sta al di fuori della Chiesa cercando di stabilire un contatto, un dialogo, una comunicazione; dall’altro vuol dire anche riuscire a essere profondamente capaci di trasmettere ciò che la visione cristiana, questo grande sistema di cultura e di pensiero che ha attraversato venti secoli della nostra storia, può ancora dire all’uomo di oggi. È una vera e propria scoperta di una eredità che ha in sé un’infinità di sfumature e anche di emozioni per l’uomo contemporaneo».

La Chiesa sta attingendo risorse umane a piene mani dalla diocesi di Milano.

Dopo la nomina di monsignor Roberto Busti, già parroco a Lecco, a vescovo di Mantova, ecco nelle sei ordinazioni episcopali del 29 settembre, le prime per Joseph Ratzinger da quando è diventato papa, altri tre ambrosiani: con Ravasi infatti sono diventati vescovi anche Vincenzo Di Mauro (che da delegato dell’Amministrazione del patrimonio della Santa Sede diventa segretario della Prefettura per gli affari economici) e Francesco Brugnaro (che da osservatore permanente presso l’Organizzazione mondiale del turismo diventa vescovo di Camerino – San Severino Marche).

Monsignor Ravasi, che cosa può dare la Chiesa ambrosiana alla Chiesa romana?

«Credo che possa darle una intensità particolare in ogni tipo di impegno. È noto che il milanese per sua natura ha attenzione al fare e tante volte questo fare ha in sé anche un’identità, una sua profondità di pensiero. Ecco, la sfida è riuscire a intrecciare il pensiero e l’azione. È necessario riflettere, certamente, ma è necessario avere anche mani capaci di operare nel mondo.
Per questo io penso che la cultura non possa essere ridotta soltanto a espressione intellettuale ma sia anche, e in modo molto profondo, esperienza quotidiana.
Un’esperienza che riguarda tutti, all’interno del mondo del lavoro come in quello della ricerca, nell’economia come in famiglia. Riguarda tutti perché tocca le grandi domande sull’esistenza».

Dal “rito ambrosiano”, in campo culturale ma anche amministrativo (si veda il caso di monsignor Di Mauro) Benedetto XVI aspetta grandi cose.
E a Ravasi chiede soprattutto di fare uscire la cultura cattolica dal ghetto in cui spesso si infila da sola per mancanza sia di proposte sia del linguaggio giusto per comunicare.
Poche settimane fa per una lezione di monsignor Ravasi al festival filosofia di Modena sul libro dell’Ecclesiaste c’erano in piazza migliaia di persone di ogni cultura. Ravasi ha parlato da biblista, ma lo ha fatto riuscendo a raggiungere tutti, credenti e non credenti. Il papa spera che possa continuare a farlo anche dalle stanze, a volte troppo fredde e distaccate, della curia romana.

© Copyright Europa, 2 ottobre 2007

3 commenti:

Blog creator ha detto...

E' vero: si comincia dalle proprie radici. E poi, conoscendole, si comunica la propria storia all'intorno del mondo che viviamo, nei modi e forme che ognuno può permeare.

E chi si occupa di trasmettere cultura ben si accorge di come in modo inevitabile il fondamento cattolico ci rientra sempre.

Raffaella, ne approfitto per un promemoria:
domani è il Transito del Serafico Padre San Francesco d'Assisi, fondatore dei tre Ordini.
Patrono d'Italia.

Anonimo ha detto...

Grazie Umberto :-))
Ricordo ancora quando, alle elementari e alle medie, si andava si andava in basilica per la Messa di San Francesco, patrono d'Italia! Il Santo di Assisi continua ad essere un esempio di vita e di santita' per tutti.

Anonimo ha detto...

GLI EDITORIALI DI ANTONELLO DE PIERRO DIRETTORE DI ITALYMEDIA.IT

Vergognati, Maurizio!

di Antonello De Pierro

E' un grido di dolore quello che si leva da qualche mese dal mondo della cultura, dopo che la televisione ha catapultato nelle case degli italiani il discusso programma denominato "Grande Fratello", creando un prodotto inconsistente, che è stato immediatamente e incomprensibilmente rapito dalle cronache dei media. E quando parlo di cultura naturalmente mi riferisco a quella con la c maiuscola, quella dei grandi (purtroppo pochi) uomini, quella nella sua accezione più ampia, quella che ha da sempre rifiutato di nutrirsi di surrogati ideologici e di imparare la lezione della buona ipocrisia, tanto amata dai più. Eppure la televisione, che ormai da anni affoga in una programmazione demenziale, diseducativa, ripetitiva e scadente, ci aveva abituati da tempo allo squallore delle telenovelas e della soap opera, incollando ai teleschermi il popolo televisivo delle casalinghe, col grembiule al ventre, che tra un bucato e l'altro, per innaffiare l'arido giardino della solitudine giornaliera, si incantavano e sognavano di fronte ai miti improbabili di "Beatiful" o di "Quando si ama". Si trattava sempre e comunque di artisti che, costretti da esigenze professionali e allettati da ingaggi stratosferici, legavano il proprio nome a produzioni di scarso valore culturale. Con il "Grande Fratello" si è valicato ogni limite di decenza, i colossali interessi economici hanno relegato in soffitta qualsiasi senso di moralità. Un manipolo di ragazzi comuni, messi per cento giorni a colloquio con l'occhio freddo di una telecamera "guardona", sbattuti davanti a pupille spalancate collegate a cervelli altrettanto ristretti, e scaraventati verso una notorietà di cartone non supportata da un'adeguata preparazione professionale. Un business ben congegnato, che ha affondato facilmente le radici in un terreno intriso di sottocultura e ignoranza, atto a spremere come limoni le illusioni di un gruppo di giovani che forse avrebbero potuto intraprendere carriere sicuramente più idonee alle loro attitudini, piuttosto che essere magnificati dai "polli d'allevamento" dell'Italia provinciale che si entusiasma di fronte a tutto ciò che passa sul piccolo schermo, ma essere sottoposti giustamente al mortificante rito dell'irrisione da parte delle vere teste pensanti nazionali. Ed ecco invece i vari Pietro, Salvo, Marina, Cristina, Rocco, Lorenzo, invasati da una droga che si chiama successo, correre con la naturalezza dell'inevitabile, a suon di apparizioni varie, verso un futuro incerto, segnato da suggestioni pseudo-professionali. Di fronte ad una tale situazione non posso avvolgere le mie parole nella carta zuccherata e rinunciare a dissotterrare l'ascia di guerra della polemica. C'è una categoria in Italia fortemente rappresentata, quella degli artisti veri, spinti dal comando imperioso di un'acrobatica passione per lo spettacolo, che annaspa da sempre nell'oceano della precarietà e vive costantemente in bilico sul baratro della disoccupazione. Le scuole di preparazione artistica ne sfornano a centinaia; basta girare i teatri, anche i più piccoli, per scoprire veri talenti, di cui l'Italia non è mai stata avara. E invece ecco apparire improvvisamente sulla scena Marina La Rosa, che ubriacata dalla popolarità riesce ad offendere finanche quei fotografi che da sempre hanno fatto la fortuna dei vip, definendoli "braccia rubate all'agricoltura"; la Sofia nazionale ancora venera i professionisti dei flash a raffica ( comunque c'è da dire che sulla Loren le brume del mito si sono posate davvero). Ma il prodotto più scandaloso si chiama Pietro Taricone, che calzando la sua normale faccia da bullo di paese riesce incredibilmente a vendere la sua presenza a fior di milioni nelle discoteche di provincia e nei suoi sogni lascia ingenuamente galleggiare un futuro alla Kevin Costner: l'importante è crederci, ma purtroppo il risveglio sarà doloroso e disastroso

E' già criticabile l'operazione, che ha messo a nudo il livello di sottocultura di gran parte degli italiani, ma purtroppo per i produttori televisivi, non è facile sacrificare i propri interessi sull'altare della cultura, della moralità e del buonsenso. Ma quando un giornalista di grande spessore, con vocazione da imprenditore, marcia con i cingoli sopra ogni principio etico-professionale, allora
il caso diventa inquietante. Quanta popolarità in meno avrebbero ottenuto i ragazzi "usa e getta" del "Grande Fratello" se non fossero stati foraggiati dall'ala protettiva di Costanzo, che li ha aiutati a continuare la semina dei germi di tutti gli aspetti deteriori dell'odierna società? Probabilmente i valori del grafico di notorietà sarebbero molto più modesti. Caro Maurizio, pesa su di te una forte responsabilità morale, sia nei confronti di quelli che il successo l'hanno cucito sulla propria pelle, strappando l'ago e il filo a rinunce e sacrifici fatti nelle scuole, nei teatri, nelle piazze, e sia nei confronti delle fasce più deboli dell'esercito dei telespettatori. Ho visto un giorno in un mercato un bambino giocare con dei soldatini e chiamarli con i nomi dei protagonisti del grande fratello. Hai sostenuto una trasmissione che, anche se con un ipocrita "bip" celava certe espressioni colorite, non dava comunque molto spazio all'immaginazione per capire, risultando quindi altamente diseducativa, tenuto conto anche della fascia oraria in cui veniva trasmessa. Sono tanti i petali di simpatia persi da te in questa occasione. Infine, colpito da un delirio di onnipotenza hai pensato bene di organizzare una puntata chiamata "Pietro contro tutti" in prima serata, con un Taricone versione re dei "coatti", con canotta strizzamuscoli senza maniche, a troneggiare sul palco del teatro Parioli, ingaggiando un vittorioso "braccio di ferro" a colpi di audience con "La Piovra", pellicola a interesse sociale in onda su Raiuno, mettendo a nudo ancora una volta, se qualcuno avesse avuto qualche ulteriore dubbio, il livello culturale dei telespettatori del "Maurizio Costanzo Show". Un'ennesima conferma di come un grande giornalista abbia potuto bruciare sulla graticola dell'interesse economico, perché audience per te vuol dire sponsor, non dimentichiamolo, la propria credibilità professionale. Del resto in nome dell'audience avevi già rifiutato di ospitare in trasmissione i rappresentanti del "Comitato Vittime del Portuense", perché chiaramente ventisette morti per te non hanno importanza, sono solo una lugubre contabilità di normale amministrazione giornaliera, di fronte al sacro inchino al potere dello sporco Dio denaro, a cui ti sei convertito e sottomesso. Vergogna!