20 gennaio 2008

In anteprima l'edizione aggiornata del libro su san Bonaventura di Joseph Ratzinger: lo speciale dell'Osservatore Romano


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In anteprima l'edizione aggiornata del libro su san Bonaventura di Joseph Ratzinger

La nuova idea della storia del Doctor Seraphicus

Quando Bonaventura all'inizio dell'estate del 1273 tenne all'Università di Parigi le sue "conferenze sull'opera dei sei giorni", assolse ad un compito che si era delineato già all'inizio del suo generalato. Nel febbraio del 1257 il santo fu improvvisamente richiamato dalla sua fruttuosa attività d'insegnante a Parigi per sostituire il Generale Giovanni da Parma, prossimo all'abbandono dell'ufficio. Il ritiro di quest'ultimo non era avvenuto totalmente per sua volontà; al contrario, attraverso la sua decisa presa di posizione a favore delle profezie di Gioacchino da Fiore e, più in generale, della concezione gioachimito-spiritualistica dell'ordine francescano, egli si era venuto a trovare in una posizione estremamente difficile. Inoltre, dopo la condanna dell'Evangelium aeternum da parte della Chiesa, avvenuta il 23 ottobre 1255, nel quale il francescano Gerardo da Borgo San Donnino aveva tentato di formulare lo spiritualismo francescano, l'insostenibilità della sua posizione era divenuta sempre più evidente.
La persona del Generale non rappresentava certo l'unica difficoltà di cui era gravato il giovane ordine. Esso dovette combattere per comprendere la propria vera essenza, dibattendosi tra due estremi: da un lato, un modo di comprendere se stesso radicalmente escatologico e puramente spirituale e, dall'altro, una troppo comoda trasformazione del vecchio spirito dell'ordine secondo le forme disponibili. La volontà pura del suo fondatore appariva irrealizzabile in questo mondo, ciò che poteva essere realizzato appariva come un residuo della volontà del fondatore.
In questa situazione l'ancora giovane magister Bonaventura, docente a Parigi, veniva scelto quale settimo successore di san Francesco alla guida dell'ordine. Egli si trovava dunque di fronte ad un compito per lui totalmente nuovo: secondo la cronologia più accreditata egli entrò nell'ordine nel 1243 a Parigi, attirato soprattutto dalla profonda ammirazione per il suo maestro Alessandro di Hales che egli chiama non solo magister ma pater. Fu quindi l'università di Parigi il terreno spirituale in cui crebbe la sua vocazione religiosa e tutto il suo francescanesimo trasse da lì un che di "scolastico" (nel senso più generale del termine).
Sicuramente il respiro di un'anima francescana continua a farsi sentire anche in quelle opere che Bonaventura compose in qualità di uomo di scuola; tuttavia il mondo in cui egli visse come maestro, pensò, scrisse, era molto diverso da quel mondo di puro e primitivo fervore religioso che era invece caratteristico del francescanesimo delle origini; i suoi problemi erano stati fino a quel momento diversi da quelli ora illustrati con cui l'ordine doveva misurarsi. Bonaventura stesso avvertiva ciò con chiarezza; quando nel 1259 egli si ritirò in solitudine sul monte sacro all'ordine francescano, il monte della Verna, sicuramente con questa decisione aveva inteso intraprendere una più approfondita ed intima esplorazione di sé, calato nel mondo spirituale di Francesco, padre dell'ordine a cui apparteneva e alla cui guida era ora subentrato.
L'Itinerarium mentis in Deum, che Bonaventura riportò quale esperienza da queste settimane trascorse in solitudine, è il primo segno di una nuova disposizione spirituale. A partire da questo piccolo libro la figura di san Francesco entrò sempre più prepotentemente nel suo pensiero, e in particolare la figura di quel Francesco che è stato con ragione definito "l'immagine medioevale di Cristo". Questa evoluzione la si può anche seguire del resto nella Vita di san Francesco (1260-63), nei diversi scritti ascetici e pratici nati nel periodo del generalato ma soprattutto in quella serie di sermoni che iniziano dal 1267 con cui Bonaventura, dieci anni dopo il suo congedo dalla cattedra universitaria, ritornava, mutato, ancora una volta sulla scena delle sempre più aspre controversie dottrinali: non più come chi si trovi all'interno del conflitto proprio della scienza, ma piuttosto come chi, dall'esterno, mostri alla scienza i suoi limiti a partire dalla fede.
Alla luce di ciò vanno interpretate le Collationes de decem praeceptis, le Collationes de donis Spiritus Sancti e i vari sermoni parigini di questo periodo. A riepilogo e coronamento del tutto si pone però senza dubbio l'opera conclusiva del santo, datata 1273: le Collationes in Hexaëmeron. Solo in quest'opera Bonaventura ci offre una discussione approfondita di quei problemi che prima avevano condotto alla caduta di Giovanni da Parma e che tuttora continuavano (persino in misura crescente) a tenere in tensione l'ordine francescano: vale a dire quei problemi posti dal gioachimismo e dal movimento spirituale.
Ecco allora che l'opera richiedeva di per se stessa una trattazione di fondo della teologia della storia. La sua singolarità e unicità è data dal fatto che si tratta dell'unica opera in cui un teologo di spicco della scolastica prende posizione nei confronti di quella corrente spirituale definita da Dempf come "simbolismo tedesco" e più appropriatamente da Leclercq come moyen âge monastique" (in contrapposizione al moyen âge scolastique), per tentare una sintesi del pensiero storico-simbolistico con il pensiero concettuale-astratto della scolastica.
Diviene così comprensibile l'ammirazione che l'Hexaëmeron gode da così lungo tempo. Lo si è definito - indubbiamente in termini eccessivi - l'ouvrage le plus original, le plus riche et peut-être le plus puissant de la littérature ecclésiastique e, più giustamente, un des plus étonnants ouvrages du génie chrétien. Dempf lo definisce come il "più ampio tentativo di summa di tutto il Medioevo" e come la "più significativa filosofia della storia e della società del Medioevo". Ciò nonostante questo libro rimane ancora oggi un testo da scoprire, un ager adhuc... incultus, in quo ligo numquam fossus est; et via tantum aliqui flosculos de illo collegerunt, at, etsi fertilitatem et pinguedinem cognoverint miratique fuerint, praeterierunt - per dirla con Tinivella.
Le cause di questo fatto sono molteplici. Esse risiedono prima di tutto nella peculiarità stessa dell'opera e della sua tradizione testuale. È già stato rilevato a questo proposito che si tratta di conferenze. Non possediamo il manoscritto originale dell'oratore ma solo trascrizioni successive dei suoi uditori. Ciò comporta una inevitabile incertezza delle singole formulazioni, come è già dimostrato dalla differente indicazione del titolo, per cui l'opera compare ora con il titolo di Illuminationes (ecclesiae), ora come Collationes in Hexaëmeron. Una drastica conferma della imprecisione nella trasmissione del testo ci viene oggi dalla recente edizione di una seconda recensione del testo a cura di Delorme, che da un lato mostra come la linea contenutistica di Bonaventura venga conservata fedelmente e, dall'altro, come, tuttavia, la libertà dei recensori resti evidente nella scelta delle parole.
Ostacolo certo non minore per chiunque tenti un'interpretazione dell'opera è il suo carattere frammentario, dovuto al fatto che il suo completamento venne interrotto dall'elezione di Bonaventura a cardinale. A ciò si aggiunge il fatto che Bonaventura sovente procede per allusioni e molto di questo testo è spesso espresso in maniera velata; in particolare le vere e proprie predizioni circa il futuro vengono offerte in una sorta di stile arcano e apocalittico, che poteva forse essere compreso dagli uditori del tempo in virtù della loro conoscenza della situazione, ma che per noi è spesso difficile penetrare.
Per questo motivo si è tentato di mettere insieme di volta in volta tutti i testi e i riferimenti che fossero in qualche modo collegati per ricostruire così, per quanto possibile, il complesso originario a partire dalle particelle più piccole.
Per avere un'ulteriore certezza, tutte le analisi furono condotte dapprima solo sulla base del testo pubblicato nell'Opera omnia (V, pp. 329-449). L'incontro con il testo di Delorme doveva servire allora come controprova della correttezza dei risultati conseguiti. Fortunatamente la nostra interpretazione trovò piena conferma e talvolta persino completamento nel testo di questa recensione che si rivela estremamente più chiaro per quanto concerne i punti afferenti la teologia della storia.
Una valutazione critica del testo delle due recensioni che sia veramente tale non è negli obiettivi di questo lavoro, che tenta, invece, un'analisi contenutistica della teologia della storia in Bonaventura. L'impressione generale derivante dal confronto dei due testi fece sì che prendessero consistenza soprattutto due osservazioni: nel testo di Delorme è evidente una tensione verso la chiarezza: vengono indicate con il proprio nome le diverse figure storiche, vengono interpretati i rapporti, ampliati i rimandi al campo delle arti liberali fino a farli divenire dei veri e propri piccoli trattati, arricchito il corpo delle citazioni. Inoltre tutti i punti scabrosi che potrebbero essere interpretati nel senso di una presa di posizione a favore del gioachimismo e dello spiritualismo vengono smussati. facendo sì, in questo modo, che l'altra recensione ci appaia come la lectio difficilior.
Prove in questo senso ne incontreremo più volte nel corso della nostra esposizione (...)

L'influsso di Gioacchino

La dipendenza di Bonaventura dall'abate calabrese è stata già rilevata ogni volta nei singoli casi e si riferisce essenzialmente al seguente ambito concettuale: a) adozione della duplice interpretazione dell'Hexaëmeron, applicata all'Antico Testamento e alla storia della Chiesa e, in questo modo, costituzione di una serie settenaria duplice al posto dello schema settenario semplice della Chiesa antica; b) adozione dell'idea di novus ordo e di una serie di corrispondenti reinterpretazioni allegoriche della Scrittura; c) adozione dell'attesa di un tempo salvifico interno alla storia e dunque di una condizione ancora mancante di redenzione piena nella storia.
In tutti e tre i casi, tuttavia, Gioacchino non è sufficiente quale unica fonte ed è invece necessario ammettere la presenza di anelli intermedi (in parte sicuramente perduti) che adattarono già il materiale al presente e soprattutto realizzarono la sua applicazione al francescanesimo.
Vennero rifiutate le seguenti idee di Gioacchino ovvero dei gioachimiti francescani anteriori a Bonaventura: a) La limitazione del Nuovo Testamento e del tempo di Gesù Cristo alla seconda età. Il Nuovo Testamento è testamentum aeternum; b) la suddivisione trinitaria della storia viene accettata solo in misura molto limitata.
Con questa lista vengono del resto già tratteggiate le idee più significative dell'abate calabrese per l'avvenire; ci resta da porre la domanda relativa a quali siano le caratteristiche decisive della sua coscienza storica.

***

In Gioacchino diviene pienamente manifesta un'idea che si preannunciava con Ruperto, mentre in Onorio e Anselmo ritornava sullo sfondo: il parallelismo dei Testamenti. Gioacchino, diversamente da Ruperto, mette a confronto in modo assolutamente serio il tempo del Nuovo Testamento, quale storia salvifica capace di progressione temporale, con la storia dell'Antico Testamento e, così facendo, si verifica con lui ciò che in precedenza non era mai avvenuto: Antico e Nuovo Testamento appaiono come le due metà del tempo storico, costruite in modo uguale, e dunque Cristo si presenta come la svolta dei tempi. Egli è il centro, il perno della storia, a partire dal quale il corso del mondo inizia ancora una volta, per così dire, su di un piano più elevato.
Non è pertanto completamente esatto ciò che Kamlah dice a questo riguardo e cioè che in Gioacchino Cristo non è, come ancora in Ruperto, l'"asse della vicenda terrena" ma "un punto di articolazione accanto ad un altro". Infatti l'idea di considerare Cristo come l'asse dei tempi è estranea a Ruperto esattamente come lo era stata per tutto il primo millennio cristiano. Per questo millennio Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio ed una storia irredenta durata sino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è "redenzione" nella misura in cui con lui la "fine" comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fine iniziata mentre la storia, per così dire, procede per nefas ancora per un certo tempo, conducendo l'antico evo di questo mondo alla sua fine.
L'idea di vedere in Cristo l'asse della vicenda del mondo emerge invece propriamente (in seguito a ciò che Ruperto, Onorio, Anselmo avevano preparato) solo in Gioacchino, dove, a dire il vero, essa viene dapprima ancora dissimulata, visto che la storia terrena non ha uno ma due assi e non consiste in due ma in tre ampi periodi.
L'esclusione di quest'ultima idea si verificò tuttavia obbligatoriamente con la vittoria della dogmatica ortodossa; restò l'altra idea; e Gioacchino divenne in questo modo, proprio nella Chiesa stessa, l'antesignano di una nuova comprensione della storia che oggi ci appare essere la comprensione cristiana in modo così ovvio da renderci difficile credere che in qualche momento non sia stato così. In questo punto consiste pertanto il vero significato di Gioacchino, davanti al quale la sua peculiare storia postuma all'interno del gioachimismo francescano deve indietreggiare nonostante la sua incontestata importanza.
Certo occorre dire che questa storia postuma è soprattutto importante per aver stimolato la recezione della nuova coscienza storica, imponendo la delimitazione polemica del falso gioachimismo. Dovrebbe essere chiaro che con ciò ha inizio una "storicizzazione" del tutto nuova della Chiesa e della redenzione, che non può essere indifferente né alla storia dei dogmi, né alla teologia sistematica.
Se dunque Gioacchino attribuisce storicità in un senso del tutto nuovo all'opera di Cristo, che non viene più considerata come principio della soppressione della storia ma come saldamente radicata nel suo terreno, così prorompe in lui una nuova coscienza del tempo della fine che viene provocata proprio dalla storicizzazione della Chiesa fino ad allora.
Non che in Onorio di Autun e in Anselmo di Havelberg la percezione della prossimità della fine fosse completamente spenta; entrambi avevano invece costruito il loro schema storico in modo da venire essi stessi collocati, con il proprio presente, alla sua fine. Essi si differenziano dal pensiero patristico solo per il fatto di far intervenire questa fine non con Cristo ma solo dopo un nuovo svolgimento temporale.
Al contrario, Gioacchino, dal fatto che dopo Cristo continua a svilupparsi una storia inadeguata e scellerata, trae la conclusione che una storia veramente buona e redenta sia ancora di là da venire. Questa storia però, riconosce egli con compiacimento, è imminente, anzi è già da lungo tempo coinvolta in una segreta crescita e presto dovrà manifestarsi. Ad essa vanno la gioia piena di speranza e l'attesa fiduciosa dell'abate calabrese. E in questo consiste l'elemento significativo: ad essa si può veramente guardare di nuovo con quella gioiosa speranza un tempo riecheggiata nel Marana tha dei primi cristiani, i quali attendevano con il ritorno del loro Signore la salvezza piena.
Questa gioia fu nel frattempo a lungo turbata dalla paura del terribile giorno del giudizio che doveva precedere la rovina del mondo che ad esso sarebbe stata legata.
Nulla di tutto questo si poneva tra il tempo attuale e la salvezza imminente: era di nuovo possibile, di fatto, un'attesa del tempo ultimo che fosse tutta animata dallo spirito della speranza. (...)

Conclusioni

Così come tanti capolavori della scienza anche l'interpretazione di Bonaventura dell'opera dei sei giorni è rimasta incompiuta; come all'Aquinate anche a lui non fu dato di portare a termine la vera e propria "summa" della sua esistenza: Sed heu! heu! heu! superveniente statu excelsiori et vitae excessu domini et magistri huius operis, prosecutionem prosecuturi, non acceperunt dovette scrivere uno studente rattristato al termine del corso rimasto incompiuto.
Tuttavia il quadro si ricompone in unità e le linee fondamentali di ciò che il santo aveva voluto sono inconfondibili. Nel punto di fuga della sua teologia della storia trova posto la stessa parola con cui Agostino chiudeva la sua opera così simile eppure così diversa, il De civitate Dei - la parola pace: "E allora sarà la pace".
Ma questa pace è divenuta in Bonaventura più vicina alla terra. Non è quella pace nell'eternità di Dio che mai più avrà fine e che seguirà alla rovina di questo mondo; è una pace che Dio istituirà su questa stessa terra, spettatrice di così tanto sangue e lacrime, come se volesse ancora mostrare per lo meno nel momento della fine come avrebbe potuto o dovuto essere in realtà secondo i suoi disegni.
Spira dunque già il soffio di un tempo nuovo in cui il desiderio dello splendore dell'altro mondo è plasmato da un profondo amore per questa terra sulla quale noi viviamo. Ma pur con tutta la molteplice diversità dei tempi, che in questo modo divide anche l'opera dei grandi teologi cristiani, persiste tuttavia un'unità fondamentale: sia Agostino che Bonaventura sanno che alla Chiesa, che spera nella pace per "un giorno avvenire", è affidato l'amore per il "presente", e che il regno della pace eterna cresce nel cuore di coloro che realizzano nel proprio tempo la legge dell'amore di Cristo. Entrambi si sanno sottomessi alla parola dell'Apostolo: "Ora, dunque, rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. La più grande è però la carità" (1 Corinzi, 13, 13).

Brani tratti dai capitoli primo e terzo e dalle conclusioni

(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2008)


La ricerca del giovane teologo

Pietro Messa
Preside della Scuola Superiore
di Studi Medievali e Francescani

L'allora cardinal Joseph Ratzinger in occasione della nomina a membro della Pontificia Accademia delle Scienze dovendo presentare se stesso, il 13 novembre del 2000, pronunciò un discorso in cui a proposito del suo itinerario di studi tra altre cose disse: "il mio lavoro post dottorale fu incentrato su san Bonaventura (...). Scopersi un aspetto della teologia di san Bonaventura a quanto ne so non basato sulla letteratura precedente: la sua relazione con una nuova idea di storia concepita da Gioacchino da Fiore nel XII secolo. Gioacchino intese la storia come progressione da un periodo del Padre (un tempo difficile per gli esseri umani sotto la legge), ad un secondo periodo della storia, quello del Figlio (con maggiore libertà, più franchezza, più fratellanza), ad un terzo periodo della storia, il periodo definitivo, il tempo dello Spirito Santo. Secondo Gioacchino questo doveva essere il tempo della riconciliazione universale (...). L'interessante idea che scopersi fu che una corrente significativa di francescani era convinta che san Francesco di Assisi e l'Ordine francescano segnarono l'inizio di questo terzo periodo della storia, e fu loro ambizione l'attualizzarlo; Bonaventura mantenne un dialogo critico con tale corrente".
Tale lavoro di ricerca del giovane teologo una volta edito è stato ripreso da diversi studiosi che, potendo usufruire anche di successivi studi ed edizioni critiche delle fonti, si sono soffermati in modo particolare sulla domanda circa quanto il pensiero di Gioacchino da Fiore abbia influito sugli scritti di Bonaventura da Bagnoregio.
A cinquant'anni da quando nel febbraio 1957 la tesi inerente la teologia della storia in san Bonaventura è stata discussa, quest'opera ritorna al centro dell'attenzione come contributo per comprendere la formazione del pensiero di Joseph Ratzinger.

(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2008)

Gli interrogativi che mi spinsero all'approfondimento della materia

Joseph Ratzinger

Quando nell'autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all'interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica. Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall'istanza specifica della fede cristiana la quale non indica semplicemente all'uomo la via verso l'eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia.
A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine. Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere significato universale ciò che è unico e irripetibile?
Ma, d'altra parte, la "ellenizzazione" della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata? Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico?
Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse. Alla luce della tradizione comunemente accettata della teologia tedesca, mi pareva ovvio che non si sarebbe potuto fare questo a priori; al contrario, ciò si poteva realizzare solo e proprio nel dialogo con quella tradizione teologica chiamata in questione. Unicamente sulla base di questo tipo di studio poteva aver luogo una formulazione sistematica. Ho cercato di dare un'immagine provvisoria di una siffatta formulazione nel mio libro Einführung in das Christentum, che fu pubblicato poco dopo il Concilio (1968).
Avendo dedicato il mio primo studio ad Agostino ed avendo in tal modo acquistato una certa familiarità con il mondo dei Padri, sembrava ora naturale affrontare il medioevo. In relazione alle questioni di cui mi occupavo, Bonaventura era un soggetto naturalmente più adatto per questo studio di san Tommaso d'Aquino. In questo modo si trovò un interlocutore per la discussione. Le domande che speravo di rivolgere a questo interlocutore si possono riassumere in termini generali nei concetti di rivelazione-storia-metafisica.
Prima di tutto studiai la natura della rivelazione insieme alla terminologia utilizzata per esprimerla. Sulla base di questo materiale tentai di descrivere la relazione tra storia e metafisica così come la intese Bonaventura. A tutt'oggi è stato possibile pubblicare solo parecchi frammenti del cospicuo materiale emerso da questa ricerca.
A parte le ragioni esterne implicate, vi era anche una ragione interna: essa deve essere individuata nel fatto che, formulando la domanda in questo modo, stiamo già compiendo un approccio a Bonaventura a partire dal nostro concetto di storia, laddove sarebbe importante leggere Bonaventura all'interno della propria struttura, anche se, così facendo, potremmo scoprire una prospettiva a noi completamente estranea e che potrebbe apparire priva di significato in relazione al nostro problema attuale.
Così concentrai sempre più la mia attenzione sulla teologia della storia così come Bonaventura stesso l'aveva sviluppata nella lotta spirituale della sua età. È questo il modo in cui nacque il presente volume.
I risultati furono abbastanza sorprendenti. Divenne evidente che la teologia della storia di Bonaventura rappresentava la lotta per giungere ad una vera comprensione dell'escatologia. In questo modo essa si ancorava all'istanza centrale della questione stessa del Nuovo Testamento. Era chiaro che la discussione che Bonaventura intraprese con Gioacchino da Fiore - lo straordinario profeta di quel periodo - portò ad un cambiamento del concetto di escatologia che è ancora oggi operativo.
Infine risultò ovvio che la teologia della storia non rappresentava un'area isolata del pensiero di Bonaventura. Al contrario, essa era legata alle scelte filosofiche e teologiche di base che costituirono il presupposto della sua partecipazione alle aspre controversie degli anni Sessanta e Settanta del XIII secolo.
Fu in queste controversie che venne trattato il problema della filosofia e della teologia ed anche quello dell'ellenismo e della de-ellenizzazione, nonché la questione in merito al fatto se la fede può essere trasformata in comprensione.
Mi pare chiaro che Bonaventura non poteva tacere su Gioacchino essendo egli Ministro Generale di un ordine che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita. L'Hexaëmeron è la risposta che egli diede a questo problema in qualità di Generale dell'ordine; è una discussione critica con l'abate calabrese ed i suoi seguaci. Senza Gioacchino quest'opera sarebbe incomprensibile.
Ma la discussione è portata avanti in modo tale che Gioacchino viene interpretato all'interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione. Bonaventura non rifiuta totalmente Gioacchino (come aveva fatto Tommaso): egli lo interpreta piuttosto in modo ecclesiale, creando così un'alternativa ai gioachimiti radicali. Sulla base di questa alternativa egli cerca di conservare l'unità dell'ordine.

Tübingen, 15 Agosto 1969
Dalla prefazione all'edizione americana

(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2008)

Profezia e cristocentrismo: tra Gioacchino da Fiore e Tommaso d'Aquino

Luca M. Possati

La teologia della storia di san Bonaventura non può essere isolata dalle lotte spirituali che segnarono in profondità il XIII secolo perché "una teologia e una filosofia della storia nascono soprattutto nei periodi di crisi della storia dell'uomo". È stato così per Agostino e il suo De Civitate Dei contra paganos, primo grande affresco di teologia cristiana della storia sorto dal crollo dell'impero romano. È stato così anche per il Dottor Serafico: in un'età segnata da gravi divisioni occorreva pensare una nuova idea della storia capace di arrivare al senso autentico dell'opera di san Francesco e insieme di salvare l'unità dell'ordine francescano.
In tal senso, agli occhi di Bonaventura diventava imprescindibile il dialogo critico con la moderna profezia dell'abate calabrese Gioacchino da Fiore. Sullo sfondo, l'attesa di un futuro imminente, di un'era di pace e fraternità donata da Dio e interna alla storia.
Lungo questa linea si articolano i punti nodali del volume di Joseph Ratzinger San Bonaventura. La teologia della storia (tradotto da Marcella Montelatici e curato da Letterio Mauro), studio dal profilo rigorosamente storico, ma al contempo mosso da questioni molto più generali, tra cui in particolare - come afferma l'autore stesso - il rapporto tra la storia della salvezza e la metafisica.
Due le prospettive seguite dal lavoro: una maggiormente analitica (capitolo I) tesa alla ricostruzione e all'analisi degli enunciati relativi alla teologia della storia sparsi nelle Collationes in Hexaëmeron, le "conferenze sull'opera dei sei giorni" tenute da Bonaventura a Parigi all'inizio dell'estate del 1273, poco prima d'esser nominato cardinale; l'altra più interessata alla collocazione storica delle riflessioni bonaventuriane a confronto con gli sviluppi della scolastica, da Ruperto di Deutz a san Tommaso d'Aquino (capitoli III e IV).
Al centro di queste due prospettive, l'attenzione di Ratzinger si focalizza sul concetto di revelatio-inspiratio (capitolo II).
Testo lacunoso, di cui non possediamo il manoscritto originale ma soltanto le trascrizioni degli uditori, le Collationes rappresentano la testimonianza più importante e originale per capire a fondo l'idea di storia in Bonaventura.
"Intento dell'Hexaëmeron - scrive Ratzinger - è contrapporre ai traviamenti spirituali del tempo l'immagine dell'autentica sapienza cristiana" (p. 27). Per arrivare ad essa la Scrittura è la strada maestra. Del testo sacro esistono tre "aree di significato": la spiritualis intelligentia (il contenuto allegorico, tropologico o anagogico), le figurae sacramentales (i segni di Cristo e dell'Anticristo) e le multiformes theoriae (le "visioni" innumerevoli che solo Dio può abbracciare in un unico sguardo).
In quest'ultimo caso "la Scrittura allude al futuro - scrive Ratzinger - ma la profezia di ciò che sarà può comprenderla solo chi conosce il passato, poiché la storia si sviluppa lungo una linea di senso che non conosce soluzione di continuità e in cui ciò che di volta in volta avviene è accessibile per chi guarda solo a partire dal passato" (p. 28).
Già qui emerge un punto fondamentale: l'interesse del pensiero di Bonaventura sulla storia, fa capire Ratzinger, è rivolto al futuro, ma il futuro si può capire solo se si conosce il passato.
Tale concezione storica delle affermazioni scritturistiche, profondamente diversa dall'interpretazione dei Padri e degli scolastici "improntata più decisamente ad un'idea di immutabilità", è un segno manifesto della presenza delle idee di Gioacchino da Fiore.
"Bonaventura non poteva tacere su Gioacchino essendo egli ministro generale di un ordine che era quasi giunto al suo punto di rottura a causa della questione gioachimita" (p. 11). Come per l'abate calabrese, anche per Bonaventura il senso della Scrittura "cresce" nel tempo, matura di epoca in epoca. Essa contiene veri e propri "semi" di senso, rationes seminales, che si potenziano nel corso della storia. Storia e Scrittura si coappartengono.
Interpretazione del testo sacro e teologia della storia si fondono in una completa unità. A svelarlo sono anche i complessi schemi profetici bonaventuriani costruiti su altrettanto complessi giochi numerici, fedeli rappresentanti dell'armonia dell'universo.
Secondo Ratzinger, nell'Hexaëmeron Bonaventura si propone di svolgere il medesimo progetto di sant'Agostino: rendere comprensibile il presente e il futuro della Chiesa a partire dal suo passato. E tuttavia, il Dottor Serafico procede in una direzione completamente diversa.
È qui che può cogliersi un secondo segno forte della presenza delle idee di Gioacchino da Fiore. Con un gesto tanto radicale quanto significativo Bonaventura esclude fin dall'inizio il De civitate Dei dalla teologia della storia propriamente detta, poiché - in base allo schema delle tre "aree di senso" della Scrittura - la riflessione agostiniana parla di figurae sacramentales e non di multiformes theoriae.
Scartando il materiale reperibile nella tradizione, Bonaventura fa proprie alcune tesi tratte dalla Concordia Veteris et Novi Testamenti di Gioacchino. Un'idea è determinante, quella per cui la storia si muove secondo "un gioco di contrapposizione tra Antico e Nuovo Testamento; entrambi sono, per così dire, i due Cherubini posti sopra l'arca di Dio, le due parti del tempo storico aventi la stessa figura" (p. 32).
Né Bonaventura né Gioacchino hanno mai abbandonato la classica dottrina delle sette età risalente ad Agostino. In essa i giorni della creazione erano assunti a modello per dividere senza soluzione di continuità la storia universale in sette periodi: da Adamo fino alla fine dei tempi, fino al giorno eterno della resurrezione della carne e del giudizio universale. Il settimo giorno, rappresentante dell'"eterno Regno di Dio", fu presto affiancato dall'ottavo, il dies dominicus.
In Agostino non esiste alcuna esplicita armonizzazione tra il sesto e il settimo giorno, i cui rapporti restano indeterminati e flessibili. Gioacchino, e sulla sua linea Bonaventura, abbandona ogni perplessità e opta per uno schema rigidamente settenario fondato, come criterio unificante, sulla corrispondenza tra Antico e Nuovo Testamento e dunque, spiega Ratzinger, su "una corrispondenza di due periodi settenari" (p. 38).
Antico e Nuovo Testamento appaiono come le due metà del tempo storico, costruite in modo uguale.
Le conseguenze di una tale opzione sono decisive per la teologia della storia. Si tratta di un concetto sottolineato con forza da Ratzinger: nello "schema settenario duplice" gioachimita-bonaventuriano si esprime una diversa consapevolezza del tempo.
Se il pensiero agostiniano e la tradizione protocristiana hanno sempre e soltanto pensato Cristo come la pienezza della storia, la fine dei tempi, Bonaventura cambia strada e, su suggerimento di Gioacchino, considera Cristo l'asse dei tempi, il centro della storia: non il principio della fine, ma il punto a partire da cui il corso del mondo inizia ancora una volta su un piano più elevato. Idea, questa, estranea a tutto il primo millennio cristiano e che nasce solo con l'abate calabrese.
Tuttavia la posizione di Bonaventura è ben più sfumata di quanto si potrebbe pensare. "L'idea di un'età dello Spirito Santo, che nella versione gioachimita sopprime la posizione centrale di Cristo - spiega Ratzinger - non viene ripresa tale e quale da Bonaventura" (p. 166). In tal senso l'idea di Cristo centro della storia, sebbene di origine gioachimita, è intesa in maniera molto diversa, cioè non nel senso di un superamento del secondo periodo nel terzo, ma - in una direzione più tomistica, questa volta - per "manifestare Cristo come il vero centro, il punto di svolta della storia" (p. 166).
L'idea fondamentale "che contemporaneamente rappresenta il suo prestito decisivo da Gioacchino" è che "Cristo è il centro di tutto" (p. 166). In ultima analisi, su questo punto Bonaventura è più vicino a Tommaso d'Aquino di quanto non lo sia a Gioacchino.
Se Cristo è il centro della storia, Francesco è segno degli ultimi tempi, un messo di Dio che occupa una posizione ben determinata nel cammino dell'umanità verso la salvezza. Angelus ascendens ab ortu solis, Francesco non solo porta il segno divino delle stigmate, ma partecipa anche della funzione dell'angelo apocalittico che usa il sigillo per segnare gli eletti e fondare così "la comunità della fine dei tempi", preannuncio della Ecclesia contemplativa.
Anche qui Bonaventura segue Gioacchino, e legittimamente, sostiene Ratzinger, perché "di fatto, ogni interpretazione del francescanesimo che prescinda dal suo carattere primitivamente legato alla storia della salvezza e più precisamente escatologico, finirà per non cogliere l'essenza dell'insieme" (pp. 67-68).
Come per l'abate calabrese, anche per il Dottor Serafico l'ordo novus sarà un ordine di contemplatio, preannunciato da Paolo e da Beniamino, da Giovanni e da Giuseppe in Egitto, da Mosè e da Daniele, da san Paolo e da san Giovanni. Ma sarà anche un ordine concreto, storico, un ordine che però Bonaventura non identifica con i francescani dei suoi tempi. Con Francesco, infatti, "si stabilisce già in una qualche forma il vero inizio storico di quest'ordine", ma non nello schema della promessa-risposta proposto dagli spirituali.
Per Bonaventura l'ordine ultimo sarà quello "serafico" e non quello "cherubico", a cui appartengono francescani e domenicani. Avrà una qualità diversa.
Ma la distinzione è più sottile. L'ordine escatologico sarà necessariamente un ordine francescano. Francesco stesso è "serafico" e non "cherubico". Tuttavia l'ordine francescano reale, venuto dopo di lui, è soltanto "cherubico", è rimasto incompiuto; non è il vero ordine voluto da Francesco, quello in cui la sua forma di vita potesse diventare una forma di vita universale. Distinzione, questa, molto importante perché, secondo Ratzinger, spiega moltissimo del comportamento di Bonaventura come Generale dell'ordine e del suo atteggiamento come francescano.
"In realtà, il contributo storico di Bonaventura è proprio quello di aver riconosciuto lo scoccare dell'ora storica nel conflitto tra spiritualità esaltata e lassismo ed essersi piegato a ciò, riconoscendo umilmente i limiti imposti dalla realtà" (p. 82).
L'ordine francescano forse fu inizialmente destinato a far nascere immediatamente il nuovo popolo di Dio, ma il peccato dei suoi membri ha vanificato tale possibilità. Certo è che l'ordo novus sarà contemplatio, visio intellectualis di una revelatio.
Proprio qui, nell'analisi approfondita del concetto bonaventuriano di revelatio-inspiratio e della sua distinzione da quello di "Evangelo Eterno" degli spirituali, si concentra un punto determinante del discorso di Ratzinger. Nell'Hexaëmeron il termine revelatio significa prevalentemente "svelamento di ciò che è futuro" (p. 91), ma anche comprensione del senso spirituale della Scrittura, e infine ascesi mistica, "disvelamento senza immagini della realtà divina" (p. 91).
Nella Collatio II queste tre direzioni sono illustrate a partire dalla distinzione di quattro sensi della sapienza: sapientia uniformis, sapientia multiformis, sapientia omniformis, sapientia nulliformis. Così revelatio è in primo luogo comprensione del linguaggio del testo sacro, la sapientia multiformis, tesa in direzione dell'elevazione mistica, la sapientia nulliformis. "In essa il mistico, aggirandosi nella notte dell'intelletto il cui lume si spegne a simili altezze, sfiora in silenzio il mistero del Dio eterno" (p. 94).
È dunque nel concetto di revelatio che si manifesta l'unità - già richiamata - di Scrittura e Storia, così come il suo significato escatologico.
La revelatio è gratia gratis data. Non è la Scrittura come tale, ma la comprensione della Scrittura donata da Dio attraverso la teologia in direzione dello spirituale, dell'autentico, dell'esperienza divina vissuta dallo scrittore sacro, mens Dei spiritu illuminata. Non è però un'esperienza individuale, precisa Ratzinger. Per Bonaventura essa si colloca in un ampio contesto cosmico-gerarchico e vi partecipano tutte le intelligenze angeliche, mediazioni celesti tra Dio e l'uomo.
Proprio qui gioca un ruolo determinante il confronto con le dispute del tempo, l'agostinismo avicennizzante, l'aristotelismo, la scoperta dello Pseudo-Dionigi.

(©L'Osservatore Romano - 20 gennaio 2008)

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