14 maggio 2008

Intervista al cardinale Bagnasco sulla visita del Papa a Genova e Savona (Bobbio per "Famiglia Cristiana")


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PAPA

LA VISITA DI BENEDETTO XVI A GENOVA E A SAVONA

IN MEZZO ALLA GENTE

Intervista al cardinale Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo della diocesi genovese: «La Chiesa in Italia non può essere cancellata, ma deve stare con le persone per aiutarle ad approfondire la fede».

Alberto Bobbio

Sale fin sull’orlo del Piemonte, alto Monferrato, per l’ennesima visita pastorale in una diocesi dove è nato e che ama. Il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ragiona su sé stesso, sulla città, sull’Italia. Ammette: «Quando sono stato nominato presidente della Cei ho temuto che i genovesi non prendessero bene la cosa, preoccupati di avere un vescovo a metà tempo. Invece il clero, i laici e anche le istituzioni hanno capito e mi hanno aiutato con un grande lavoro di squadra».
Scende dall’auto blindata nella campagna di Bosio. C’è una piccola chiesa da visitare, parrocchia di Santo Stefano. L’aspetta la gente, il parroco don Quinto Celli, il maresciallo dei Carabinieri Fabio Martina e anche Tommaso, che farà la Cresima e gioca con il cappello del cardinale. Non si risparmia per la sua diocesi il presidente della Cei. Parla di Genova, ma dice che «il turismo da solo non basta per lo sviluppo della città, perché la sua vocazione sono il porto e l’imprenditoria: Genova e la Liguria devono alzare la voce dove si decide, altrimenti restano inchiodate tra il mare e la montagna. Invece Genova deve diventare porto d’Europa. Bisogna bucare le montagne. Basta volerlo, non è una questione di soldi. I progetti sono pronti. Così il porto tornerà all’antico splendore e anche le aziende attorno. Non ci basta l’alta tecnologia, che è solo lavorazione di nicchia. Deve tornare la grande industria o perderemo i giovani».

È l’ultimo successore di Giuseppe Siri, il cardinale con il quale Genova si è identificata, dice Bagnasco, «a prescindere dalle posizioni politiche, dagli schieramenti, dalle ideologie».

Eminenza, cosa è cambiato? Nessuno mai aveva scritto contro Siri sui muri. Adesso invece lei viaggia con la scorta e qualcuno ha contestato la sua presenza nelle scuole...

«Non è un problema di Genova. In Europa assistiamo a un secolarismo che si tramuta in laicismo e tenta di espellere, con una pretesa sistematica e strategica, la fede e la religione da ogni dimensione pubblica».

In Italia più che altrove?

«No, anche se forse in questo momento alcune vicende fanno scalpore, come l’impedimento al Papa di parlare alla Sapienza. Accade perché in Italia la Chiesa è davvero popolare, vicina alla gente».

Eppure a Genova l’esperienza dei cappellani del lavoro può essere definita un buon esempio di collaborazione in un ambiente difficile e anche di diffusa laicità...

«È vero e fu una grande intuizione del cardinale Siri, anche se all’inizio non mancarono le contestazioni».

Perché l’esperienza non si è diffusa?

«Si ritenne sufficiente l’opera delle parrocchie. E l’organizzazione dei cappellani del lavoro venne smantellata a livello nazionale. Siri non era d’accordo e la mantenne a Genova».

E adesso che il problema del lavoro è diventato centrale?

«Io resto convinto della bontà dell’intuizione di Siri e auspico che l’esperienza di Genova possa diffondersi in tutte le diocesi d’Italia: sacerdoti che vivono nelle fabbriche, nelle aziende, con rispetto di tutti. È una pastorale specifica di cui l’Italia ha bisogno. Il sacerdote è un punto di riferimento per tutti, credenti e non credenti».

Quale Chiesa trova papa Benedetto XVI a Genova?

«Se permette parlo dei miei preti, che sono pochi, spesso anziani, ma sono molto amati da tutti, perché stanno in mezzo alla gente. È una Chiesa indispensabile e questo lo riconoscono anche le istituzioni. Se cancellassimo tutti i campanili e la Caritas, la San Vincenzo, gli ospedali cattolici e le nostre scuole, cosa resterebbe al Paese in un tessuto sociale così sfilacciato?».

E sul piano religioso?

«L’impegno è quello di aiutare la gente a crescere in una fede più pensata, che sappia rispondere a due domande: perché credo e in che cosa credo. Oggi le carte delle religioni, delle filosofie e anche delle teologie, sono sempre più mescolate. Per i cattolici questa è una grande sfida, che si vince solo se sappiamo spiegare che la fede è ragionevole e non fa a pugni con la razionalità dell’uomo. Non basta accostarsi ai sacramenti. Occorre una catechesi più sostanziosa pure dal punto di vista culturale.

Io lo dico sempre ai giovani: dopo i vent’anni non basta più una chitarra e un cartellone colorato, serve anche altro per approfondire la fede».

Altrimenti anche la Chiesa rischia l’adattamento?

«Esattamente. Non possiamo accontentarci delle consuetudini, delle tradizioni religiose, di parrocchie che distribuiscono solo sacramenti. Dobbiamo pensare di più, leggere di più, anche il Catechismo della Chiesa cattolica e il Compendio della dottrina sociale. Ma lo dobbiamo fare con serenità, senza ansie».

© Copyright Famiglia Cristiana n. 20, 18 maggio 2008

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