13 maggio 2008

Le donne e l'aborto, quella scelta non più libera (Casavola)


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L’ANALISI

Quella scelta non più libera

Francesco Paolo Casavola

La notizia di cronaca napoletana sugli aborti clandestini si incrocia con la lettera del presidente della Repubblica alla giovane donna che gli aveva scritto sollecitandolo ad una iniziativa di sostegno alla continuazione della gravidanza, e con il discorso del Papa nella udienza ai membri del movimento per la vita.
La concomitanza dei tre eventi agevola una considerazione meno semplificante di quella entrata nell’uso comune. L’aborto è una conquista di libertà delle donne, chiamate a decidere se dare o negare la vita. La legge crea la figura dell’aborto consentito, a determinate condizioni, in strutture pubbliche, per contrastare quello clandestino. Con tanta enfasi emancipatoria si tende a nascondere il dolore delle donne, che se fossero davvero libere di decidere sceglierebbero nella massima parte dei casi una nuova creatura.

In realtà è la società con i suoi pregiudizi e i suoi modelli di comportamento a non rendere libere le scelte delle donne.

Un tempo, un concepimento per una ragazza nubile o per una donna adultera portava ad una sorta di infamia, cui si sfuggiva solo abortendo furtivamente. Oggi le motivazioni sono più estese, le difficoltà economiche per una madre nubile o in una famiglia dal reddito insufficiente; la limitazione ad una attività lavorativa o ad una carriera derivante dalla maternità; il rischio di un nascituro non perfettamente sano, le cui difficoltà non sono compensate da strutture assistenziali adeguate, con la conseguenza di indurre nella donna un disagio psichico predisponente alla scelta abortiva. Ma non vanno taciuti i casi in cui gli autori maschili del concepimento costringono le donne ad abortire, dopo averle usate come strumento di una sessualità irresponsabile.
È evidente che dinanzi alla complessità delle cause del ricorso all’aborto una legge di regolamentazione dell’intervento clinico ha una portata marginale rispetto al fenomeno sociale. Se si guarda il tasso di natalità italiano, che è il più basso in Europa, la questione non sta nell’aborto, o soltanto in esso o attorno ad esso, ma nella sfiducia delle nuove generazioni nel loro futuro, che non consente quel tanto di certezze indispensabile a trasmettere la vita.

Ecco dunque la necessità di politiche sociali che elevino retribuzioni troppo basse, aprano a tutti l’accesso a fondare una famiglia, consentano alle donne di conciliare il lavoro con la maternità, garantiscano servizi per l’infanzia. Tutto questo può servire a rimuovere le cause economiche e di organizzazione sociale che ostacolano la propagazione della vita, ma non basta perché si diffonda un atteggiamento non egoistico, non utilitaristico ma generoso e coraggioso di accoglienza della vita. Qui interviene un processo culturale, di rappresentazione del senso delle nostre esistenze, che non possono ridursi ad una dimensione puramente individuale. Vedersi rispecchiati in figli e nipoti - si diceva dagli antichi - era dare una artificiale immortalità al genere umano. Fuori di metafora, è dare continuità alla propria esistenza in altre esistenze, per le quali ci si sacrifica disinteressatamente, si soffre e si ama e vale la pena di vivere, senza cadere nella disperazione della solitudine o nella insignificanza dell’essere venuta inutilmente al mondo.

Un tale senso della vita ci viene insistentemente proposto dalla Chiesa cattolica. È la sola voce che nel rumore confuso dei messaggi della cultura contemporanea raggiunge per la sua chiarezza le folle. Il vocio o il vociare altrui, elitario e contraddittorio, anche se amplificato dai media, non scende nelle coscienze.

© Copyright Il Mattino, 13 maggio 2008

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