8 maggio 2007
"Gesu' di Nazaret": una sfida all'esegesi
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INTERVISTA
La ricerca storiografica può addentrarsi nel mistero di Cristo? Il biblista Rinaldo Fabris parla del libro «Gesù di Nazaret»
Sfida all'esegesi
«Se escludiamo le posizioni più radicali, quelle per cui il cristianesimo è solo ideologia, oggi nessuno in campo esegetico mette in dubbio che i Vangeli si fondino sull’evento storico di Gesù e sulla sua morte e risurrezione»
Di Giorgio Bernardelli
Uno sguardo sui Vangeli non appiattito su un unico registro. E con la convinzione che chiudere gli occhi su ciò che agli occhi dei propri contemporanei ha reso la sua figura unica, non è cercare davvero il Gesù della storia. È con questo sguardo che Rinaldo Fabris, presidente dell'Associazione biblica italiana, invita ad affrontare le pagine di Gesù di Nazaret, il libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Un volume che, da biblista, invita a considerare all'interno di un dibattito che viene da lontano.
«Il rapporto tra il Gesù della storia e il Cristo della fede è un tema teologico centrale già da due secoli - commenta -. Oggi, però, se escludiamo le posizioni più radicali (quelle per cui il cristianesimo è solo ideologia o una mera ricostruzione storiografica), nessuno in campo esegetico mette in dubbio che i Vangeli si fondino sull'evento storico di Gesù e sulla sua morte e risurrezione. Ma il nodo che solleva Ratzinger è un altro: la ricerca storiografica - chiede - si deve comunque fermare al dato minimale suffragato dalle diverse fonti o attraverso i Vangeli può provare ad addentrarsi nel mistero di questa persona? Questa seconda è la prospettiva che il libro propone».
Il Papa parla dei limiti del metodo storico-critico, che pure - riconosce - ha dato risultati importanti.
«Il problema è l'impossibilità di arrivare con questo metodo preso da solo a un'immagine a tutto tondo di Gesù, capace di fondare davvero la fede. Per lui invece leggere i Vangeli con onestà porta a scoprire che il Gesù storico è proprio il Cristo della fede. Perché nelle parole di Gesù si ritrova la consapevolezza di una relazione unica col Padre: si presenta come il profeta definitivo, Colui che porta a compimento la Torah. Del resto lo stesso Käsemann, allievo di Bultmann, parlava di un'autorità, di un'immediatezza nei rapporti con Dio, presente nella figura di Gesù e che non può essere spiegata se non ammettendo un'eccedenza che rimanda al mistero. In prat ica ciò che Käsemann afferma per via dogmatica, Ratzinger lo presenta come un dato storico offertoci dalla Scrittura».
Ratzinger invita a ritrovare il Gesù storico non solo nei sinottici, ma anche nel Vangelo di Giovanni.
«Parecchi ricercatori oggi seguono questa linea: il quarto Vangelo, infatti, contiene alcune informazioni riguardo alla geografia e alla storia, che lette nel contesto ebraico del tempo si rivelano molto puntuali e precise. Del resto la tesi di Bultmann, che nel suo commento al Vangelo di Giovanni nel 1941 attribuiva i discorsi di Gesù a una fonte gnostica, alla luce delle successive scoperte non è più sostenibile. E dunque si riscopre l'attendibilità di Giovanni. Anche se poi è interessante notare che il Papa, dopo la premessa sulla dimensione storica, si concentra sui simboli giovannei: il pane, l'acqua, il pastore... Presentato così il simbolo non contraddice la storia, ma coglie la sua dimensione profonda e dunque anche contemporanea. Rivela l'attualità del messaggio di Gesù».
Il Papa rilancia anche il metodo dell'«esegesi canonica»: in che cosa consiste?
«Propone una lettura dei testi alla luce dell'intero canone biblico. È una reazione a un certo frammentarismo del metodo storico-critico: al suo concentrarsi solo sui livelli, sulle fonti...»
Che cosa si perde con questo frammentarismo?
«L'idea della Bibbia stessa come documento storico. Perché i suoi libri sono stati conservati, trasmessi, letti e interpretati non isolatamente, ma come un corpus. E dunque è necessaria questa lettura complessiva, che poi è quella del canone ebraico. A questo proposito anche il tema dell'unità tra Antico e Nuovo Testamento è molto importante nel libro. Non a caso il Papa inizia con una citazione del Deutoronomio e dei simboli giovannei offre la radice biblica. Ci rende comprensibile Gesù dentro la storia ebraica, perché il suo linguaggio, le sue immagini, sono quelle della Bibbia. Anche questo è un dato storic o: non è dai libri apocrifi, ma dall'Esodo, dai Profeti, dai Salmi soprattutto, che Gesù trae il suo linguaggio sul Regno di Dio, sulla promessa riguardo alla vita futura, sul suo rapporto con Dio creatore».
Questa impostazione del libro aiuterà anche il dialogo tra ebrei e cristiani?
«Già come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger aveva firmato il documento Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, che sottolineava espressamente questa continuità. Tenendo però conto anche della differenza: non si può appiattire la figura Gesù dicendo che era solo un maestro ebreo illuminato o un profeta malinteso dall'autorità. Ratzinger lo colloca nella sua specificità sullo sfondo delle attese ebraiche. E ha l'abilità di introdurre anche le tesi di Jacob Neusner, questo rabbino molto "simpatizzante" che non perde però la sua identità di ebreo. Questo è dialogo nel senso vero».
C'è una pagina del libro che l'ha colpita particolarmente?
«Ho già citato la rilettura dei simboli giovannei. Perché nel libro sì, c'è l'attenzione ai risultati, alla ricerca esegetica. Ma il Papa apre anche delle finestre che vanno al di là dei dibattiti teologici o cristologici. Pone la domanda chiave: che cosa ha portato di nuovo Gesù rispetto a ciò che era l'ebraismo o a ciò che avevano già detto le altre grandi esperienze religiose dell'umanità? È la questione della differenza, della novità cristiana, a lui tanto cara. Con Gesù - è la sua risposta - è cambiata l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo. Ha portato l'immagine di Dio Padre dentro l'umanità. Questo, alla fine, è il cuore dei Vangeli».
Avvenire, 8 maggio 2007
Editoriale
L'ebbrezza di naufragare per Cristo
Marina Corradi
Chiudi le pagine del «Gesù di Nazaret» del Papa e ciò che ti resta addosso, prima di tutto, è una sfida, contenuta nelle e in mezzo a quelle righe. La sfida si potrebbe chiamare, in estrema sintesi: la profonda bellezza di un Dio esigente. In un tempo in cui siamo stati educati a accontentarci di appagamenti di corto respiro, di amori a tempo determinato, di promesse da poco, questo libro parla di un Dio che solo può rispondere alla domanda di felicità degli uomini, ma che, anche, domanda tutto. Non semplicemente di essere «buoni» o «onesti», o di osservare una legge, in quella riduzione moralista che ha afflitto l'educazione cristiana di molti. Il Dio di Benedetto XVI vuole molto di più. «Senza un morire - scrive il Papa - senza il naufragio di ciò che è solo nostro, non c'è comunione con Dio, non c'è redenzione».
E certo, il chicco di grano che deve marcire per portare frutto è parola del Vangelo. Ma l'avanzare a una modernità relativista - per la quale ogni scelta si equivale o ognuna è in fondo indifferente - una proposta così radicale, fa venire in mente una pagina di Teresa di Calcutta, in cui scrive: dovunque Cristo ti voglia, su un trono come in mezzo a una strada, devi dimenticarti di te, e andare.
«Naufragio», scrive Ratzinger, «di ciò che è soltanto nostro». Chi legge, se per un momento si confronta davvero con questa pretesa, può provare spavento: ciò che è «nostro», le ambizioni e le attese, e anche la speranza - come la intendiamo noi naturalmente - sui nostri figli, tutto questo deve affrontare un «naufragio». Non siamo più abituati, noi del XXI secolo, a queste sfide, né avvezzi all'altitudine di simili proposte. Ci si domanda abitualmente fra noi di lavorare, di non rubare, di comportarci civilmente, di rassegnarci educatamente all'inevitabile deteriorarsi di amori che non pretendono di essere per sempre. La sfida di Benedetto XVI è invece il rinnovarsi della proposta originaria: cercare Cristo, significa essere disposti a morire a se stessi - essere disposti a tutto.
Sfida a «volere», anche, «tutto». L'uomo che il Papa sembra indicare è il «vir desideriorum» del Libro di Daniele, l'«uomo dei desideri» che «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l'inquietudine del cuore, quell'inquietudine che rimanda l'uomo a qualcosa di più grande». Una passione totale da cui, promette il Papa, trarremmo già quaggiù un pezzetto di Beatitudini: un poco dell'escathon che deve venire, assicura, «è già presente adesso».
Domanda e sfida esigente, e straordinaria promessa. Assurdo, un simile annuncio al nostro tempo? Pensi a quanti, tra quelli che hanno vent'anni, ogni sabato notte si giocano la vita in sfide assurde nel buio - come chiamati dai loro stessi vent'anni a una sfida totale. Ansia ignorata e inespressa, che può andare a gettarsi, insoddisfatta, anche nell'annichilimento di sé. A questa generazione il Papa sembra dire che la domanda estrema della adolescenza va presa drammaticamente sul serio; il problema, è a chi rivolgerla davvero.
Si può leggere il «Gesù» del Papa con distacco, con prudente buonsenso, e trarne una lucida analisi dell'essenza del cristianesimo. Oppure lasciarsi affascinare dall'inaudita pretesa della sua proposta - e correre, duemila anni dopo Cristo, il rischio di un innamoramento.
Avvenire, 8 maggio 2007
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