28 novembre 2007

La storica Galeotti per l'Osservatore: il mondo è caratterizzato dalla differenza sessuale, elemento decisivo "per comprendere la realtà e se stesse"


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Il femminismo nella tradizione protestante

«Io sono mia» ma la salvezza viene da fuori

Giulia Galeotti

La casa editrice Claudiana ha appena pubblicato il saggio La Parola e le pratiche. Donne protestanti e femminismi (pagine 152, euro 14).
Ne sono autrici sette donne - Sabina Baral, Ines Pontet, Giovanna Ribet, Toti Rochat, Francesca Spano, Federica Tourn e Graziella Tron - che, sebbene diverse per età, lavoro e formazione, sono accomunate "da due elementi che consideriamo fondamentali per la nostra vita": la fede protestante e il confronto con le riflessioni del movimento delle donne.

L'interlocuzione, in particolare, è con il femminismo della differenza, che in Italia ha il suo riferimento in Luisa Muraro, nella Comunità filosofica veronese di Diotima e nella Libreria delle Donne di Milano.

La posizione delle autrici, rispetto a quello che oggi è un tema molto attuale, cioè il modo in cui definire la propria identità in rapporto alla sessualità, è netta: il mondo è caratterizzato dalla differenza sessuale, elemento non secondario o casuale, ma decisivo "per comprendere la realtà e se stesse". Essere donna è, infatti, "la fondamentale definizione di identità".
La lettura del libro è interessante soprattutto perché vengono chiariti i punti di distanza fra le teorie del femminismo della differenza e le protestanti femministe: più che l'enucleazione degli elementi condivisi (ricerca, pratiche e fatica della costruzione di un ordine simbolico femminile), è stimolante infatti l'indicazione puntuale degli aspetti di frattura, delle resistenze che allontano le autrici dalle posizioni del femminismo della differenza.
"La prima resistenza ha a che fare con l'ostilità, tipica della cultura protestante, nei confronti dell'affidamento in generale, e di conseguenza della pratica dell'affidamento tra donne". E se di questa pratica viene accolta la distinzione tra autorità e potere - tale distinzione "caratterizza anche il ruolo che i ministeri rivestono nella ecclesiologia protestante: il ministro non dispone di alcun potere sulla comunità, la quale è affidata a un organismo collettivo eletto, ma gli viene riconosciuta una forte autorità (...) eterocentrata e data dalla conoscenza e dalla capacità di trasmettere la parola biblica" - v'è però un suo elemento centrale che proprio non può essere assunto. La pratica dell'affidamento, infatti, ricalca una sorta di relazione tra maestra e discepola di tipo quasi simbiotico, mentre la tradizione protestante attribuisce un valore alto alla libertà di coscienza individuale: la distanza non era "per noi un vezzo egocentrico, ma un'esperienza-attitudine profondamente interiorizzata, che struttura l'identità".
Un'altra resistenza è quella che le autrici avvertono nei confronti del "primato del simbolico". Le loro perplessità in materia attengono a diversi aspetti. Il primo è dovuto al fatto che "la tradizione biblica colloca la vocazione sulla scena della storia, all'interno del patto tra Dio e il suo popolo. La storia, evocata nel passato biblico e vissuta nella contemporaneità, diventa per la coscienza riformata la vera scena della vocazione. Non c'è scelta, convinzione, attitudine teologica che non venga misurata e spesa sul terreno della storia personale e collettiva: prescindere dalla storia ci è impossibile". Inoltre, continuano le autrici, "mentre noi ci sentivamo portatrici di una lunga tradizione, il pensiero della differenza cominciava a elaborare e a proporre politicamente le sue grandi scoperte (...). La democrazia, l'universalità, l'uguaglianza sono per noi tutti valori da sostenere, certamente anche da criticare, ma in maniera propositiva e non da liquidare facilmente come patriarcali. (...) Noi siamo nel mondo completamente (...) in questo senso è stato difficile superare l'idea di libertà basata sui diritti e accogliere la prospettiva che la libertà femminile debba essere attuata sul piano simbolico prima che sul piano giuridico-emancipativo; tale accoglimento ha continuato a intrecciarsi a una nostra particolare attenzione alle lesioni della libertà riscontrabili sul piano storico-giuridico e sociale".
Un altro punto di frattura si richiama al fatto che per alcune donne protestanti - "che si percepiscono prioritariamente come figlie di padre" - l'evocazione dell'ordine simbolico della madre ha suscitato qualche perplessità. "Molte sono state le acquisizioni per noi preziose, anche se l'approdo è stato quello della "ricerca genealogica" più che il riconoscimento delle "madri simboliche". Non si tratta di una distinzione puramente terminologica: lo abbiamo sperimentato proprio nelle relazioni tra donne più anziane e donne più giovani. Queste relazioni non sono contraddistinte tanto da un rapporto maestra-discepola, quanto da un rapporto genealogico di tipo dialettico".
L'aspetto più interessante, però, è la denuncia di una forte discrasia tra "io sono mia" e "il partire da sé" del femminismo, e la consapevolezza delle autrici di "dipendere" dall'Altro. La definizione della loro individualità, infatti, "nasce da un Altro che ci salva, cioè che ci costituisce nella nostra unicità individuale e ci consente di relazionarci con altri e altre nella comunità". In questo senso, "il partire da sé ha costituito un punto problematico per le donne di fede o cultura protestante: è infatti difficile riuscire a coniugare la valorizzazione del proprio sentire con la convinzione che la salvezza viene da fuori, da un Altro che ci ha incontrate e chiamate per nome; difficile anche semplicemente attribuire fiducia al proprio sentire, quando tutto un percorso formativo e la stessa fede biblica richiamano in continuazione alla metanoia, cioè al pentimento e al ravvedimento". È, questo, il nodo cruciale: è la resistenza che avvertono tutte coloro che credono, siano o meno protestanti, davanti ad affermazioni di individualismo così estremo.
Questo aspetto - insieme al rifiuto di una differenza intesa come conflitto tra i sessi, come superiorità femminile e come negazione del confronto -, rappresenta un patrimonio condiviso su cui noi tutte, donne credenti, dovremmo riflettere insieme. Questo saggio, infatti, chiama in causa tutte le donne che vivono la differenza in un percorso di fede.
Il fatto che vi siano problemi comuni su cui lavorare è, del resto, confermato dalla vicenda storica ripercorsa dal libro. In particolare, il ricco e fertile associazionismo femminile ottocentesco (a cui è debitrice tutta la società e non solo le donne), fiorito anche in ambito protestante.
Sin dagli anni Trenta del XIX secolo, infatti, vengono fondate prima le Società di cucito e poi le Unioni femminili valdesi, strutture dai compiti ben definiti, come l'assistenza ai bisognosi, la cura dei figli, l'istruzione e la formazione in senso lato (si va dal commento biblico, alle fondamentali regole igieniche). Una tenace attività che intende reagire a quella povertà che non si articola solo nella mancanza di beni, ma include anche il vuoto spirituale e il disagio morale. Molte donne protestanti dimostrano così grande coraggio nel tentare di diffondere idee sentite come pericolose e minacciose. In particolare, è interessante l'investimento nella diffusione della lettura, al contempo una via di conoscenza del mondo circostante e di trasformazione personale. "A poco a poco le cose evolvono: da oggetto di sollecitudine, la donna diventa soggetto che prende in proprio l'iniziativa del progresso sociale".
È, insomma, il difficile cammino femminile fatto di conquiste che si producono con grande lentezza, passo-dopo-passo. Un cammino che insegna ancora molto a chi, come noi, vive in un mondo in cui il ritmo dei cambiamenti è tale che si rischia di perdere il valore e il significato dello sforzo quotidiano.

(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 2007)

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