16 marzo 2008

Intervista con padre Adolfo Nicolás, Preposito generale della Compagnia di Gesù (Osservatore Romano, Radio Vaticana e CTV)


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Intervista con padre Adolfo Nicolás, Preposito generale della Compagnia di Gesù

I gesuiti oggi, missionari su tutte le frontiere

Un uomo di frontiera. È la definizione scelta da padre Adolfo Nicolás, Preposito generale della Compagnia di Gesù, per tratteggiare l'identikit del gesuita nel mondo d'oggi. Un uomo impegnato nelle difficili sfide poste dalla cultura, dalla scienza, dall'ateismo, dal rapporto con le religioni. E sempre a servizio della Chiesa e nell'obbedienza al Papa. In un'intervista rilasciata a L'Osservatore Romano, alla Radio Vaticana, e al Centro Televisivo Vativano, padre Nicolás traccia un bilancio della trentacinquesima Congregazione Generale della Compagnia di Gesù - svoltasi a Roma dal 7 gennaio al 6 marzo - che lo ha eletto Preposito generale. E offre un ricordo affettuoso e riconoscente dei suoi immediati predecessori: padre Kolvenbach e padre Arrupe. In evidenza i temi della missione, del calo delle vocazioni, dell'apostolato intellettuale, delle prospettive poste dalla collaborazione con il laicato e con le altre congregazioni religiose.

Padre Nicolás lei ha definito la trentacinquesima Congregazione Generale, appena conclusa, una straordinaria esperienza di unità. Come si è manifestata questa unità?

L'unità è stata un fatto evidentissimo e nello stesso tempo, forse abbiamo sperimentato questa volta la diversità più grande nella storia della Compagnia: erano rappresentati praticamente tutti i Paesi dove ci sono i Gesuiti. Ma vi è stata l'esperienza di aver trovato una profonda comunicazione degli uni con gli altri. Ho visto un olandese parlare con un brasiliano in tedesco perché era l'unica lingua comune a tutti e due. E poi la preghiera. Abbiamo avuto questa volta una liturgia preparata molto bene: con musica, silenzi e si è sentita l'unità di tutti nel silenzio, nel canto. È tradizione dire che i Gesuiti non cantano, il gesuita non canta, ma questa volta abbiamo cantato. E bene... E allora il senso di formare insieme un unico corpo è stato molto grande. E poi ancora i giorni dell'elezione del Generale sono giorni molto intensi.

La Congregazione ha rinnovato l'impegno preferenziale della Compagnia di Gesù per la missione alla frontiera - frontiera della fede, della scienza, dell'uomo - qual è l'identikit del gesuita del Terzo Millennio che emerge dai vostri lavori?

Direi che in questa Congregazione abbiamo trovato che l'immagine, l'identikit dei gesuiti, che noi pensiamo e desideriamo, è l'immagine di uomini consapevoli di essere chiamati a una missione difficile. È diventato più difficile per la Chiesa oggi essere nel mondo, dialogare con il mondo e rispondere alla chiamata del Papa che si attende che siamo uomini che andiamo alle frontiere: le frontiere della cultura, della scienza, dell'ateismo, delle altre religioni, tutte le frontiere. Allora diventare gesuita - è sempre stato difficile - ma oggi lo diventa ancora di più. È una missione difficile per la quale c'è bisogno di una totale disponibilità e poi di una nuova e impegnativa mobilità. Ne abbiamo discusso, e anche io ho chiesto ai Provinciali, ai Superiori di rendere questa mobilità normale nella Compagnia, che non riguardi soltanto un gruppetto di missionari, che vanno fuori dei loro Paesi, ma tutti. Dovrebbe essere normale per noi andare in un altro Paese almeno per un certo periodo di servizio o per essere formati meglio in una visione internazionale della Chiesa, del mondo e di noi stessi. Per questo - come ci ha detto anche il Papa - è un impegno che ci porterà difficoltà a cui dobbiamo essere pronti. Difficoltà per la propria reputazione, perché forse ci criticheranno, troveremo malintesi, dovremo lasciare il nostro comfort, la facilità di essere a casa e parlare sempre nella nostra lingua... Ma credo che questo sia qualcosa che è necessario per il servizio alla Chiesa. Come diceva ancora Benedetto XVI riferendosi a sant'Ignazio, i gesuiti devono essere persone che non sono mai contente della mediocrità.

Quali problemi e insidie possono nascere per un religioso dall'operare - appunto - al confine?

Direi tutti i problemi possibili. Il primo problema è che dobbiamo imparare una nuova maniera di guardare il mondo, di vedere le cose e poi di parlare. Ci sono tutti i problemi che sono collegati al linguaggio. I problemi della distanza dal centro, per cui qualcuno a volte pensa che siamo pericolosi, e poi problemi anche personali perché andare alle frontiere e vedere come vivono gli altri, coloro che sono al di là delle frontiere alle volte può essere impegnativo. Però può essere anche molto interessante e attraente perché c'è sempre molto di buono nelle altre persone, nelle altre culture, nelle altre religioni. Per questo per andare alle frontiere c'è bisogno di gente con una fede molto profonda, ben radicata e coltivata. In questo contesto il senso di essere un corpo, il senso di Compagnia - che non a caso è il nostro nome - è importante.

Quali temi di vita religiosa sono stati approfonditi maggiormente nella Congregazione? Le chiedo anche perché e in che senso avete dedicato un documento specifico all'obbedienza?

I temi che abbiamo trattato era stati nella massima parte già preparati prima. Un primo tema che abbiamo trattato è stato quello del governo dell'Ordine. Perché se siamo in un mondo globalizzato, un mondo così pluralista e così interconnesso - adesso sono le reti che hanno importanza - allora abbiamo bisogno di un sistema di governo che sia adatto a questo tempo. Questo è stato un tema. Poi, la nostra collaborazione con gli altri, laici, religiosi, e così via. Poi, soprattutto - come in quasi in tutte le nostre Congregazioni Generali - abbiamo svolto una riflessione sulla missione. Come aggiornare la nostra missione. Oggi, in questo contesto, come riaffermare la nostra identità? La nostra missione oggi tocca la nostra identità e la conferma, o la mette in pericolo e come? Questi sono i temi fondamentali. E poi abbiamo trattato dell'obbedienza. Perché? Le ragioni principali sono due. Una che lo stesso Benedetto XVI ci aveva invitato a riflettere sull'obbedienza, e l'altra che nelle Congregazioni recenti, da venti anni a questa parte, abbiamo riflettuto con una certa profondità sulla povertà, sulla castità, ma non avevamo aggiornato le nostre riflessioni sull'obbedienza nel contesto di oggi.

A questo proposito, perché avete redatto una dichiarazione di accoglienza della lettera inviatavi dal Papa, visto che l'obbedienza al Successore di Pietro è un segno distintivo della vostra Compagnia? E anche: da dove nasce l'impressione che è presente in alcuni ambienti cattolici, di una eccessiva autonomia dell'Ordine dalle gerarchie ecclesiastiche?

Questa dichiarazione di risposta al Papa è parte di un dialogo. Un dialogo che esiste fin dall'inizio della storia della Compagnia, da sant'Ignazio, e ho dovuto continuarlo anch'io. Quando uno viene eletto Generale, la prima cosa che fa è andare a salutare il Romano Pontefice e rinnovare i voti davanti a lui. Anche io l'ho fatto e Benedetto XVI è stato un po' sorpreso, perché prima non lo sapeva, ma ne è stato contento. Anche come Congregazione ci siamo impegnati a riflettere sul nostro rapporto di servizio al Papa; abbiamo riflettuto ed abbiamo redatto questa dichiarazione nella quale riaffermiamo che il nostro carisma è un carisma di servizio nella Chiesa. Non siamo una Chiesa parallela e non siamo una Chiesa nella Chiesa: siamo parte della Chiesa, un piccolo gruppo che cerca di servire. Abbiamo voluto riaffermare questo. Questo è essenziale nella nostra vocazione. Quindi, naturalmente abbiamo voluto riaffermare la comunione con il Pontefice. Perché l'abbiamo fatto così esplicitamente? Perché qualcuno nella Chiesa pensa che noi non siamo così leali, così obbedienti. Credo che questo sia inevitabile. Per me non è un problema che la gente pensi così. Sarebbe un problema se questo corrispondesse al vero. Dico che in certa misura è inevitabile perché siamo alle frontiere. E anche il Papa nell'udienza del 21 febbraio ci ha invitato a continuare ad andare alle frontiere. Ci ha ricordato come modelli storici quei gesuiti che sono andati alle frontiere, hanno aperto strade nuove.

La Compagnia di Gesù si trova di fronte ad un calo di vocazioni, soprattutto in Europa e nel Nord America. Come pensate di affrontarlo?

La questione delle vocazioni è vera. Sono numeri, sono dati. Però, credo che sia un problema che bisogna comprendere nel suo insieme. Non solo i religiosi, non solo i gesuiti hanno il problema delle vocazioni: ci sono stati cambiamenti molto radicali nel mondo in cui viviamo. C'è un cambiamento sociologico: adesso, nei Paesi tradizionalmente cattolici, come l'Italia, la Spagna, le famiglie non hanno figli, ne hanno uno, due e con grandi difficoltà. A casa, noi eravamo quattro e in molte famiglie di gesuiti che io conosco erano quattro, cinque, dodici, tredici fratelli. Adesso, invece, un figlio solo: è molto più difficile lasciare che l'unico figlio vada a farsi religioso, si faccia prete, gesuita! Questo è un cambiamento sociologico che certamente influisce sulle vocazioni. Poi, ci sono cambiamenti ecclesiologico, come è risaputo. Dopo il Vaticano II, ci sono molte vocazioni laiche. La vocazione laica, oggi, viene considerata come una vera vocazione, una vocazione profonda, una vocazione in cui la persona può impegnarsi completamente, per tutta la vita. Allora, per essere un buon cristiano non è necessario essere prete, religioso. E questo, naturalmente, tocca il discernimento dei giovani quando vogliono scegliere la loro vita. Poi, ci sono i cambiamenti demografici: i figli ci sono al Sud, o nei Paesi poveri, e per questo abbiamo più vocazioni a Timor che in Spagna. In Timor sono poveri, hanno famiglie ancora abbastanza numerose, cercano la possibilità di ricevere un'educazione, la motivazione a volte può essere quindi un po' ambigua e per questo noi insistiamo da molto tempo già, da prima del Vaticano II, sulla motivazione e compiamo una selezione abbastanza rigorosa delle vocazioni. Non tutti quelli che vogliono entrare nella vita religiosa hanno vocazione. Io sono convinto di questo. Quello che importa è la purezza della motivazione. Il problema non è moltiplicarsi o sopravvivere, il problema è vivere: come vivere coerentemente con la nostra vocazione. Credo che sia meglio "pochi e buoni" piuttosto che molti che diventano turba, "massa", come diceva sant'Ignazio.

Quali sono state le linee indicate dalla Congregazione rispetto proprio alla relazione di collaborazione con gli altri, per usare una vostra definizione, in particolare con i laici?

Su questo punto non c'è molto progresso. Chi andrà a leggere i documenti troverà che alcune cose erano già state dette. Quello che abbiamo fatto è continuare nella linea già aperta precedentemente, riaffermare quello che era stato detto dalla Congregazione precedente. La trentaquattresima Congregazione era stata molto diretta nell'affrontare questa questione, e noi l'abbiamo riaffermata e vogliamo continuare su questa linea, chiarire alcuni punti e approfondirne altri. Quello che noi abbiamo sottolineato è che vogliamo continuare con un'affermazione chiara dell'identità delle opere nelle quali collaboriamo. Perché questo a volte si può un po' perdere: l'abbiamo sperimentato non soltanto in Asia, dove è più facile perché molti dei nostri collaboratori non sono cristiani.

Benedetto XVI insiste molto sul rapporto fra la fede e la ragione, sulla profondità del dialogo con le culture. Quali linee avete indicato per l'apostolato intellettuale così caratteristico della tradizione della Compagnia di Gesù?

A me personalmente piace riformulare il lavoro intellettuale in termini di profondità. Non è soltanto ricerca, non si tratta soltanto di scrivere libri, non è soltanto il fatto di lavorare in una università, ma è necessario andare in profondità, in tutte le questioni. Adesso il problema demografico e vocazionale dei giovani, comporta un cambiamento nella Compagnia, perché coloro che entrano non lo fanno più come ho fatto io a diciassette anni. A quel tempo era normale, finita la scuola, entrare nella Compagnia. Adesso, invece, facciamo aspettare e questo per dare ai giovani una opportunità di discernere, per dare loro la possibilità di fare una scelta più seria. Questo, però, ci porta delle difficoltà: perché arrivano più "anziani", non certo anziani veramente, ma più maturi. È difficile, quindi, ad una età matura e con il tempo necessario per la preparazione del noviziato e la preparazione spirituale riuscire ad arrivare ad una specializzazione, nella quale bisogna ovviamente avere un certo livello di competenza. Quando noi eravamo giovani di diciassette anni avevamo ancora tempo per tutta la formazione religiosa e per specializzarci in diversi campi. Adesso è certamente più difficile. Il mio pensiero è che, ovunque siamo, dobbiamo agire in profondità: che sia in una parrocchia o in un altro lavoro pastorale, in un collegio di educazione primaria o secondaria o in un centro di spiritualità, ovunque noi siamo dobbiamo andare in profondità. Uno dei problemi più grandi della Chiesa, è quello della pastorale. Manca spesso la profondità, manca la capacità di offrire ai laici possibilità per poter crescere. Nella Compagnia pensiamo che questo richieda sempre un lavoro intellettuale, quello cioè di andare alla frontiera della persona, al suo cuore, alla sua crescita, al dialogo con la cultura e al modo in cui la cultura entra nella vita stessa dei cristiani. Questo è un campo importante. Coloro che possono farlo devono entrare nell'educazione terziaria, nell'università, e nell'università riuscire ad entrare in dialogo con i rispettivi esperti del mondo secolare, per trovare un'umanizzazione della scienza, nei diversi campi. Non possiamo fare grandi cose da soli, ma dobbiamo collegare le diverse istituzioni del mondo, e così facendo potremmo avere risultati molto buoni. Ci sono molte possibilità. È importante questo networking fra gesuiti e non gesuiti e anche con altre Congregazioni, con i laici, con i gruppi di cattolici e non cattolici. È stata anche sottolineata la necessità di collegare - si è usata la parola interface - il lavoro intellettuale e la ricerca delle università da una parte e il lavoro sociale, il lavoro pastorale dall'altra.

Quanto l'ha cambiata la sua lunga esperienza pastorale in Asia? E cosa può dare oggi l'Asia alla Chiesa universale?

Cosa ha cambiato in me la mia esperienza in Asia? Io direi molte, molte cose e profondamente. Io non sono - e questo è certamente personale - una persona che decide di fare una cosa e si impone. A me piace entrare soavemente nella realtà. Quando sono arrivato in Giappone, mi sono trovato abbastanza a mio agio, senza incontrare grandi difficoltà. Mi è piaciuto studiare la lingua, la cultura giapponese e tutto il resto. Mi piace molto anche il cibo giapponese e quindi non avevo grandi difficoltà. Piano piano ho notato che stavo cambiando e questo lo notavano anche i miei amici in Spagna ai quali scrivevo. C'è stato un cambiamento lento, ma totale. Il Giappone e il tipo di cultura giapponese sono stati paragonati dagli antropologi ad un pantano: tutto entra, tutto viene assorbito, ma continua ad essere sempre lo stesso pantano. È una cultura solida, che ha una longevità solida. I giapponesi sono tolleranti, sono aperti e sanno che tutto viene digerito, assimilato e alla fine è sempre lo stesso pantano, con gli stessi fiori e gli stessi alberi. Credo che questo sia vero. Si tratta di un influsso soave. Cosa ha cambiato in me? Forse il modo di vedere le altre persone, di relazionarmi con loro e nelle relazioni essere meno esigente e più disponibile ad accettare, ad accettare l'altro così com'è, relativizzando, quindi, molte cose date per scontate anche nella cultura internazionale. Poi ho imparato il modo di servire la missione, il senso di umiltà.
Passiamo alla seconda parte della domanda, che è certamente più difficile. Ci vorrebbe, infatti, un po' di tempo per riuscire a dare tutte le sfumature di questa questione: come può contribuire l'Asia alla Chiesa universale? Come dicevo prima, anzitutto, in modo soave: non deve essere tutto bianco o nero, forse è necessario un modo diverso di leggere la Scrittura, forse è necessaria una lettura più contemplativa, una lettura del cuore, forse è necessario un equilibrio diverso fra dottrina ed esperienza dello spirito. Quello che mi ha fatto molto pensare in Giappone è vedere come il buddismo, come la "pastorale" buddista, nei templi che ho visitato, consiste nel dare esperienza, insegnare alla gente a riflettere, a meditare, a trovare se stessi. È un processo di grande pratica spirituale. Ho incontrato anche molti italiani che sono andati in Giappone per praticare lo Zen, perché in Italia non trovavano la pratica, ma soltanto le lezioni teoriche. Questo è forse l'equilibrio più grande, il processo di crescita, di conoscenza di se stessi, per crescere poi in Cristo e con Cristo. Questa sarebbe certamente una cosa che la Chiesa potrebbe imparare dall'Asia. L'Asia è meno teorica, è più pratica, è più "di crescita".

Quale ruolo possono avere oggi i gesuiti per la missione della Chiesa in Cina?

A questo posso rispondere molto brevemente. Si può fare molto, ma si può definire poco. Tutto dipende dalle possibilità che ci saranno aperte nel tempo. Ci sono gesuiti che vorrebbero aiutare, ma è necessario comprendere dove e come poter collaborare. In Asia la cosa più importante è essere specializzati in qualcosa, perché se si è specializzati e veramente esperti in qualcosa tutti avranno bisogno di noi. Se non si è esperti in niente, certo si potrà lavorare, ma sarà un lavoro meno efficace. Per la Cina, credo che potrà essere così: la Cina cercherà degli esperti, non dei missionari, ma degli esperti che possano aiutare questa Cina che sta crescendo. Per questa via potremo collaborare.

L'Africa è una delle preferenze apostoliche globali indicate dalla Congregazione. Quali riflessioni e linee d'azione avete elaborato?

Dell'Africa non abbiamo parlato molto, in realtà. Ma quello che è chiaro tra di noi è che la vogliamo aiutare, e questa è una priorità già stabilita da padre Kolvenbach, mio predecessore. Molti provinciali che sono venuti a Roma hanno parlato di questo, ma l'iniziativa deve partire dall'Africa. È molto difficile definire, da Roma, di cosa essi possano avere bisogno. E dall'Africa è stato già chiesto ai gesuiti di formare un'università, e questo progetto è allo studio da due anni. Ci sono idee, ma non ancora realizzazioni perché, come si sa, nel XXI secolo non è facile come nel XVI. È quindi un processo in corso: gli africani che hanno partecipato alla Congregazione si sono riuniti per due giorni subito dopo la Congregazione, proprio per riflettere su che cosa si possa fare. Ci sono, infatti, problemi complessi. Ma quello che pensiamo noi, come Congregazione, è che l'iniziativa deve partire dall'Africa.

Per che cosa lei ritiene che la trentacinquesima Congregazione generale potrà essere specialmente ricordata?

Nelle Congregazioni, distinguiamo tra quelle in cui viene eletto il preposito generale e quelle in cui non c'è elezione. Nelle Congregazioni in cui è prevista l'elezione del preposito generale, gran parte delle energie viene investita nell'elezione, e c'è quindi meno discussione su altri argomenti. Ecco il motivo per cui questa volta abbiamo affrontato in modo approfondito soltanto cinque, sei argomenti, mentre nella Congregazione precedente, alla fine, avevamo pubblicato ben ventisei documenti. È stato, quindi, un orientamento diverso.
In questa Congregazione, mi pare che l'aspetto più importante sia stato l'accento sul nostro rapporto profondo con il Papa e con la Chiesa, con il centro della Chiesa, potremmo dire. Con la Chiesa nel suo insieme: noi siamo sempre nella Chiesa; ma più specificamente con il Papa e la Chiesa. Questo è stato un cammino molto sereno, gioioso e l'udienza con Benedetto XVI ne è stata l'espressione. Ho visto che tutti ne sono usciti molto felici: il Santo Padre è stato molto positivo, molto cordiale. E questo è molto importante per noi, ci dà la sensazione di essere ancorati nella Chiesa e al lavoro per la Chiesa.
Poi, c'è anche la consapevolezza che, per poter rendere questo servizio, abbiamo bisogno di grande flessibilità nelle nostre strutture. Ecco perché una delle cose che la Congregazione mi ha chiesto è di rivedere le nostre strutture, in modo che possiamo "servire" con maggiore flessibilità, più facilmente e rispondere meglio alle istanze dei nostri tempi.

In Spagna, subito definita dopo la sua elezione, lei è stato definito il nuovo Arrupe. Che cosa la unisce a questo suo predecessore e che cosa le lascia invece come eredità il padre Kolvenbach?

Non sono il nuovo Arrupe né il nuovo Kolvenbach né altri, ognuno è chi è. Però Arrupe sicuramente mi ha influenzato, già in quanto l'ho avuto come provinciale in Giappone. Quando ero in Giappone, infatti, è stato mio provinciale per quasi quattro anni e poi generale. Quello che sempre mi ha più impressionato di Arrupe non è quello che ha fatto - tutti fanno qualcosa - ma la sua persona. Era una persona integra, molto consistente e coerente. Nonostante le diversità di opinioni o di stile è stata sempre una persona che ha saputo dire sì a ciò che è importante. Per me Arrupe e sant'Ignazio si avvicinano molto, sono due persone che quando dicono sì a Dio è sì, e quando dicono sì alla Chiesa è sì. Arrupe non aveva condizioni, né ombre, si dava totalmente. Lo stesso avvenne quando fu messo al servizio della Compagnia come generale, al servizio del popolo e dei poveri. Quando Arrupe ha compreso che i poveri erano al centro del Vangelo - e non solamente nel suo servizio come medico in occasione dello scoppio della bomba atomica - la sua decisione nel riconoscere che i poveri sono al centro è stata totale. E poi un'altra cosa che mi piace di Arrupe è che tutto questo lo faceva con molta allegria. Arrupe era un uomo molto allegro e ottimista.
Padre Kolvenbach è diverso, è un'altra persona. È un intellettuale, un uomo più "riposato". Quello che impressiona tutti è la saggezza. È un uomo saggio, con un grande giudizio, sa vedere le cose, le capisce molto bene subito, ha una struttura mentale molto solida e forte, e al tempo stesso una grande calma, una calma interiore. E poi ha saputo consolidare con successo tutto il bene che c'era nella Compagnia, l'eredità che gli aveva lasciato Arrupe. E infine, aveva un grande senso dello humour. Arrupe era un uomo allegro, Kolvenbach era un uomo di spirito e questo lo ha aiutato a mantenere la calma. Quando si vive la vita con spirito, si possono fare molte cose.

(©L'Osservatore Romano - 16 marzo 2008)

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