14 marzo 2008

IRAQ, IL GENOCIDIO STRISCIANTE: SIAMO DI FRONTE A UNA VERA PULIZIA ETNICA


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IL GENOCIDIO STRISCIANTE

SIAMO DI FRONTE A UNA VERA PULIZIA ETNICA

LUIGI GENINAZZI

Nella tragica sequenza irachena d’orrore e di morte la data di ieri segna un macabro punto di svol­ta che lascia allibiti. È grande il no­stro dolore di fronte al cadavere del vescovo caldeo di Mosul, sequestra­to, lasciato morire o, più probabil­mente, ucciso, e poi sepolto dai suoi rapitori che vigliaccamente si sono risparmiati anche il gesto pietoso di consegnarlo alla comunità cristiana cui l’avevano sottratto. Ma è ancor più grande la nostra indignazione. L’unica 'colpa' di questo martire della Chiesa del terzo millennio è stata l’aver continuamente esortato i suoi fedeli a rimanere in Iraq. Per questo era nel mirino dei terroristi e dei fanatici islamici in una terra dove, vale la pena ricordarlo, i cri­stiani hanno antiche radici e sono presenti da ben prima che arrivas­sero i seguaci di Maometto.

Che le cose volgessero al peggio di­venne subito evidente dopo la 'guerra di liberazione' voluta dagli Stati Uniti, nell’agosto del 2004, quando una serie di attentati pro­vocò decine di morti tra i fedeli che riempivano le chiese di Baghdad e di Mosul. Da allora è stata una escala­tion continua: sequestri, rapimenti e uccisioni di sacerdoti, attacchi a luoghi di culto, violenze, minacce e ricatti nei confronti dei fedeli, per­secuzioni quotidiane che hanno già decimato una delle comunità cri­stiane più vive di tutto il Medio O­riente. Non a caso è stato colpito monsignor Rahho, il vescovo di una città come Mosul che è la culla del cristianesimo iracheno, il cuore del­la regione più fittamente popolata dai caldei spinti ad un’emigrazione umiliante e ad una fuga precipitosa. Non c’è scampo: o il ritorno alla 'dhimma', l’antica legge islamica che impone ai cristiani la sottomis­sione ed il pagamento di una tassa, o l’esilio. Chi si rifiuta è un condan­nato a morte.

Siamo di fronte ad un martirio col­lettivo che si configura come una ve­ra e propria pulizia etnica. Quel che sta avvenendo in Iraq è il genocidio strisciante dei cristiani.

Un intellet­tuale laico come Regis Débray l’ha paragonato all’antisemitismo. E pa­dre Abdel Ahad, uno dei preti ira­cheni che ha passato quaranta gior­ni nelle mani dei fanatici jihadisti, ha detto: «Ho conosciuto l’odio profondo che i terroristi islamici nu­trono verso i cristiani, ho sperimen­tato sulla mia pelle il loro progetto di cacciarci tutti quanti».

Ma la sopravvivenza dei cristiani in Iraq non riguarda solo la religione. È un problema che tocca le sorti del­la civilizzazione e interpella la co­scienza dell’Occidente. Le comunità cristiane in Medio Oriente hanno sempre rappresentato un ponte di dialogo ed un fattore d’equilibrio. Si tratta di un patrimonio culturale, spirituale ed anche materiale che ha arricchito le nazioni al cui interno i cristiani di rito orientale, pur in mez­zo ad alterne vicende, vivono da quasi due millenni.

Oggi in Iraq, sarebbe miope negar­lo, i cristiani stanno peggio che ai tempi di Saddam Hussein. Certo, an­che loro avevano dovuto sopporta­re i controlli e le limitazioni imposte dalla dittatura baathista. Ma sono stati i primi che nella caduta del re­gime hanno intravisto il pericolo di un’esplosione violenta del fanati­smo islamico. Un rischio divenuto realtà e di cui stanno pagando un prezzo altissimo.

L’Occidente, ed in primis il 'cristiano rinato' George Bush, dovrebbero farsene carico, promuovendo una grande campa­gna per accogliere i profughi dall’I­raq e una vasta mobilitazione perché si metta fine al genocidio dei cri­stiani, il nuovo antisemitismo che ci addolora e ci indigna.

© Copyright Avvenire, 14 marzo 2008

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