30 aprile 2008
Glosse a Benedetto: Vito Mancuso commenta il discorso del Papa all'Onu
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Glosse a Benedetto
Vito Mancuso
A parte una sfumatura sulla scienza di cui dirò in seguito, mi sono ampiamente riconosciuto nel discorso di Benedetto XVI alle Nazioni Unite e sono felice di avere un Papa che dice quelle cose. Mi piacerebbe però, ed è il senso di questo articolo, che dalle idee affermate discendesse coerentemente un più armonico rapporto con la modernità e con il nostro tempo, di cui la chiesa e anche la società laica hanno, a mio avviso, estremo bisogno.
La mia tesi è che proprio dai valori affermati da Benedetto XVI in America si impone un cambiamento di prospettiva nel valutare il mondo moderno e contemporaneo, e ora passo all’argomentazione. Colloco il discorso papale alle Nazioni Unite accanto a quello pronunciato a Ratisbona, a quello pronunciato a Verona e a quello che non poté tenere alla Sapienza di Roma: discorsi di grande spessore teologico e filosofico, animati da una forte fiducia nella razionalità, una razionalità cosmica e naturale prima ancora che umana, che è ciò di cui, a mio avviso, il nostro tempo ha maggiormente bisogno. La malattia dello spirito del nostro tempo è infatti definibile mediante ciò che Hans Jonas chiamava “sindrome gnostica”, ovvero la posizione di una netta distanza del mondo (natura + storia) da Dio. Secondo l’essenza dello gnosticismo Dio, il vero Dio, è un Dio separato, distante, altro, persino opposto a questo mondo, il quale invece è dominato da potenze oscure. Noi, figli del Novecento, abbiamo perso ogni fiducia nella razionalità della storia e della natura, la cosa vale a maggior ragione per noi europei. Noi sappiamo pensare la verità nel migliore dei casi come esattezza e quindi assegniamo alle scienze esatte il primato in ordine alla definizione di ciò che è vero e di ciò che non lo è, dimenticando che l’esattezza è solo una delle caratteristiche che contribuisce alla formazione della verità, mentre perché ci sia verità nel senso forte del termine sono indispensabili anche l’universalità e l’integralità. “Il vero è l’intero”, si legge nella Prefazione della “Fenomenologia dello spirito”, e se all’intero senza le scienze esatte non ci si arriva, d’altro lato esso non è riducibile alle sole scienze esatte. Perché la natura ci consegni la sua (e quindi la nostra) verità, oltre alla scienza è necessaria la sapienza. La scienza analizza, la sapienza sintetizza. La scienza smonta, la sapienza rimonta. La scienza riduce ai minimi termini, la sapienza risale ai massimi sistemi. A un mondo che conosce solo il primo movimento, il Papa ricorda con forza anche la necessità del secondo.
Nel discorso alle Nazioni Unite l’ha fatto in primo luogo parlando della necessità del diritto internazionale. Mediante il richiamo al domenicano Francisco de Vitoria, cui già Carl Schmitt nel suo “Il Nomos della terra” aveva riconosciuto il ruolo di padre del diritto internazionale, Benedetto XVI invita gli stati a comprendere la reale necessità di “un grado superiore di orientamento internazionale”. E’ la stessa dinamica della vita a richiederlo, quella vita che si muove mediante la logica dinamica di una crescente organizzazione, un processo che a livello fisico si attua mediante particelle che diventano atomi e questi molecole, a livello biologico mediante cellule che diventano tessuti e questi organi e questi un organismo, a livello antropologico mediante un corpo che è anche psiche e spirito, a livello sociale mediante la coppia che diviene famiglia e vive in una rete di relazioni umane e professionali, a livello amministrativo mediante la catena comune-provincia-regione-stato, a livello internazionale mediante il nesso (per noi europei) di stato nazionale-Comunità europea-Nazioni Unite. La legge della vita è la relazione, appare evidente in ogni ambito dell’essere, e quando l’incipit del Quarto Vangelo dice “en arché en ho logos”, cioè in principio era la relazione, compie un’affermazione che è al contempo fisica, metafisica e politica. E’ cioè vera, in quanto universale.
Il fatto che Benedetto XVI abbia sottolineato il ruolo essenziale delle Nazioni Unite quale sommo livello dell’organizzazione della vita politica è estremamente importante, soprattutto in un momento nel quale non mi sembra che le Nazioni Unite godano di grande autorevolezza.
Secondo le parole del Papa, tutti gli stati devono concorrere alla creazione di un livello di organizzazione superiore a loro stessi, nella linea, per citare ancora il Papa, di quell’insieme di regole “intrinsecamente ordinate a promuovere il bene comune”, regole che ogni stato dovrebbe poi rispettare. Se questo processo si realizzasse effettivamente, tragedie come la guerra in Iraq (condotta contro il volere delle Nazioni Unite e basata sulle menzogne dell’Amministrazione Bush con le slide di Colin Powell sui siti di costruzione delle armi di distruzione di massa) potrebbero essere rese un po’ più difficili.
Naturalmente il Papa ha ricordato la sottile dialettica tra il livello più alto dell’organizzazione politica e il primato della persona (una dialettica che deve valere anche all’interno della chiesa cattolica, mi permetto di aggiungere). Non si tratta cioè di creare una gelida rete di regole che, dall’alto, siano norma a ogni agire delle nazioni e persino delle persone, ma di imbastire le regole fondamentali dentro le quali gli stati e le persone agiscano poi nella libertà ma anche nel rispetto reciproco. Il baricentro è sempre da posizionare in basso, nel primato della persona e della sua coscienza, e splendidamente il Papa ricorda di “porre la persona umana al cuore delle istituzioni”, in quanto essa è il “punto più alto del disegno creatore di Dio” (il che deve valere nel rapporto tra chiesa e singolo, mi permetto di aggiungere).
Accanto a queste profonde considerazioni sul diritto internazionale, Benedetto XVI ha collocato un breve quanto incisivo richiamo al rapporto tra scienza ed etica. Io condivido la visione secondo la quale vi deve essere una subordinazione della scienza all’etica (salvo poi, ovviamente, andare a definire per bene che cosa è etica, e al riguardo io non trovo di meglio che rifarmi alla lezione di Kant). Penso che la subordinazione della scienza all’etica sia un’esigenza condivisa dalla grandissima maggioranza dell’umanità. Inutile ricordare i pericoli che possono venire da una potenza scientifico-tecnologica fuori controllo. Ma qui mi permetto una piccola osservazione critica al discorso papale. Perché, domando, privilegiare sempre i pericoli della scienza rispetto ai grandi servizi che essa oggi, qui e ora, rende all’umanità? Il Papa si è limitato a relegare in una proposizione concessiva il ruolo positivo della scienza (“nonostante gli enormi benefici che l’umanità può trarne”) concentrandosi invece sui pericoli che da essa derivano: “chiara violazione dell’ordine della creazione… viene contraddetto il carattere sacro della vita… la persona umana e la famiglia vengono derubate della loro identità naturale”.
Anche nella “Spe salvi” aveva dato un giudizio ben poco lusinghiero sulla nascita dell’impresa scientifica moderna, con particolare riferimento a Francis Bacon. Ma in questo modo si rende davvero ragione dell’effettiva verità delle cose? E si riesce a entrare in un dialogo costruttivo con i protagonisti dell’attività scientifica? Gli enormi benefici che vengono dalla scienza cui anche il Papa rimanda, l’umanità non solo li può trarre, ma li gode già qui e ora, in ogni momento. Chi ha dei dubbi vada in un ospedale e se li faccia passare. L’aumento costante della durata e della qualità della vita umana a che cosa lo si deve se non ai risultati dell’impresa scientifica? Per non parlare dello scambio continuo di comunicazione e di informazione che non può, nel suo insieme, che essere un beneficio per l’umanità, perché quando ci si conosce il timore reciproco svanisce e con il timore la prima causa dei conflitti. Sono molti altri i benefici che quotidianamente dobbiamo alla scienza e sono sotto gli occhi di tutti. Mi chiedo quindi se sia giusto e saggio sottolineare quasi solo i pericoli della scienza. Inoltre la voluta subordinazione della scienza all’etica non può essere realizzata solo per via giuridica ma richiede anzitutto un processo culturale, nel senso che il luogo in cui essa si realizza non sono primariamente i codici di diritto ma sono le coscienze degli scienziati, ed è ad esse che occorre parlare. La scienza astrattamente intesa non esiste, esistono donne e uomini che la coltivano. E sono essi che devono giungere a subordinare il loro lavoro al più alto splendore del bene comune e della giustizia, ma lo faranno solo se saranno intimamente convinti di farlo.
Oltre al diritto internazionale e alla scienza, c’è un terzo argomento del discorso di Benedetto XVI che vorrei sottolineare, cioè la libertà religiosa. Si tratta di un argomento presente con forza anche negli altri discorsi americani, e in genere nella predicazione papale.
Nel discorso alle Nazioni Unite si legge che è “inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi”. Vero, verissimo, come non essere pienamente d’accordo?
Ora però vorrei ricordare quanto affermato dal teologo americano Richard Neuhaus nell’articolo pubblicato da questo giornale mercoledì 16 aprile. Anche in forza di una lunga amicizia con Joseph Ratzinger, Neuhaus ha affermato che il Papa “è un cristiano agostiniano”. Io, nel mio piccolo, sono d’accordo, l’ho scritto e dichiarato più volte. Ma che cosa significa essere “agostiniano”? Qui inizia un bel problema, qui siamo in presenza di un nodo strutturale che riguarda non solo il pensiero di Benedetto XVI ma l’intera storia del cristianesimo occidentale.
Il punto delicato della questione è che di Agostino ce ne sono due: il primo e il secondo Agostino. C’è l’Agostino dei primi anni della conversione che è filosoficamente neoplatonico, e c’è l’Agostino della maturità e della vecchiaia che giunge a essere filosoficamente, come dire?, non trovo di meglio che “agostiniano”. Qual è la differenza tra i due Agostino? E’ quella che riguarda il rapporto Dio-Mondo, se cioè Dio sia interno all’uomo e quindi al mondo (“interior intimo meo”, si legge in “Confessioni” III, 6, 11) e quindi la verità abiti nell’uomo interiore (“in interiore homine habitat veritas”, si legge in “De vera religione” 39, 72); oppure se al contrario Dio sia il totalmente Altro rispetto al mondo e all’uomo, il quale uomo in quanto fenomeno naturale è irrimediabilmente peccatore, dominato dalla concupiscenza e quindi del tutto incapace di ogni pur minima forma di giustizia che venga dalla sua sola natura, sicché si deve parlare dell’umanità (come ripetutamente fa il tardo Agostino) come di una “massa damnationis”, una massa dannata da cui Dio estrae, senza nessun criterio oggettivo, solo pochi eletti destinandoli alla salvezza per pura grazia. Qual è il vero Agostino? Entrambi. Agostino è l’uno e l’altro, è l’umanista che riconduce la verità all’uomo interiore, ed è l’antiumanista che manda all’inferno tutti i non battezzati, bambini compresi. Basandosi sul principio gadameriano della Wirkungsgeschichte o storia degli effetti (secondo il quale un’idea la si capisce alla luce degli effetti storici che ha generato) basta dare un’occhiata alla storia dell’agostinismo per rendersi conto di quanto affermato. I principali “eretici” moderni furono ferventi agostiniani: mi riferisco a Lutero (il quale amava ripetere: “Totus meus Augustinus”), Calvino, Baio, Giansenio, Arnauld, Quesnel. Ma, dall’altro lato, a comporre l’altro polo dell’antinomia c’è il dato altrettanto reale che furono agostiniani anche gli umanisti del rinascimento come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro. Ad Agostino si sono potuti richiamare sia i protestanti anti-umanisti che sottolineavano la corruzione della natura umana e della natura tout court (di essi Giordano Bruno diceva che fanno della natura “una puttana bagassa” e della “legge naturale una ribalderia”), sia gli umanisti neoplatonici che sottolineavano al contrario la divinità della natura, sia umana che non. Sant’Agostino è una bomba carica di antinomie, e per questo ancora non cessa di infondere stimoli formidabili al pensiero cristiano e insieme però di creare qualche problema. La contraddizione interna a sant’Agostino abita infatti tutti gli agostiniani, Benedetto XVI (mi permetto di dire) compreso.
Non ho certo intenzione di ergermi a supponente censore del Papa, lui che mi sovrasta non solo per il ruolo istituzionale ma soprattutto per la statura intellettuale. Cerco solo di esercitare la ragione, definita dal Papa stesso “il grande dono di Dio all’uomo” (“Spe salvi”, 23). Cerco quindi di ragionare offrendo questo contributo a chi, a sua volta, lo voglia fare. La mia tesi è che l’ambiguità agostiniana in ordine al nesso Dio-Mondo-Uomo si rispecchia anche nel magistero di Benedetto XVI. Egli infatti da un lato esalta ciò che il mondo e la società laica hanno insegnato e consegnato alla chiesa cattolica, dall’altro polemizza a tutto campo contro questo mondo e questa società laica contemporanea accusandola di relativismo e secolarismo. L’agostinismo che ispira la sua visione del mondo umano lo pone in un rapporto conflittuale con la modernità e gli impedisce di riconoscere che quei valori che lui stesso ha affermato a New York sono venuti alla chiesa cattolica grazie alla modernità illuminista. Sono infatti di origine illuminista questi valori affermati dal Papa nel discorso alle Nazioni Unite: 1) “il federalismo di liberi stati” (ho citato Kant) che è alla base delle moderne Nazioni Unite; 2) il primato dell’etica; 3) la sottolineatura dell’universalità dei diritti umani al di là, per citare Benedetto XVI, “dei contesti culturali, politici, sociali e perfino religiosi”: tale idea non sarebbe pensabile senza la lotta dell’illuminismo per l’universalità della ragione politica, basata sui diritti umani che vengono dal basso e non sul diritto divino che scende dall’alto (difeso invece per secoli dalla chiesa cattolica schierata accanto ai regimi dell’ancien régime); 4) la libertà religiosa.
A quest’ultimo proposito è utile ricordare che nel 1832, quando già da mezzo secolo in America Thomas Jefferson aveva scritto la Dichiarazione d’Indipendenza approvata dal Congresso il 4 luglio 1776, qui da noi in Europa papa Gregorio XVI scomunicava il cattolico liberale Felicité de Lamennais, reo di aver difeso pubblicamente l’idea della libertà religiosa. Nell’enciclica “Mirari vos” che ne seguì il Papa definiva la libertà religiosa un delirio, “deliramentum” nell’efficace latino curiale. Ora quel deliramentum è diventato uno dei capisaldi della predicazione papale, prima di Giovanni Paolo II, ora di Benedetto XVI. La cosa mi rallegra enormemente, ma insieme sprona la mia onestà intellettuale a riconoscere che senza l’illuminismo la libertà religiosa non sarebbe stata neppure pensabile, come non lo sarebbe stato Thomas Jefferson che la pose a fondamento degli Stati Uniti d’America. La libertà religiosa non è un patrimonio cattolico, è una conquista della laicità illuminista, spesso contro l’opposizione dei cattolici del tempo. Noi cattolici, senza gli illuministi, non saremmo neppure arrivati a concepirla, la libertà religiosa. C’è la storia alle nostre spalle a dimostrarlo, a partire dai cosiddetti “Decreti teodosiani” contro il paganesimo del 391-392, passando per una serie di eventi dolorosi e criminali che sarebbe fin troppo facile ricordare.
La piena accettazione della libertà religiosa da parte della chiesa cattolica è avvenuta solo l’8 dicembre 1965 con la dichiarazione del Vaticano II “Dignitatis humanae” e ha significato, teologicamente parlando, l’accettazione della laicità della storia. Si tratta, ritengo, di un processo sostanzialmente e felicemente concluso, ennesima prova ne siano i forti e profondi discorsi in America di Benedetto XVI. Ma ora occorre procedere nell’ascolto della continua rivelazione dello Spirito verso la verità tutta intera, giungendo all’accettazione di un’altra libertà, alla quale è probabile che dedicherò il mio prossimo intervento su questo giornale.
© Copyright Il Foglio, 30 aprile 2008
Si', Mancuso, ma sarebbe stato possibile l'Illuminismo senza la Chiesa e la cultura cattolica? Che cosa hanno studiato Voltaire e gli altri studiosi se non la grande e meravigliosa eredita' cristiana europea?
Il Papa non e' per niente contraddittorio quando da un lato esalta la cultura laica e dall'altro mette in guardia dai rischi di un'applicazione servaggia della stessa.
Benedetto XVI ammira e ringrazia la scienza per i suoi progressi ma chiede a tutti ed a ciascuno di vigilare perche' essa non violi mai la dignita' dell'uomo.
Papa Benedetto e' un uomo dell'universita', ama quei templi della cultura, ma da uno di essi e' stato scacciato.
Ecco il punto! Va benissimo la scienza, le siamo tutti grati, ma quando i suoi "interpreti" utilizzano la loro presunta superiorita' razionale per allontanare chi la pensa diversamente, allora, ci sia concesso di dissentire e di denunciare l'ignoranza e la paura di chi pensa di ridurre al silenzio l'interlocutore.
Detto questo, mi e' piaciuto molto questo articolo di Mancuso soprattutto per l'accostamente dei discorsi "monumentali" del Papa (Onu, Ratisbona, Verona e allocuzione, mancata, alla Sapienza).
Raffaella
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2 commenti:
Purtroppo cara raffaella cosa potevi aspettarti da Mancuso??????
Lasciamo perdere è inutile perdere tempo a chi è preda dell'ideologia più cieca.
Io invece apprezzo l'articolo di Mancuso.
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