25 aprile 2008

Nell'Aula Paolo VI il coro e l'orchestra della fondazione "Giuseppe Verdi" (Osservatore Romano)


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Nell'Aula Paolo VI il coro e l'orchestra della fondazione "Giuseppe Verdi"

Un concerto con brani di opere di compositori italiani e tedeschi è l'omaggio offerto a Benedetto XVI dal Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, in occasione del terzo anniversario dell'inizio del Pontificato. Orchestra e coro sinfonico della fondazione "Giuseppe Verdi" di Milano hanno eseguito, nel pomeriggio di giovedì 24 aprile, nell'Aula Paolo VI, le quattro versioni originali della "Ritirata notturna di Madrid" di Luigi Boccherini, opera di Luciano Berio; "Il canto del destino", di Johannes Brahms, e "La settima sinfonia in La maggiore" di Ludwig van Beethoven.
Prima di prendere posto per assistere all'esibizione, il Papa ed il Presidente Napolitano si sono intrattenuti a colloquio privato in una delle salette adiacenti all'aula.
Prima dell'esecuzione del concerto l'onorevole Napolitano, in un breve indirizzo d'omaggio, ha voluto tra l'altro esprimere al Papa piena "consonanza" per il messaggio rivolto al mondo a proposito dei diritti umani, dall'alto consesso delle Nazioni Unite.
Al concerto hanno assistito numerose personalità. Erano presenti trentatré cardinali, tra i quali il segretario di Stato Tarcisio Bertone e il decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano; numerosissimi arcivescovi e vescovi; i membri del Corpo Diplomatico presso la Santa Sede, accanto ai quali erano gli arcivescovi Fernando Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, e Dominique Mamberti, segretario per i rapporti con gli Stati, con l'assessore Caccia e il sottosegretario Parolin. Erano inoltre presenti il prefetto della Casa Pontificia, arcivescovo Harvey, con gli altri membri della Famiglia Pontificia. Accanto al Papa era anche il fratello, monsignor Georg. Il governo italiano era rappresentato dai suoi massimi esponenti, guidati dal presidente del Consiglio Romano Prodi.
Al termine del concerto il Papa ha salutato e ringraziato personalmente i direttori dell'orchestra, Oleg Caetani, e del coro, Erina Gambarini. Un particolare ringraziamento lo ha poi riservato ai musicisti.

(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2008)

Nella musica di Brahms il verso che Hölderlin non ha scritto

di Marcello Filotei

La lista della spesa o La Tempesta di Shakespeare per Rossini erano la stessa cosa. A lui del testo interessava quasi esclusivamente il suono, in particolare la possibilità di spezzettarlo rendendolo incomprensibile: e allora perché scomodare grandi poeti. Un approccio modernissimo che un secolo dopo la sua morte sarà sviluppato dall'avanguardia novecentesca del secondo dopoguerra, soprattutto negli studi di musica elettronica. Beethoven, invece, aveva a volte la pretesa di migliorare i versi che sceglieva, come nel celebre quarto movimento della Nona sinfonia dove l'Ode alla gioia di Schiller - che forse non è il suo miglior lavoro - viene resa come una forza che travalica la scrittura poetica.
Nel Canto del Destino Brahms ha la presunzione di utilizzare un testo per contraddirlo. Operazione di negazione del materiale che trae forza proprio dal valore poetico dei versi di Hölderlin. Non è un procedimento consueto, né in Brahms né in generale, e questo lo rende ancora più significativo: è una scelta precisa. Di solito un compositore sceglie un testo che in qualche modo ricalca il proprio pensiero, che lo stimola senza irritarlo. Brahms no. Il compositore ama il poeta, lo apprezza, ma non né condivide il pessimismo, l'approccio quasi nichilista, l'abbandono senza speranza e vuole dissentire pubblicamente, a modo suo, in musica. "Io sostengo qualcosa che il poeta non dice, e naturalmente sarebbe stato meglio che se la cosa mancante avesse costituto il contenuto principale del componimento", spiega Brahms in una lettera a Karl Reinthaler, il direttore della seconda esecuzione de Un requiem tedesco.
Per Hölderlin l'esistenza umana è fatta di costante incertezza, di continua sofferenza. Non c'è via di scampo, il richiamo al trascendente ha l'unico scopo di intensificare il dolore dell'uomo, costringendo a contemplare da lontano la serenità di dei che vivono nella pace beata, lontani, irraggiungibili e indifferenti. La tensione tra i due mondi resta irrisolta: da una parte gli "spiriti benedetti" che vagano "nell'alto della luce", dall'altro "noi" a cui non è dato "riposo in alcun luogo", un'"umanità sofferente che perisce trasportata casualmente dallo scorrere del tempo". Due sezioni poetiche distinte di cui la seconda è dedicata agli uomini e troncata di netto da un verso che non ammette repliche: "inabbissandosi verso l'ignoto".
Brahms, però, una replica la pretende, una replica tanto forte da negare la tesi del poeta, da trovare una sintesi tra elementi che sembrano inconciliabili e lo fa con l'arma principale a disposizione del musicista: la forma. Adagia i versi "divini" su un musica eterea, lascia al coro, senza solisti, il compito di richiamare l'attenzione degli dei, in qualche modo crea un'atmosfera evocatrice. L'ingresso dei versi "terreni" è invece salutato da un crescendo degli archi che sancisce una netta cesura, un cambio di scena: un atteggiamento estremamente teatrale, non lontano dal principio sul quale si basa l'odierna colonna sonora cinematografica. Fin qui, dunque, nulla di nuovo: quasi un pezzo di maniera, fatta salva la maestria dell'autore che non c'è bisogno di sottolineare. Il colpo da maestro arriva alla fine e ribalta completamente la prospettiva.
All'inizio, ma forse non ce ne eravamo accorti, prima dell'enunciazione dei versi "divini" il compositore aveva proposto un'introduzione al quale sembrava affidare solo il compito di aprire il sipario sul mondo trascendente, di preparare l'ascoltatore ad affrontare senza vertigini le siderali altezze dei "Campi Elisi". Riproducendo lo stesso momento musicale alla fine del brano, dopo i versi pessimisti dedicati agli uomini, Brahms continua il racconto lasciato interrotto da Hölderlin, lo completa, è come se aggiungesse il verso che il poeta non ha voluto scrivere.
La musica è arte della memoria. Tutto quello che è stato non si può cancellare, lascia un segno, modifica per sempre la percezione di chi ascolta. Funziona così nel macro e nel micro. Chi si è immerso nell'arte di Mozart, Stravinskij o Bach non può rimuoverne il ricordo e, consciamente o inconsciamente, relazionerà tutto quello che ascolta con quei capolavori. Allo stesso modo all'interno di un'opera singola quello che si ascolta in un momento specifico viene messo in relazione costantemente con quanto l'ha preceduto. Lo stesso frammento utilizzato in momenti diversi assume dunque significati diversi.
Brahms lo sa, è un maestro della forma, sa soprattutto che in una struttura tripartita, specialmente nella sua epoca, l'ultima parte è percepita come sintesi delle due che l'hanno preceduta. E allora l'introduzione riproposta nel finale non solo tiene in piedi formalmente tutto l'arco narrativo, ma aggiunge al testo un'immagine fatalistica dell'esistenza umana che nasce dalla compenetrazione delle due visioni contrastanti precedenti, esprime una fede. Poche note, quasi un copia e incolla ante litteram, garantiscono all'uomo la possibilità di partecipare alla pace divina. Hölderlin diventa una parte nel tutto di Brahms.

(©L'Osservatore Romano - 26 aprile 2008)

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