25 aprile 2008
Intervista al vescovo Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso dei Latini: "La piccola «divisione» del Papa nella terra di Stalin"
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Intervista al vescovo Giuseppe Pasotto, amministratore apostolico del Caucaso dei Latini
La piccola «divisione» del Papa nella terra di Stalin
di Giampaolo Mattei
"Quante divisioni ha il Papa?". La sprezzante domanda di Stalin, il georgiano più (tristemente) famoso, trova nel Caucaso una efficace risposta: settant'anni di Unione sovietica non hanno sradicato Cristo dalla Georgia, proprio la terra che ha dato i natali al dittatore, dove il Papa una "divisione" ce l'ha sempre avuta, in clandestinità negli anni bui e alla luce del sole oggi. I cattolici sono un "piccolo gregge" che ha tre riti: latino, armeno e siro-caldeo. Più o meno cinquantamila persone, una esigua ma intraprendente "divisione" del Papa, sopravvissuta alle persecuzioni con atti anche eroici come la difesa della chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Tbilisi, rimasta sempre aperta - l'unica, a parte la moscovita San Luigi dei Francesi - per il coraggio di una manciata di preti, suore e laici.
La Georgia oggi è un crocevia strategico internazionale ben noto agli esperti di geopolitica perché fa gola agli stati potenti. Un paese contraddittorio, ricco di tradizioni ma attanagliato da una grande povertà seguita alla disintegrazione dell'Urss. Ha conosciuto un crollo vertiginoso, tra violenze e disfacimento economico e sociale, tanto che ora risalire la china è difficile ma certo non impossibile: soprattutto se si fa leva sulla radicata tradizione cristiana dei georgiani. La stragrande maggioranza della popolazione è infatti ortodossa: i musulmani sono l'undici per cento mentre i cattolici arrivano a poco più dell'uno per cento.
A tracciare un quadro della realtà della Georgia, tra luci e ombre, è in questa intervista il vescovo Giuseppe Pasotto, stimmatino veronese, in missione in quella terra da quattordici anni con il titolo di amministratore apostolico del Caucaso dei latini. Nella mattina di giovedì 24 aprile è stato ricevuto in udienza da Benedetto XVI.
Che cosa ha detto al Papa?
Ho presentato le tre strade che, come Chiesa in Georgia, abbiamo intrapreso dopo il nostro primo sinodo appena concluso: comunione, formazione e servizio attraverso il laicato. Queste sono le tre realtà più importanti, ma anche più complesse. Richiedono una buona dose di coraggio.
Cominciamo dalla comunione.
La Georgia è una terra che ha particolare bisogno di comunione per via delle diversità di razze, popoli e lingue ma anche di religioni, chiese e riti. In questo variegato contesto la comunità cattolica ha il dovere di testimoniare il valore dell'unità, della comunione, dell'universalità della fede cristiana. Viviamo in una terra evangelizzata fin dai tempi apostolici e vogliamo mettere in risalto la priorità della comunione, come dono e contributo per tutti.
Quali ostacoli vi trovate davanti?
La cosa che più ci sta a cuore è il dialogo con gli ortodossi che in Georgia sono la maggioranza. Ma stiamo incontrando tante difficoltà e questo ci fa soffrire. Molto. Ultimamente sono sorte anche questioni serie nella vita quotidiana, create specialmente da qualche gruppo di fanatici. C'è una commissione mista ma non riusciamo a fare passi in avanti. Sempre più persone mi confidano di soffrire per questa situazione di mancanza di dialogo e di relazioni fraterne. Facciamo il possibile, ma a volte ci sentiamo impotenti. Restiamo comunque ottimisti e sempre aperti al dialogo.
Quali sono i punti controversi nel rapporto con gli ortodossi?
Purtroppo ancora non siamo riusciti a far riconoscere la validità del sacramento del battesimo amministrato nella Chiesa cattolica. A questo proposito ho portato al Papa una lettera che alcuni nostri giovani hanno scritto per raccontare la loro sofferenza, le loro lacrime. Desiderano sentire vicina la Chiesa universale, non vogliono restare soli alle prese con un problema che sentono fortemente sulla loro pelle: avvertono la responsabilità di contribuire al dialogo ecumenico.
Cosa hanno scritto i giovani al Papa?
I giovani incontrano gravi difficoltà quando si sposano e da noi è normale che a formare una famiglia siano cattolici e ortodossi. Ma se si sposano in una chiesa ortodossa i cattolici vengono ribattezzati; se invece il matrimonio si celebra in una parrocchia cattolica sono gli ortodossi a venire esclusi dalla loro Chiesa. Una situazione che, in tantissimi casi, porta i giovani ad allontanarsi dalla pratica religiosa. Con gli ortodossi non siamo riusciti a dialogare su questa come su altre questioni. Continuiamo fraternamente a insistere perché non possiamo, come pastori, fare questo ai nostri giovani.
La soluzione quale potrebbe essere?
Innanzitutto stare ancora più vicini ai giovani. Riguardo alle relazioni con gli ortodossi, crediamo fermamente che la comunione tra i cristiani sia la prima cosa. Dobbiamo comprenderci e alimentare con fiducia il dialogo, senza stancarci, anche quando le cose non vanno bene perché non c'è alternativa per superare freddezze e pregiudizi. E riconoscere le tante realtà positive. Ad esempio tra pochi giorni gli ortodossi festeggiano la Pasqua. È bello vivere la liturgia insieme, ma è una ricchezza anche se le liturgie non coincidono. Si partecipa meglio alla festa dell'altro.
Il secondo punto è la formazione.
Abbiamo puntato sul sistema di crescere lentamente, ma su basi solide. Stiamo portando avanti un grande lavoro nel campo educativo, fondamentale per il dialogo con la società. Abbiamo anche un istituto di teologia che ha professori e studenti non solo cattolici. È un segno di speranza. C'è anche un centro culturale e pensiamo anche di aprire nuove strutture con l'obiettivo della formazione.
Il terzo punto è il servizio. La Caritas georgiana è una realtà molto apprezzata anche dalle istituzioni governative.
Abbiamo una Caritas efficiente che ha iniziato a lavorare nel 1993, appena è stata eretta l'amministrazione apostolica. È il nostro fiore all'occhiello. In questi anni ha svolto un servizio straordinario e da tutti riconosciuto, curando i malati, accogliendo i poveri e i bambini. Ora la Caritas deve diventare sempre più espressione della comunità e non solo un indispensabile centro di aiuti. Dobbiamo pensare anche alla formazione e a dare lavoro, in una prospettiva di speranza.
Come è organizzato il servizio caritativo?
Tutti siamo impegnati in prima linea sul fronte della carità. Contiamo, in particolare, sull'opera dei camilliani che hanno un poliambulatorio, un centro per ragazzi disabili e anche un grande ospedale in Armenia. La Caritas testimonia che cosa vuol fare la Chiesa cattolica nel paese. Ed è un'opportunità di dialogo. Il novanta per cento del personale della Caritas è ortodosso. Lo stesso patriarca Ilia II ha riconosciuto il valore del nostro servizio e il fatto che apriamo le porte a tutti, senza badare a religione o altro.
Siete tutti impegnati sul fronte della carità per via della drammatica situazione di povertà che c'è nel paese?
La povertà è una grande tragedia per la nostra gente. Dopo il crollo del comunismo la Georgia, che non stava male rispetto alle altre repubbliche dell'Urss, è caduta in basso. La vita economica e sociale è stata sconvolta. Miseria e disoccupazione sono a livelli altissimi. Io stesso ho visto il cambiamento rispetto ai primi anni: c'erano acqua, luce, gas e poi più niente. Adesso la situazione sta lentamente riprendendo, soprattutto nelle città. Ma nei paesi la povertà è impressionante. Noi dobbiamo contribuire a dare speranza.
Come può un "piccolo gregge" dare speranza a un intero popolo?
La Chiesa cattolica è piccola. Ma è una presenza significativa e apprezzata da sempre. I georgiani hanno di continuo cercato e avuto contatti con Roma. Oggi, a livello statale, non siamo riconosciuti come Chiesa. Non abbiamo personalità giuridica. Anche se c'è stima nei nostri confronti.
Chi sono i cattolici georgiani?
Il discorso sulla comunione vale anche nel campo cattolico. Tra latini, armeni e siro-caldei a volte non è facile vivere la comunione piena. Il 16 maggio a Tbilisi, per la prima volta, ci sarà un incontro tra i sacerdoti dei tre riti per un'esperienza di fraternità e anche per programmare un'azione comune.
Qualche numero per comprendere meglio la situazione?
Siamo venti sacerdoti di rito latino: due georgiani, un francese, il resto italiani e polacchi. Tra noi c'è un clima di fraternità. Abbiamo venticinque comunità e diverse congregazioni religiose maschili e femminili. Ci sono quindici chiese mentre cinque che sotto l'Urss vennero requisite e consegnate agli ortodossi non ci sono state ancora restituite. Puntiamo molto sul laicato a cui diamo sempre più responsabilità. Stiamo pure formando dodici diaconi permanenti. Inoltre alla comunità latina si aggiungono un sacerdote siro-caldeo, con due comunità molto attive di circa tremila fedeli, e gli armeni con una decina di sacerdoti e un vescovo.
C'è anche un piccolo seminario.
È il segno di una crescita che non è solo numerica ma di identità e consapevolezza. I seminaristi sono cinque. Nati in Georgia, formano però un miscuglio di provenienze. Hanno storie diversissime. Hanno conosciuto la guerra, l'esilio, come pure il calore di una famiglia cristiana o l'esperienza della conversione. Insieme con loro studiano quattro giovani armeni. Presto avremo le prime due ordinazioni. Le prospettive sono incoraggianti.
Che cosa vi aspettate dalle diocesi più grandi e che cosa voi potete offrire loro?
Se missionarietà vuol dire scambio, questo può esserci sempre e comunque, anche nel caso di una piccola e povera comunità come la nostra. È importante sentirsi in comunione con tutti: viviamo con fatica e andiamo avanti solo con il sostegno di altre Chiese. Ma qualcosa possiamo darlo pure noi. Respirando accanto alla Chiesa ortodossa abbiamo sviluppato la cura per la liturgia, l'attenzione alla dimensione spirituale, al mistero. E comunichiamo questa ricchezza. Quando poi qualcuno viene a farci visita gli mostriamo il positivo che c'è nella nostra terra, nella nostra gente. Con questo spirito abbiamo aperto un'agenzia turistica gestita dai nostri giovani.
Avete una pastorale giovanile?
Il nostro obiettivo è aiutare i giovani ad aprire il loro sguardo su una realtà più ampia, ma anche disilluderli sull'idea troppo ottimista che hanno dell'occidente. In verità i giovani nelle nostre chiese non sono moltissimi. Le comunità, infatti, si sono impoverite perché i giovani continuano a partire per l'estero in cerca di un lavoro, di certezze, di un futuro migliore. In Georgia è emigrato un milione e mezzo di persone su una popolazione di cinque milioni.
L'esodo di giovani che cosa comporta?
È un fatto che ci costringe sempre a ricominciare daccapo: quando li abbiamo formati li vediamo partire per l'estero. Risentiamo tanto di questa catena di emigrazione, le nostre comunità dieci anni fa erano molto più ricche di giovani. A partire, poi, sono sempre i più preparati, quelli che hanno più talenti e una mentalità più aperta.
Lei è in Georgia dal 1994. Un bilancio?
La Georgia oggi è la mia terra. Sono pronto a dare la vita per la mia gente. Questo vale anche per gli altri sacerdoti che sono lì e sentono fortemente la loro missione. È un'avventura partita dal nulla e fatta di tanti incontri e di tante grazie inaspettate: la visita di Giovanni Paolo II nel 1999, la riapertura della cattedrale a Tbilisi, il sinodo... Sappiamo di essere deboli. Ma sappiamo anche di non essere soli.
(©L'Osservatore Romano - 25 aprile 2008)
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