27 aprile 2008

Storia e attualità di un'esperienza monastica femminile ambrosiana: "Alla mensa imbandita di Ambrogio" (Osservatore)


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Storia e attualità di un'esperienza monastica femminile ambrosiana

Alla mensa imbandita di Ambrogio

di Maria Matilde Menni
Abbadessa delle Romite dell'Ordine
di Sant'Ambrogio ad Nemus

A Milano "incontrai il vescovo Ambrogio, noto in tutto il mondo come uno dei migliori, e tuo devoto servitore. In quel tempo la sua eloquenza dispensava strenuamente al popolo la sostanza del tuo frumento, la letizia del tuo olio e la sobria ebbrezza del tuo vino. (...) Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non mi interessavo al contenuto, anzi, lo disdegnavo. La soavità della sua parola m'incantava. (...) Pure, insieme alle parole da cui ero attratto, giungevano al mio spirito anche gli argomenti, (...) e mentre aprivo il cuore ad accogliere la sua predicazione feconda, vi entrava insieme la verità che predicava".

Con queste note parole Agostino descrive il fascino che Ambrogio aveva esercitato su di lui, il fascino che aveva su chi lo vedeva e lo ascoltava predicare. Ma come può Agostino parlare così di un uomo che non aveva prestanza, salute e bellezza fisica, che non aveva voce potente e armoniosa? Né il suo ascendente può attribuirsi al suo pur grande prestigio culturale. Molti uomini del suo tempo, colti come lui o anche più di lui, sono passati senza incidere sui cuori e sulla storia e sono entrati in breve nel silenzio della dimenticanza. Ambrogio invece lasciò un segno forte e duraturo e il suo episcopato milanese, durato poco più di vent'anni, ebbe un'influenza, decisiva nella sua epoca, che poi lungo i secoli sempre mostrò fecondità, per giungere ai nostri giorni ancora misteriosamente capace di plasmare la vita cristiana.
Al di là certamente delle sue intenzioni e della sua consapevolezza, il nome di Ambrogio segnò la preghiera e nacque la liturgia ambrosiana che passò indenne dentro le burrasche dei tentativi di soppressione e di omologazione e ancora splende delle sue antichità preziose, non come ricchezza archeologica, ma come viva espressione di fede orante.

Tanta fu la forza del suo magistero e il fascino della sua presenza che il nome di Ambrogio segnò la Chiesa di cui fu pastore e prese corpo la Chiesa ambrosiana la quale con la sua propria e precisa fisionomia visse, e anche oggi vive, l'appartenenza alla Chiesa universale e l'unità obbediente con la Chiesa di Roma, secondo la bella definizione di Ambrogio stesso: Ubi Petrus, ibi Ecclesia.

Ed è un caso unico, questo: nessun antico padre, nessun grande vescovo, nessun pastore ha dato il suo nome a una Chiesa.
Il nome di Ambrogio segnò la gente di queste terre che divenne il popolo ambrosiano. Quella gente quasi istintivamente riconobbe nell'uomo che Dio aveva posto in mezzo a loro colui attorno al quale far coesione, trovare unità, diventare appunto popolo aggregato dalla fede.
E si parla anche di terra ambrosiana, quasi a dire che persino la regione, il territorio, si riconosce caratterizzato, qualificato dal riferimento a sant'Ambrogio.
Fiorì poi il monachesimo ambrosiano. È ancora Agostino che provvidenzialmente dà notizia di questo: "A Milano fuori dalle mura della città esisteva un monastero popolato da buoni fratelli sub Ambrosio nutritore". Sub Ambrosio nutritore, espressione bellissima e quasi intraducibile nella sua densa e sintetica significanza: alimentati, sostenuti, nutriti da Ambrogio. Forse Ambrogio li sosteneva materialmente, ma in quel "nutritore" c'è di più: il vescovo era per loro colui che li nutriva e li guidava con la ricchezza del suo insegnamento, come un padre nutre dei figli, come un pastore guida il gregge alla pastura. In legame ideale con quel gruppo di monaci trasse origine l'ordine maschile che si chiamò "di Sant'Ambrogio ad Nemus", al bosco, appunto, perché fuori dalla città. Fu presente per secoli, con insediamenti in varie località e anche a Roma, in San Clemente all'Urbe.
Quel seme dopo più di un millennio inaspettatamente germogliò di nuovo.

Germogliò dando vita alla nostra famiglia monastica delle Romite di Sant'Ambrogio ad Nemus, quando due giovani, Caterina da Pallanza e Giuliana da Busto-Verghera e le loro prime compagne, dopo aver vissuto per alcuni anni un'intensa esperienza eremitica, chiesero e ottennero, nel 1474, il riconoscimento della Chiesa come cenobio e le costituzioni dell'antico ordine santambrosiano, le cui forme, adattate ad una comunità femminile, vennero sempre nei secoli adeguate alle diverse esigenze dei tempi, pur conservando l'originario spirito. Da allora, nell'ininterrotta presenza delle Romite Ambrosiane continua a vivere l'esperienza monastica sub Ambrosio nutritore.

Caterina, fin da ragazza devota a sant'Ambrogio, nutrita dal suo insegnamento che coglieva nella predicazione e nel clima spirituale della Chiesa milanese, da lui aiutata quando nella preghiera cercava i segni della volontà di Dio per la sua vita, giunse a Santa Maria del Monte sopra Varese e qui iniziò la sua vita eremitica. Questa bella montagna, dove noi ancora dimoriamo, era dall'antichità misteriosamente segnata dalla presenza di Ambrogio: secondo la tradizione qui egli aveva sconfitto l'eresia ariana e qui aveva collocato un primitivo luogo di culto a Maria, che gli aveva propiziato la vittoria. Mai nei secoli si interruppe questo legame e sulla memoria viva di questa leggenda fiorì il santuario dove la Madonna è venerata da innumerevoli generazioni di pellegrini. E dobbiamo leggere bene la leggenda: l'eresia ariana che, detto sommariamente, nega o appanna la divinità di Gesù, è veramente vinta dalla verità dell'Incarnazione. Ma è nella verginità feconda di Maria il segno della sua maternità divina e quindi della divinità di Gesù, suo figlio. Colei che all'annuncio dell'Arcangelo rispose: "Come è possibile? Non conosco uomo", colei che vergine generò e partorì, colei che fu Madre e Vergine, testimonia in modo unico che il figlio da lei nato è Figlio di Dio, è Dio egli stesso. Con singolare amore Ambrogio in tutta la sua opera parla di Maria: da lei riceviamo "l'emblema della fede"; lei "operò la salvezza del mondo e concepì la redenzione di tutti gli uomini"; da lei il Signore, volendo redimere il mondo, iniziò l'opera sua. Se la tradizione ambrosiana sviluppò in senso antiariano la riflessione sul mistero del Verbo fatto carne, si può pensare che da Santa Maria del Monte, proprio dal santuario dedicato alla Madre di Dio, si irradiò nel territorio circostante un'opera di evangelizzazione dai tratti essenzialmente cristocentrici. La venerazione alla Vergine Madre poté salvare la fede dall'errore ariano. Su questo monte, alto su tutta la diocesi ambrosiana, noi Romite, alla scuola del nostro antico Padre e nutrite ancora oggi dalla sua spiritualità, continuiamo umilmente a testimoniare con la nostra vita donata a Lui che Gesù è Dio e Signore.
Da Ambrogio impariamo la centralità di Gesù Cristo, che "è il seme di tutte le cose". Gesù è lo "Splendore della gloria del Padre" e la vera fede vede "quant'è grande la gloria, quant'è stupenda la bellezza posta nel Verbo di Dio", vede in Lui "lo splendore senza confini della divinità", vede che "messo in croce, trionfa sulla morte" e vede "la bellezza della risurrezione". Sgorga la preghiera: "Supplichiamo il Verbo di Dio, affinché si mostri a noi nel suo aspetto e nella sua bellezza". E poiché "conoscere il Figlio di Dio è la fede giunta a perfezione", sant'Ambrogio ci conduce a scrutare con passione ogni aspetto del mistero di Cristo e a lasciarci sedurre dal suo amore e dal suo splendore. Cristo affascina potentemente, Cristo incanta: "La Chiesa ha per incantatore il Signore Gesù", e nella Chiesa ogni credente è attratto, conquistato, e difeso nella sua fedeltà dal "cantico di Cristo" che ogni giorno in essa viene cantato.
Da Ambrogio impariamo ad amare la Chiesa, che "rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo e prende il proprio splendore dal Sole di giustizia"; la Chiesa che è "santa, della stessa santità che è su di lei riflessa dal suo Salvatore". La Chiesa, luogo certo della presenza di Cristo: "Sta' nella Chiesa; sta' dove ti sono apparso: ivi sono con te".
Da Ambrogio impariamo a gustare la Parola di Dio che "rafforza il cuore dell'uomo (...), dolce come il miele, (...), che inebria come il vino e rallegra il cuore dell'uomo". Sempre bella è in proposito la testimonianza diretta di sant'Agostino che narra di quando cercava Ambrogio e lo trovava immerso nella lettura con la quale, nei pochi istanti liberi, ristorava l'anima: "i suoi occhi correvano sulle pagine". "Queste erano le gioie che assaporava nel ruminare il tuo pane entro la bocca nascosta del suo cuore".
La Parola è luogo di dinamico rapporto: "Parliamo con Dio quando preghiamo; lo ascoltiamo quando leggiamo gli scritti ispirati da Dio" e di contemplazione: "In ogni sua parte la Sacra Scrittura esala la bellezza di Dio". "C'è una rugiada per la vergine, la parola divina". Ambrogio nella Scrittura, in tutta la Scrittura, ha amato il Signore Gesù, e proprio questo ci insegna: "Il Signore Gesù fece sgorgare l'acqua dalla roccia e tutti bevvero. Quelli che bevvero nella figura, furono sazi; quelli che la bevvero nella verità, furono inebriati (...) Bevi dunque tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo (...) Il suo discorso è l'Antico Testamento, il suo discorso è il Nuovo Testamento. La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora (...) Bevi questa parola, ma bevila secondo il suo ordine: prima nell'Antico Testamento, e passa presto a berla anche nel Nuovo Testamento".
Da Ambrogio impariamo la bellezza della liturgia: "Gli angeli lodano il Signore, a lui salmodiano le potestà dei cieli (...) cantano come una cascata di voci: Alleluia (...) Dio si compiace di venire lodato col canto (...) Che cosa vi è di più bello del salmo?(...) Il salmo infatti è benedizione del popolo, lode a Dio (...) parola universale, voce della chiesa, canora professione di fede, (...) esultanza della gioia (...) lo spuntare del giorno fa risuonare il canto del salmo, col canto del salmo risponde il tramonto". Convinto del valore della "canzone della lode a Dio", come sappiamo egli stesso fu poeta e musicista di quei magistrali e stupendi inni con cui ancora oggi noi preghiamo la nostra fede e cantiamo i misteri della salvezza operata da Dio.
Da Ambrogio impariamo a lasciarci colmare dal dono dei sacramenti, in particolare a lasciarci inebriare dall'Eucarestia. I sacramenti, nella dinamica ambrosiana della storia della salvezza scandita in umbra, imago, veritas, si situano come la Chiesa nella imago; ma l'imago contiene già la veritas cui tende: "Ora vediamo il bene attraverso l'immagine e possediamo il bene nell'immagine". Così l'Eucarestia è già pieno possesso di Cristo, ma sotto il segno del sacramento, è insieme imago e già veritas: Ubi Christi corpus, ibi veritas. Nell'Eucarestia siamo già in possesso della salvezza che sarà piena nell'eternità: l'Eucarestia ci conduce all'ottavo giorno della Gerusalemme celeste, alla celebrazione della Pasqua eterna, alla pienezza della resurrezione, al compimento della nostra speranza. Nel "sacramento della nostra salvezza" "beviamo il nostro riscatto, affinché, bevendo, veniamo redenti". Questa comunione vera e totale al mistero di Cristo dona al credente una "sobria ebbrezza": "Ogni volta che tu bevi, ricevi la remissione dei peccati e ti inebri dello Spirito (...) chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo. Perciò è un'eccellente ebbrezza, perché produce la sobrietà della mente". È un'ebbrezza "sobria", perché è propria di colui che possiede Cristo nel segno sacramentale; la spiritualità di Ambrogio è attenta alla normalità della vita cristiana e propone l'incontro con Dio e l'ingresso nei suoi misteri attraverso la via "ordinaria" dei sacramenti, destinata a tutti i battezzati, che hanno in Cristo il nutrimento per la fede e insieme il premio della felicità: "Cristo sia nostro cibo, nostra bevanda sia la fede; lieti beviamo la sobria ebbrezza dello Spirito".
Anche una sana ed equilibrata antropologia ci insegna sant'Ambrogio. Egli ci dice che "L'uomo è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni essere creato", ma mai dimentica che siamo segnati dal peccato originale e peccatori e proprio a partire dalla nostra reale miseria scopre una nostra più vera e stupefacente grandezza, dono ancora più splendido dell'amore di Dio: "Non mi glorierò perché sono esente da peccati, ma mi glorierò perché i peccati mi sono stati rimessi (...) La mia colpa è divenuta per me il prezzo della redenzione, attraverso cui Cristo è venuto per me. Per me Cristo ha assaporato la morte. È più proficua la colpa dell'innocenza". Con una mirabile immagine teologica e poetica Ambrogio ci mostra il Creatore finalmente felice dopo aver creato l'uomo, suo capolavoro, l'essere a cui rimettere i peccati: "Creò il cielo, e non leggo che si sia riposato; creò la terra, e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, le stelle, e non leggo che nemmeno allora si sia riposato; ma leggo che ha creato l'uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati". Con gran libertà e originalità Ambrogio sembra persino dirci che Dio crea l'uomo per essere misericordioso, e quasi osa, mentre dice chi è l'uomo, rivelarci chi è questo Dio che quando crea manifesta come sua compiuta prerogativa la misericordia che redime. Emblema di questa condizione propria di ogni uomo è Pietro stesso che, caduto nel tradimento, sotto lo sguardo di Gesù ritrovò nel perdono la sua piena dignità. Con lui ciascuno di noi può pregare: "Guarda anche noi, Signore Gesù, affinché (...) meritiamo il perdono dei peccati".
Da Ambrogio impariamo poi il senso della verginità consacrata, che è partecipazione al mistero della Chiesa "sposa per l'amore, vergine per l'intatta purezza". Egli dedicò gran parte della sua attenzione pastorale proprio a promuovere e sostenere la scelta verginale, anche come espressione di dignità della donna riconosciuta nella Chiesa e nella società, in un contesto di decadenza morale e di insufficiente comprensione dell'identità femminile. La verginità è scelta libera: "non può essere imposta, deve essere desiderata"; ma è un dono: "la sua patria (...) è senza dubbio in cielo" ed è un riverbero dell'Incarnazione: "Dopo che il Signore, venendo in questo corpo, congiunse la divinità e il corpo (...) allora fiorì in tutto il mondo un modo di vivere celeste nelle membra umane". Per questo Cristo è "autore" della verginità consacrata. Quindi Cristo è il centro della vita della vergine: "Tutto abbiamo in Cristo (...) e Cristo è tutto per noi". Lei lo cercherà sempre: "Cristo vuole essere cercato a lungo" e "vuole essere cercato molto spesso"; ma egli per primo l'ha amata: "tale ti ha desiderata Cristo, tale Cristo ti ha scelta" e "poiché egli è amore, con frecce d'amore ferisce coloro che lo cercano. E incatena quelli che lo seguono (...). E sono catene d'amore". "Tu, vergine, (...) medita continuamente il Cristo e ad ogni istante spera nella venuta"; "Quando verrà ti trovi desta, in modo da essere pronta. Dorma la tua carne, vegli la tua fede (...) Le tue membra profumino della croce di Cristo e dell'aroma della sua sepoltura". A questa attesa della sposa il Signore risponde: ella "non è mai da lui abbandonata; anzi egli spesso le farà visita. Egli infatti resta con noi fino alla fine del mondo". E lo sguardo di tutta la vita è fisso alla meta: l'incontro con lo Sposo redentore, così poeticamente descritto: "A quante vergini andrà incontro Maria; quante, abbracciandole, trarrà al Signore (...) Come lo stesso Signore le raccomanderà al Padre: (...) "Padre santo, queste sono quelle che ti ho custodite, sulle quali il figlio dell'uomo ha posato il capo per riposare. Ti chiedo che ove sono io siano anche loro. Ma non per se sole devono potere, dal momento che non sono vissute per se sole: questa redima i genitori, questa i fratelli" (...) Quale trionfo sarà quello, quale grande letizia di angeli plaudenti, per il fatto che meriti di abitare in cielo colei che ha vissuto una vita celeste nel mondo. Allora ognuna esulterà dicendo: "E andrò all'altare del mio Dio, a Dio che rallegra la mia giovinezza"".
Questa varia eppur ancora tanto incompleta rassegna di temi ci fa cogliere qualcosa della grandezza di questo nostro Padre e Maestro nella fede e ci aiuta a capire come nel lungo tempo che ci separa da lui egli abbia potuto restare fermo punto di riferimento per la vita cristiana e anche per la vita sociale.
Tornando alle prime righe di questo nostro contributo: qual è il segreto di questa sua antica e nuova fecondità? Qual è il segreto della sua perenne attualità? Come mai tanta gente ancora oggi lo ama più di quanto conosca forse la sua opera? Certo molte sono le possibili risposte. Desideriamo proporne una abbastanza sintetica.
Il tempo di Ambrogio era segnato da una certa crisi: lento declino della cultura romana, decadimento morale, disorientamento religioso, fatica di incontro con popoli diversi, confusione sociale, debolezza ecclesiale. La Provvidenza suscitò il vescovo Ambrogio e attraverso di lui ridonò al popolo cristiano una forte identità, creò quella "Chiesa piena" di cui parla stupito e affascinato Agostino. La nostra epoca è tanto lontana e diversa, ma pure ci sono analogie evidenti e certe nostre debolezze sembrano le stesse di allora: forse per questo sant'Ambrogio può dire una parola chiara e persuasiva anche a noi, può risvegliare in noi la coscienza della nostra identità cristiana e quindi una più matura capacità di presenza ecclesiale e di accoglienza autentica di chi è diverso, può ancora raccoglierci nella "pienezza" della Chiesa attorno al Signore Gesù, "solo e vero Maestro".

(©L'Osservatore Romano - 27 aprile 2008)

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