11 maggio 2008

La portata profetica dell’«Humanae Vitae»


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La portata profetica dell’«Humanae Vitae»

Emerge la lungimiranza del pronunciamento di Paolo VI, che pure scontò solitudine e incomprensioni

Giulia Galeotti

«La voce della nostra coscienza, interrogata lungamente davanti a Dio, ci ha indotto a rivolgere alla Chiesa e al mondo questa parola» scrisse Paolo VI dopo la pubblicazione dell’enciclica «Humanae Vitae» nel 1968. Quarant’anni dopo, questa parola ha rivelato in pieno la sua forza profetica, essendo riuscita a cogliere molti dei nodi cruciali che si sarebbero presentati al mondo.
È ciò che è emerso dall’importante congresso internazionale «Custodi e interpreti della vita - Attualità dell’Enciclica Humanae Vitae» che si è chiuso ieri, all’Università Lateranense di Roma.
Sin dal Concilio Vaticano II, il mondo cattolico aspettava un pronunciamento ufficiale sul controllo delle nascite e, in particolare, sulla pillola messa a punto da Gregory Pincus. Per questo, nel 1963 Giovanni XXIII aveva nominato una Pontificia commissione per lo studio dei problemi della famiglia e della natalità, anche al fine di valutare la conformità alla dottrina del nuovo contraccettivo chimico. I lavori della commissione - che Paolo VI aveva ampliato da 6 a 75 membri, in prevalenza laici (scienziati, medici, demografi, teologi e tre coppie di coniugi) - furono molto animati: la maggioranza era favorevole ad una revisione della dottrina in tema di contraccezione, la minoranza decisamente contraria (nel giugno 1966, in sede di votazione dopo tre giorni di dibattito, 9 dei 15 vescovi e 11 tra i 15 teologi votarono a favore della pillola). Ma nell’«Humanae Vitae», Paolo VI, tenendo conto sia del magistero pontificio sia delle novità conciliari sul matrimonio, ribadì il favore della Chiesa verso la sola contraccezione naturale. Veniva infatti rifiutata con forza la cultura occidentale, molto diffusa all’epoca, che, in nome dell’edonismo, demonizzava l’esplosione demografica dei Paesi poveri, tentando di imporre loro politiche di pianificazione familiare.
Ma se l’enciclica risultò estremamente coraggiosa nel farsi portavoce di popoli e culture che all’epoca nulla contavano, essa non venne capita dai più.

Gli attacchi furono, e continuarono ad essere, numerosissimi, venendo perfino (il che costituiva una novità) dall’interno dell’episcopato e del clero.

Oltre alla generica critica di chiusura e rifiuto della modernità, oltre al fatto che l’enciclica fu presa ad emblema dell’intransigenza ecclesiale in materia sessuale e scientifica, Paolo VI venne accusato di non aver rispettato il principio della collegialità né l’autentico «spirito» del Vaticano II.
Buona parte delle critiche, come ha ricostruito al convegno la prof.ssa Lucetta Scaraffia, si inseriscono in quel processo di secolarizzazione avviato dal primo ’800, e che ha operato su un duplice livello. Da un lato si contesta alla Chiesa la possibilità di parlare di sesso (riservandola al solo discorso scientifico), dall’altro viene radicalmente criticata la morale sessuale cristiana, avvertita come innaturale, portatrice di infelicità e storture sociali. Eppure quel sogno di un’assoluta libertà sessuale, teorizzata e propugnata variamente nel ’900, libertà che avrebbe condotto alla felicità senza limiti, si è rivelato un’utopia. Nonostante il sesso libero, la programmazione familiare, il routinario controllo delle nascite e il susseguente tasso di natalità in costante flessione, infatti, l’infelicità è ancora di questo mondo.
Questa infelicità, resasi nel tempo più disperata ed assoluta, ha coinvolto anche la relazione uomo-donna, che oggi sembra essersi smarrita. Claudio Risè ha sviscerato la questione, focalizzandosi sulla denuncia di una secolarizzazione arrivata a coinvolgere la famiglia, il rapporto tra i coniugi, la loro sessualità, affettività e capacità riproduttiva. In questo modo, «l’originaria relazione con Dio viene espulsa da queste esperienze e, con essa, la disponibilità e il sapere di quel "reciproco donarsi" che l’aveva caratterizzata. Subentra allora un’esperienza profonda di vuoto, nella quale l’individuo non si sente più legato dall’originaria dipendenza della situazione creaturale; è libero, ma è anche solo». Come ha ribadito, pur muovendo da tutt’altra ottica, la prof.ssa Marta Brancatisano, «la cultura della contraccezione ha spostato l’amore umano dal suo status originario di somiglianza con Dio a quello umano, dove è l’uomo da solo che disegna se stesso e la vita. Un disegno che intende annullare i rischi e che inavvertitamente carica uomo e donna di una responsabilità solitaria».
Espulso Dio ed espulsa l’apertura alla vita in nome del piacere, quando questo si rivela nella sua portata effimera e limitata, si creano nuovi miti, parimenti distruttivi. È il caso di uno tra gli effetti culturali della rivoluzione demografica emerso dal testo del sociologo francese Paul Yonnet, quello del concepimento e della nascita di bambini individualmente desiderati. Ebbene, ciò ha generato «una rottura totale e senza eguali nel modo di riproduzione della vita, della specie umana». Da rivoluzione della quantità, la rivoluzione demografica ha scatenato una rivoluzione della qualità. Con effetti ed esiti sotto gli occhi di tutti.
L’adulto autosufficiente è così il modello centrale delle nostre società. Con la conseguenza, ha spiegato Eugenia Roccella, che deboli, vecchi, bambini e malati vengono esclusi e rimossi. Tutto ciò che è fuori dal modello va prevenuto, ingaggiando una gara contro la varietà naturale, contro la differenza che finisce per essere uno tra i sommi disvalori. Serge-Thomas Bonino è stato chiaro nell’argomentare che, dal momento in cui la natura cessa di dettare legge, da quando il logos del corpo diviene incomprensibile per il logos dello spirito, i concetti di paternità e maternità, come tutti i concetti che si fondano sulla relazione, cessano di esistere. Un certo modo di affidarsi alla tecnica in nome della razionalità comporta infatti di rinunciare alla responsabilità. Proprio nell’«Humanae Vitae» Paolo VI scriveva (ha ricordato Francesco D’Agostino) che la Chiesa «impegna l’uomo a non abdicare alla propria responsabilità per rimettersi ai mezzi tecnici». Quarant’anni dopo, ci accorgiamo ch’è proprio questo ciò che abbiamo fatto.
Oggi che scienza e tecnica sono diventate parte integrante della vita quotidiana non certo in un’ottica curativa, ma al fine di rimodellarci, di riassettare noi stessi, la realtà e la vita stessa, ecco che quel messaggio ci vuole invitare a ricordare che «il fondamento della responsabilità l’uomo lo può proiettare fuori di sé, solo al prezzo di negare la sua stessa libertà» (D’Agostino). Biomedicina e biotecnologie consentono di dilatare immensamente l’ambito di controllo funzionale della realtà del vivente, ma certo «non ne favoriscono una migliore percezione di senso, perché la funzionalità è intrinsecamente cieca, dato che non contiene in sè il proprio fine». Se le frenetiche e continue scoperte introducono possibilità sempre nuove di manipolare il vivente, ciò richiede attenzione «non solo per le potenzialità di pericolo che tale manipolazione porta con sé, ma soprattutto per la dimensione di potenza che la contraddistingue». Ma l’uomo, ha concluso D’Agostino, «non può autoconferirsi una dignità, non più di quanto possa inventare un senso da donare alla realtà e al suo stesso agire. L’uomo non è uomo perché così egli sappia e voglia costruirsi, ma perché è stato voluto e costruito da un altro-da-sé. La dignità non è un prodotto, ma un dono il cui valore va semplicemente riconosciuto».
Tutto questo si è tradotto in un aspetto interessante affrontato dalla norvegese Janne Haaland Matlary, sul relativismo che imperversa nella politica europea, e su una lettura preoccupante dei diritti umani. Oggi, infatti, in Europa «non esiste una base chiara di diritti umani, ma una lotta intensa sulla loro interpretazione e spesso una grande discrepanza fra ciò che uno Stato proclama nelle conferenze internazionali ufficiali e la sua politica interna». Se la situazione risulta così bizzarra, «il paradosso è ancor più lampante se consideriamo la tendenza a non definire affatto i valori che sottendono la democrazia europea, ossia la tendenza a un totale soggettivismo, perfino al nichilismo».
Un panorama decisamente complesso, dunque, è quello che emerge a quarant’anni dall’«Humanae Vitae». Ascoltando i relatori, con il senno di poi si potrebbe dire, colpisce ancor più la lungimiranza e la vera, profonda portata profetica dell’enciclica di Montini. Come ha descritto il prof. Vian, la redazione di questo testo vide il Pontefice agire in grande solitudine, un peso affrontato nella ferma consapevolezza di ciò che si sosteneva. «Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del nostro ufficio» scriverà anni dopo Paolo VI: «Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato. Ma non abbiamo avuto dubbio sul nostro dovere di pronunciare la nostra sentenza nei termini espressi dalla presente enciclica». Un dovere difficile da sopportare per l’Uomo di Dio, con il risultato però di aiutare e sostenere tanti uomini e tante donne negli anni difficili e complessi che l’umanità ha vissuto e sta vivendo.

© Copyright Il Giornale di Brescia, 11 maggio 2008

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